il racconto della vita cheta

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Mi sembrava solo una piccola paura quella tua commiserazione al mio parlare di vita cheta. Cose da vecchi le mie attese e argomentazioni, ribattute con frasi secche e brevi come vi fosse un giudizio. E il considerare irridente che ad un certo punto l’energia, assieme ai desideri, latiti. Una volta, forse punsi nel vivo, quando emerse quell’acronimo così banale, da necrologio, per chiudere il discorso. Mi parve un fallire delle parole, il non riuscire a spiegare ciò che pensavo, ma in realtà non c’era la comunicazione giusta, agivano attese che non trovavano risposte ed ero io a non capire, a non curarmi della necessità che se si vuole un dialogo lo si deve caricare su di sé, portare all’interesse vero, non a quello superficiale del momento. Ricordo che argomentai dicendo che i desideri sono così superficiali nella loro presunta profondità… Ma in realtà, questo dire, era la dimostrazione che non capivo e che l’incomprensione può diventare giudizio e isolamento. Un non curarsi perché autosufficienti.

Parlavo di vita cheta come un obiettivo, un farsi del vivere finalmente equilibrato, a me che di squilibri ne avevo avuti sempre in abbondanza. Era un desiderio di tenere le energie nel corso guidato e confacente, non in gabbie, e neppure lasciate brade. Insomma il non essere prigioniero di me stesso, ma signore del mio tempo e non a disposizione d’altri. E argomentavo, come mai si dovrebbe fare, iniziando le frasi con la negazione, come a tracciare perimetri nella mappa del ragionamento che lo portassero dentro confini ben netti. In realtà era solo incapacità d’esprimere meglio un sentire che si precisava dicendo, una necessità di forza, non di debolezza. Ho sempre dato una primazia al pensare, al governo di sé come elemento consapevole d’onnipotenza, ben sapendo che questa condizione è un concorso di utili amici, di presenze che aiutano le nostre libertà. E così il pensare di avere un positivo dialogo con le passioni e i desideri, con le forze immediate del sentire, m’è, pian piano, sembrato essere uno stadio più alto del vivere, una dimostrazione di forza che indirizza e non di debolezza che soggiace. In questo avevo visto, e vedo, la libertà del sentire a lungo, del permanere dell’emozione, che s’abbandona fiduciosa quando sa che di essa resterà traccia. Foss’anche l’annullamento di sé.

Allo scrollar di capo, alle obiezioni senza pazienza, opponevo così il mio giudizio, ovvero, ch’era incapacità di comprendere la tua, e mi figuravo l’esempio di chi conosce il moto per davvero e sa che la lentezza esige assai più energia della velocità. E il movimento lento della danza più grazia e potenza della piroetta. Quando è chiaro dove andare, dicevo, l’energia si pone al servizio del camminare. E questo pure riguardava i sentimenti dove non è il fuoco d’un momento che poi dura, ma lo scavare sino al midollo del sentire. Sembrava che confrontati, i nostri, fossero mondi così distanti, ed era solo un diverso guardare. Il mio che partiva dal particulare e cercava di trarne significato più grande, racconto d’altre cose e per questo aveva bisogno del suo tempo e della sensazione gioiosa che si prova nelle lotte dei bambini quando le braccia stringono l’altro e le forze si confrontano, ma l’una imbriglia, sinché l’altra s’abbandona, finalmente ad un comune essere assieme. E l’altro modo, invece, ben più sbrigativo, dove la sostanza era il fare in fretta, il seguire il momento, che momento non è mai, ma bensì l’espressione di bisogno. E non era l’individuazione di questo bisogno la domanda che ci si poneva, ma piuttosto la sua soddisfazione. La velocità questo in fondo è, argomentavo, ossia la soddisfazione d’una necessità che non pensa perché comunque non cammina con altri, e neppure con sé, ma fugge. Ancora mi veniva il parallelo con l’esistenza bambina quando il correre non ha un senso se non nella competizione, e il toccarsi o il fuggire è un gioco dove alla fine ci si trova con le guance arrossate, e il corpo pieno di sudore che sino ad un attimo prima è stato felice e adesso vive ancora della traccia di quella felicità, ma già subentra uno sconcerto. E la domanda è: e adesso?

Di tutto questo ragionare, in fondo così semplice, avrei dovuto dar forma in parole piane dicendo che per me la vita cheta, non era un riposo, ma il dominio delle passioni accessorie per condurle in poche grandi, e che queste contavano davvero, perché finalmente eran divenute certezze. Certezze di metodo, non di momento, e come tali destinate a durare. C’era un esempio che mi ripetevo, ed era collegato al durare delle cose e di noi con esse, ed era raffigurato nel lavoro paziente che diventa arte e lucentezza, lo stendere infinite mani di colore sino ad ottenere una lacca, oppure il piegare il metallo e batterlo su di sé per cambiarne proprietà ed accrescerle sino a un taglio ineguagliabile, o ancora l’esercizio del ripetere calligrafico, che sembra inutile nella sua presunta eguaglianza e invece, a chi sa vedere, testimonia la differenza che s’avvicina all’idea di perfezione. Era tutto così importante nella mia testa e così dimostrativo di ciò che pensavo che poi nel dirlo, si sminuiva e così mutava in giudizio nel non essere compreso. Allora diventavo ben più importante di te, e del tuo non comprendere m’importava poco, certo che il mio modo di vedere il mondo fosse l’unico per me possibile. Non capendo, allora, che aggiungere modi di vedere, e restar se stessi, era la maniera per arricchire ciò che si vedeva e si era.

la sintesi

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Entrando nell’edificio, mi colpì l’odore dell’ombra e del legno. Poi la luce soffusa. Veniva dall’alto, ma sembrava ovunque, spalmata sulle pareti, sul pavimento, sulle persone. Fuori un afroamericano, in divisa blu oltremare, puliva meticolosamente pomi d’ottone. Oggetti inutili e belli che nessuno usava: tutti spingevano il battente e il legno di quercia s’era fatto più biondo nei punti di contatto. Prima d’entrare, m’ero goduto mezz’ora di solitudine da Starbucks. Non capire nulla dell’americano smozzicato degli avventori e dei camerieri, lo aveva fatto diventare una nenia di fondo, e così bevevo caffè intingendo muffin al cioccolato, scrivevo, guardavo attorno. I visi avevano storie. Sentivo che imprigionavano case alveare, luoghi, abitudini, mestieri che volevano essere raccontati, ma non uscivano dalla coscienza perché mancava un ascoltatore che non li conoscesse. Così sentivo gli sguardi che si posavano, un pensiero fugace e poi lo scivolare via. E allora immaginavo. Per l’aria sottile di prima mattina, mi sembrava una storia perfetta. Ma cos’era una storia perfetta?  Una sensazione descritta in parole che si facevano più precise. Confezionata per essere aperta, e poi ripresa in mano. Depilata, mutata in un erotico emergere di forma essenziale, guardata e riguardata, ascoltata e capita. Un necessario continuo togliere, scoprire dopo aver ricoperto, sino all’osso limite quando il banale scompariva e restava il corpo, la sostanza, il perfetto in sé.

Senza poter parlare il processo era su di me: potevo essere una storia perfetta, come chiunque attorno. Si partiva dal banale, da una decisione che scartava: prima avevo seminato i compagni, la sera ero stato reticente, avevo infine rifiutata la bella compagnia che s’era proposta. Solo. E tutto questo perché c’era una determinazione, un canovaccio già scritto di cui, però, non sapevo cosa sarebbe avvenuto, pur avendone la sensazione positiva. Quell’attendere da Starbucks era un assaporare ciò che ancora non sapevo e ritardavo, e questo lo pensavo rafforzando il futuro immediato con scelte precise: cosa avrei fatto, il tempo che avrei impiegato, dove sarei stato per tenere la magia dell’emozione, il ritorno. E cercavo di scriverlo, scegliendo le parole che descrivessero qualcosa che ancora non c’era. Cioè cercavo di descrivere il nulla che è pieno di presagio, l’attesa non il fatto.

Attraversando la strada, notavo particolari, come dovessi poi ricostruire qualcosa. Di fatto preparavo un racconto per la memoria. Qualcosa che sarebbe rimasto, artificioso e determinato come ogni prodotto della volontà, ma al tempo stesso inerme e fiducioso dello svolgersi. Come in una partita di scacchi avevo i pezzi, cominciavo le mosse, volevo condurre il gioco con geometrica essenzialità, non importava vincere o perdere, l’importante era ciò che ne sarebbe rimasto. Per questo scelsi subito che non avrei visto tutto. Furono tralasciate molte sale, perduti tesori che potevano attendere una improbabile altra visita, le ridussi a quattro o cinque. Il numero fissava un tetto alla sopportazione della bellezza, cercava di esaltarla e così passai non poco tempo davanti a un Monet, seduto su una panca e spesso oscurato dalla schiena e dal sedere di occhi frettolosi. Chiudevo gli occhi e lo vedevo ancora, li riaprivo ed era là. Un atto estetico, inutile e per me sommo: la rinuncia. Mi beai del fatto che la sazietà era venuta prima del previsto e che in quel colore, guardato ripetutamente, potevo vedere la pastosità del farlo, la punta di bianco di un riflesso, cercare di intuire un pensiero che mescolava e semplificava. Come per le parole il pennello si soffermava nella densità per estrarre l’analogia con una forma, l’impressione tradotta in emozione, per poi sostare e vedersi riflesso. Ecco, questo mi sembrava la sintesi, il coincidere tra emozione e rappresentazione.

Tornando al racconto di me, di tutto questo vedere, immaginare, sentire, tenevo il controllo pur lasciandomi andare e travolgere. Pensai, lo ricordo bene, che tenevo il bandolo del filo del mio tempo. E non c’era altro che il sentire senza mediazione e senza qualcuno che avesse spiegato prima, il contesto e cosa notare,vedere, cogliere. Come per un incontro voluto ero inerme e disposto alla meraviglia. E per questo forte. Come una storia, per l’appunto che determina il futuro. Ed è un raccontare senza scopo che trova senso nella gratuità del dire, non nello spiegare o nel far comprendere. Il dire nella sua evidenza, a sé, anche davanti a nessuno.

Ho un appunto di quella mattina, scritto su una panca d’acero prima d’uscire:

L’ombra dopo la luce sul palazzo di fronte, Picasso, Caillebotte e altri, confusi già ora, Monet, la colazione luminosa di Renoir e la camera di Van Gogh ad Arles, una panca perfetta d’acero biondo, la pace di una scelta, poi nuovamente la luce e il silenzio. In mezzo al rumore. 

Per arrivare alla sintesi servono moltissime parole, e sensazioni, ma quando si capisce cosa si sente tutto prende il volo e resterà una sola parola.

28 giugno 1914 Karlsruhe

Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. E’ un giovane uomo, ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ho a parecchia vita sulle spalle. Lui e i suoi fratelli sono emigrati pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a gestire la locanda, l’appalto, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, e soprattutto dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati.

Di Sarajevo non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino quando ne avrà parlato con la nonna, accennando senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città , con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Serbia, chissà dov’è. Un Paese di pecorai, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina. Tutto lontano. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può  venirne a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta.

Venivano da anni prosperi e felici, erano persone normali e un po’ speciali, avevano coraggio: il futuro sarebbe stato positivo.  Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, penso, che se fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare  un’ attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina dalle parti del san Michele, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto.  Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava, le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, con grande tenerezza. Lei che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.

E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia ma  il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, non lo sanno. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola grande felicità, in una domenica di giugno di cento anni fa.

torcia lanciata nella notte

Certe storie sono una torcia lanciata nella notte,

illuminano finestre chiuse, 

usci attoniti, 

alzano gli occhi dietro i vetri e qualcuno,

sovrappensiero,

volge il capo al cielo. 

Una parabola breve

che le mani non stringono, 

un fuoco che s’allontana e ci scopre, 

nudi, come siamo sempre nel buio. 

Che resta di quella scia?

Scintille sparse,

piccoli lumi che possono generare incendi

nel cuore, 

oppure un fuoco altrove, a volte,

o ancora, un suono, che è già un ricordo

mentre la luce s’apre nel cielo.

Tra le case s’è formata una piazza d’aria,

nella notte cuce assieme sospiri dalle case,

di giorno le rondini le corrono attorno,

stanotte gli occhi cercano un ricordo,

ma i muri tengono strette storie

che non s’affacciano.

l’ultimo giorno di scuola

Con gli ultimi giorni di scuola, irrompeva l’estate, quella vera non quella del calendario. Le aule, allora come adesso, erano fatte per l’inverno, per le stagioni a mezzo, così il sole di giugno, mostrava lo sporco degli angoli e dei banchi, si perdeva tra gli intagli pazienti contornati d’inchiostro, batteva sui vetri opachi di polvere e polline e finiva per illuminare impudiche pareti sporche di pedate. Eravamo in un mondo povero e senza gloria mentre fuori c’era il mondo vero. Ascoltavamo le ultime, stanche, spiegazioni, le interrogazioni per salvare il salvabile, ma le teste erano già oltre le finestre, sui prati, nei campetti per giocare fino al buio, in spiaggia. Qui il mare è vicino, si frequentava ed era un’attrazione forte dell’estate, che cresceva con gli anni. Poi diventati più grandi, ci sarebbero state le gioie, le attese, le malinconie infinite, le paure nell’estate che era, lei, prorompente e noi timidi del tumulto di sangue, ormoni, pensieri che già ci travolgeva. Paura e desiderio che ti dicesse davvero di sì. Paura di ciò che non si conosceva e desideri da rimettere in ordine con la realtà. Ma i luoghi, gli scenari, erano gli stessi con calzoni più lunghi e gonne più corte. Quando arrivava l’estate, la sequenza degli ultimi giorni di scuola tornava indietro, diversa eppure sempre uguale, ed era la differenza tra costrizione e libertà, tra tempo dell’obbligo e tempo proprio. Non so come sia ora, nei pochi anni che ho insegnato a me spiaceva lasciare i ragazzi, e negli ultimi giorni, trasformavo l’autorità in un far domande, in un nuovo fraternizzare, quasi per tenere di più il ricordo, ma la loro testa era già altrove. Non dipendevano più, erano nell’estate, com’era accaduto a me non troppi anni prima. 

Dell’ultimo giorno di scuola mi è rimasto molto, ma in particolare l’immagine della corsa giù per la scala, oltre il portone, incontro al sole. Poi ci sarebbero stati gli scrutini, la paura e la speranza fuse assieme, ma era già comunque estate. Ed era la mia lunga estate.

il nome cambiato

Dei Lorenzo che apprendevo,

col procedere degli anni,

mi piaceva il nome

prima delle imprese

e il muovere labbra, lingua e bocca

nel dirlo. 

E fosse la gloria della della nascita d’un regno,

oppure il difficile dipingere

tra grandi che offuscavano il grande,

o anche solo il chiamar l’amico,

che d’estate risplendeva al mare,

nei crocchi desiderosi d’altro che d’azzurro,

quel suono l’ associavo al mio

e lo ascoltavo dalla voce 

pronunciarlo prima del cognome, 

ma poi, infine, tornavo sul suono mio usato,

e mi dicevo che al più l’avrei sostituito con Andrea, 

che pur privo di gloria aveva un fascino 

di sensuale attendere, 

come se il riposo oltre l’amore

fosse già inscritto nel nome

e aspettasse d’esser sussurrato piano 

tra i rossori che imperlavano i corpi

dopo l’estasi sognata:

così pensavo sarebbe proseguito il piacere

nel solo essere chiamato con amore.

Erano pensieri di quell’età in cui tutto è possibile

eppure arduo,

dove il giorno ancora non ha abitudini

e il nuovo suscita scontata meraviglia,

e così anche il nome mutava

per diventar davvero mio,

nel gioco serio del riconoscersi, 

tra l’irrompere di nuovi desideri.

 

pasque al mare

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Molti sabati e pasque li ho passati al mare. Di alcuni ho un ricordo particolare che come tutti i ricordi è più impressione che fatto, di altri mi è rimasta la sensazione che avrei preferito essere altrove. Superata l’età in cui la pasqua aveva un significato particolare, specifico dal punto di vista religioso e quindi di per se stessa fonte di pensieri direzionati, restava una sensazione di festa particolare, però con una libertà del pensiero e quindi dell’andare, Ancora oggi faccio fatica a considerare la fede altrui come un fatto da antropologia culturale e quindi mi trattengo nel violare le intimità, i riti più ostentati, fermandomi alla soglia e facendo un passo indietro. Dove inizia ciò che per altri è importante, come non rispettarlo. Ma non rispettano me e m’ infastidisce ricevere messaggi religiosi, citazioni di telefoniche di salmi da persone, che ti hanno messo in una mailing list perché in qualche modo sei stato importante a loro, allora questo fenomeno semplicemente religioso consumistico non c’era e in molte pasque, non c’era neppure il dato umano delle piazze davanti alle chiese gremite di persone auguranti, le mie, semplicemente si svolgevano al mare dove mio suocero aveva un villaggio. Arrivavano i villeggianti estivi a prenotare ed io che c’entravo abbastanza poco, mi godevo il mare fuori stagione.

La spiaggia era ancora ingombra di alberi e di residui della civiltà di pianura.  Cercando con attenzione si potevano immaginare luoghi e fatti d’origine dei resti. Qualche moria di polli, una buriana di novembre, un nuovo detersivo dentro contenitori in plastica dal colore inusuale, molti frammenti di giocattoli, dalle teste di bambole ai pezzi di ufo robot segno che natale aveva fatto felicemente il suo corso. C’era un pranzo particolare, molte chiacchiere, di quelle che non affondano perché non sta bene, parecchio vino e caffè. Così arrivava il pomeriggio e la sensazione di una giornata strana che sarebbe stata riscattata dal lunedì con qualche scampagnata per argini. Se il tempo teneva. Lì, a pasqua, era il mare il gran protagonista, con il suo aspirare pensieri, isolare le persone in sé e lì si giocava la partita dell’utile e dell’inutile: avevo perso tempo, ero contento, l’avevo fatto per forza? Di tutto un po’ ma ciò che emergeva era la capacità del mare di riportarti a te. Questa era la solitudine del mare e devo dire che appoggiato a qualche capanna appena costruita, riparato dal vento e con il primo sole tiepido, tutto questo mi pareva una dimensione bella e positiva, che magari non c’entrava nulla con il giorno e la ricorrenza, ma apriva una alternativa alle abitudini, alle feste obbligate, alle giornate che celebrano qualcosa e passano lasciando un senso di vuoto senza nome. Cos’è successo davvero? E adesso? No, questo riportarmi a cose che io solo sentivo era un passo avanti, un senso per me. Poi sarebbe arrivata la sera e il ritorno, ma quell’angolo era mio, solo mio.

fatto di cronaca

Nel vicolo dove abitava mia cugina, era accaduto qualcosa di terribile. Lei ne parlava a bassa voce, voleva proteggerci, noi bambinetti, più abituati alle favole e le corse che alla realtà. E poi il fatto non era accaduto nel vicolo, ma in montagna. Nel bosco.

La montagna e il bosco, per me, bambino di città, erano una illustrazione di sussidiario, un manifesto di vetrina invernale. E la fotografia che c’era sul giornale la vedemmo quasi di sfuggita. Era una di quelle foto di allora, fatte di pallini con tonalità di grigio, che mostrava delle lenzuola bianche stese a terra, tra quelli che si intuivano alberi. A lato, il bordo di un’auto, poi il titolo, quello che mia cugina aveva solo sussurrato, attutendolo: Ragioniere stermina la famiglia e si suicida.

Loro abitavano in fondo al vicolo, in una villa con giardino protetta da un cancello oscurato da lamiera grigia. Noi giocavamo spesso lì vicino, era il luogo dove non destavamo preoccupazioni e il cancello faceva da porta per il calcio. Ogni tanto l’auto arrivava, suonava il clacson, il cancello veniva aperto da un cameriere, l’auto entrava e tutto si chiudeva. Quando accadeva, noi ci fermavamo, attratti da quella vista preclusa, ma alla fine della villa conoscevamo solo la forma di casa squadrata, la ghiaia del cortile, i grandi alberi dello sfondo, il cameriere con quella buffa giacchetta a righe e lui che guidava. Ci pareva anziano: non aveva neppure 50 anni quando si suicidò dopo aver ucciso tutti.

A quei tempi le notizie erano pudiche, il suicidio peggiore dell’omicidio, mia zia parlò di dissesti finanziari. Disse proprio così: dissesti finanziari e fece seguire il commento esplicativo: el se gera rovinà (si era rovinato). Non capivo bene quella parola, che evidentemente era stata letta sul giornale, ma già il fatto che qualcuno si fosse rovinato sembrava più una ferita grave a sé che qualcosa che avesse a che fare con il denaro. Mio zio aggiunse: el gera falio (era fallito). E così finirono i discorsi, nessuno rispose alle nostre domande e non se ne parlò più. Anche tra noi non ne parlammo più, però rimase un’aria di sospensione su quel luogo e facevamo fatica ad andare a giocare sul fondo del vicolo, così spostammo i giochi verso il Prato, sotto il portico.  

Non ho mai capito quelle morti, mi sembrava tutto così assoluto e relativo, come esistesse un mondo parallelo in cui quelle cose avvenivano e però non era il mio. Mio padre, tempo dopo, parlando d’altro, disse che ci si uccideva per onore. Sembrava che questo, nei dissesti, riparasse i debiti, ma non salvava la famiglia dalla miseria. Registravo ciò che mio padre diceva, come fanno i bambini che tacciono finché la testa lavora e collega, e il pensiero tornava sul vicolo. Quei due ragazzi, la moglie, le lenzuola della foto sul giornale. Mi pareva tutto sbagliato: non gli era stato chiesto nulla, qualcuno aveva deciso per loro ed erano spariti dalla realtà pur continuando ad esserci nel pensiero.

Anche adesso, e accade spesso, quando passo davanti al vicolo, il pensiero torna e ho la sensazione di una ferita nel giusto, di aria che manca. Poi il pensiero va altrove, ma una lapide che ricordasse quelle morti ingiuste io la mettterei.

di musica e d’altro

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Ascoltavo molta musica. Anche quella che inizialmente sembrava difficile e non mi piaceva. Applicavo alla musica gli stessi criteri della lettura, leggevo qualsiasi cosa e dove non capivo, rileggevo, più volte finché mi sembrava di aver compreso, oppure cercavo altrove scomponendo ciò che sfuggiva. A lungo, con caparbietà, prima di arrendermi. Ascoltavo dovunque. Avevo l’abbonamento alle stagioni concertistiche, ma questo era solo l’evento eccezionale, nel frattempo c’era la radio, i dischi, i nastri, le prime cassette.

Poiché la musica mi provocava emozioni forti, non mi opponevo, e abbandonandomi cercavo di capire cosa agitasse la gioia o la tristezza che provavo, da dove venisse quel momentaneo senso di pienezza che mi faceva muovere le braccia e cantare a voce alta. A volte dopo aver provato sensazioni forti mi sentivo caricato, pieno di energia, altre svuotato, come ci fosse un’ assenza disperante e senza nome.

Cantare le canzoni, la musica che ci stava attorno, era quasi naturale, mi ero lasciato travolgere dalla mescolanza del testo e della melodia quando avevo capito che si potenziavano assieme. Non capivo nulla o quasi di musica, mi aiutava l’orecchio. L’adolescenza aveva fatto il resto: con la musica si socializzava o ci si separava. La musica classica era stata una scoperta personale, quasi un atteggiamento finito male, perché poi l’oggetto mi aveva preso. E sembrava pure di facile ascolto questa musica così piena di suono, di colore, densa e a suo modo naturale. Altre volte solenne, lunga, impervia e poi placida, comunque sempre sorprendente. Fosse la magniloquenza dell’organo, naturalmente ero partito da Bach, o la gioia della nona di Beethoven, oppure il barocco,  che scoprivo in Vivaldi, qualunque cosa fosse, la compitavo, e la riascoltavo fino ad assorbirla e sentirla dentro che suonava per suo conto e all’unisono con me. Compitare e memorizzare vanno assieme, riconoscevo gli stili, azzardavo. Nella mia ignoranza, mai migliorata col tempo, pensavo per blocchi, ascoltavo per collocare e discernere. Mi sembrava che inzialmente, nel barocco in particolare, le contaminazioni fossero tante e che la brillantezza o il colore scuro appartenesse prima al luogo che al compositore. Cominciai a pormi il problema degli esecutori più tardi, perché sentivo differenze grandi sulle stesse note e non era solo questione di tempi di esecuzione o di registrazione, qualcuno mi sembrava più bravo di un altro, ma non ne sapevo il motivo. Come un rompighiaccio procedevo, l’ignoranza restava, acquisivo nozioni e il mare anziché restringersi diventava più vasto. Mi mancava la teoria, le basi che avevo erano talmente vaghe e consegnate alle esperienze di canto corale, che non ne vedevo alcuna utilità. Certo conoscevo qualcosa di gregoriano, qualche nozione di base di notazione musicale, ma non seguivo uno spartito, se non ascoltandolo con la musica. La carta non mi suonava dentro. Eppure capivo che era questione di lessico, anzi di lettura. Se nella mia ignoranza grammaticale comunque riuscivo a leggere cose strane e difficili (almeno per me lo erano) e assorbirne significato e musicalità, mi illudevo che lo stesso funzionasse nel linguaggio musicale, ma in realtà non era così perché mentre scrivere era relativamente facile, tradurre in note quello che mi passava per la testa era impossibile. Comunque continuavo la mia esplorazione, naturalmente erano i brani più popolari, però in un insieme di rimandi e collegamenti finivo in altre epoche, stili, generi, autori, interpreti. Un’autentica scoperta fu la musica medioevale, a cui arrivai attraverso Respighi.

Questa piccola passione un po’ mi allontanava dalla musica dei miei coetanei, anche se continuavo ad ascoltare canzoni, a cantarle da solo e in compagnia. L’altra musica era però una scelta personale e solitaria. Un poco me ne vergognavo, quasi mi stessi collocando fuori dalla mia età sociale. Non riuscivo a parlare delle emozioni che provavo, era un fatto privato come leggere certi libri, fare certi pensieri, scrivere certe cose.  Credo che questa modalità di ascolto e di ricerca, facilitasse un isolamento e una riflessione personale e siccome la musica, come tutto il resto la trattavo a sensazione, lasciandomi prendere, ne accettavo una sorta di potere, di magia su di me, per cui le attribuivo capacità terapeutiche.

Mi si era formato in testa un pensiero: la musica ti salverà. E da cosa mi avrebbe salvato, lo identificavo nella fatica di crescere, nella difficoltà di comunicare le proprie emozioni agli amici (la famiglia non serviva più per questo) e che erano più compagni di gioco o di scuola, che compagni di sentire. La musica mi avrebbe guidato nelle pulsioni nuove che sentivo, nella paura del disamore, avrebbe mitigato ed esaltato in accordo con me. Insomma mi avrebbe tolto in maniera assolutamente singolare dalla solitudine.

Poi, ma fu molto dopo, ho capito che qualsiasi cosa ci risuoni dentro, sia essa una melodia, o dei versi, o un pensiero che legge ciò che sentiamo, sono ausilii che ci vengono donati. Siamo noi che ci riconosciamo in un gioco di specchi e così noi soli ci possiamo salvare. Ma se portiamo con noi la capacità di riconoscere la bellezza, allora le boe, le zattere, le navi con cui percorriamo i nostri mari sono strumenti che ci vengono donati da altri inconsapevoli amici, che ci fanno sentire meno soli anche se la fatica di andare nella vita, è nostra. Ho capito anche che ci salveremo lasciandoci andare a noi, riconoscendo le nostre ferite e lasciando che guariscano, pur permettendo che ciò che ci appassiona lenisca. E questo perché ci è dovuto e siamo importanti a noi.

Con parole che ora mi sembrano troppo tronfie per qualcosa che è semplice, penso sia importante che nella ricerca costante di amore ci sia una colonna sonora, che parole efficaci ci accompagnino, ma poi spetterà a noi trovare strada. Insomma essere forti e ripetersi: in dulci jubilo come fosse davvero rivolto a noi.

porta ticinese

Parecchi anni fa frequentavo, a Milano, una trattoria a porta Ticinese. Vecchi camerieri, piedi piatti e passo strascicato, foto autografate di personaggi che ormai non dicevano più nulla a nessuno, legno alle pareti e mattonelle per terra. Segni di un qualche momento di gloria, quando le trattorie qualcosa significavano nella vita e ne facevano, rara, ma consolidata parte. Allora il mangiare in trattoria aveva due significati: la festa, l’eccezione, oppure la solitudine di chi non aveva nessuno a casa. Anche ora ho amici che descrivono come un’impresa il riuscire a prepararsi da mangiare, che hanno vite, specie dopo le separazioni, di trattorie ovunque e comunque. Vite in grado di competere con il gambero rosso per conoscenza diretta e che tra piatti e conti, nascondono l’incapacità di star soli a cena.

Mi piaceva quel posto, la sera ci arrivavo da un corso oppure dall’albergo, quasi mai da solo e con non poca allegria preventiva. Il posto metteva di buon umore. Mi piacevano le tovaglie pulite, di cotone pesante, a volte di lini antichi e un po’ lisi, le stoviglie retrò e le posate pesanti. Mi piacevano i consigli del cameriere, la cucina commentata, milanese e toscana, la cassoela, i pici. Mi piaceva il parlarsi tra tavoli, i cappotti appesi alle pareti, il fiasco di chianti al consumo, la scelta di pane tra quello con il sale e quello sciapo.

Nell’angolo, tra pareti rivestite di legno e fotografie, c’era un tavolino singolo. Non era l’unico, ma lì ho sempre visto il ragioniere. Cenava con il cappotto addosso e il Borsalino grigio sulla sedia. D’estate aveva un gessato e una cravatta con il nodo troppo stretto per essere fatto di fresco. Ordinava a monosillabi, alzando un sopra ciglio o un dito, non i piatti ordinava, ma una sequenza. Le pietanze erano sul suo menù personale, dove c’era solo l’estate e l’inverno. D’inverno un brodo di pollo, con pastina sottile, consolatoria, poi le patate lesse o il purè e la costatina. Ben cotta. D’estate, un minestrone e gli stessi secondi. A volte un insalata o un pollo lesso. Un bicchiere di vino rosso, il caffè. Sempre solo. In mezz’ora mangiava, cinque minuti per pulire i denti e poi si alzava, salutando con un bnsera e usciva. Il mercoledì arrivava più tardi. C’era il varietà, e al ragioniere piacevano le ballerine. Il cameriere faceva sempre la stessa domanda e otteneva sempre la stessa risposta. Sorridevano entrambi.

Un anno, ero lì l’antivigilia di natale, guance arrossate dall’aria precedente e dal chianti, a mangiare verze e cotechino e ridere parecchio, quando entrò un’orchestrina di fiati. Suonavano canzoni natalizie con tromba, trombone e bassotuba. Uno strepito incredibile nell’ambiente ridotto e pieno di persone. A me la cosa mise un’allegria irrefrenabile, e così a chi mi accompagnava, ma credo a tutta la sala perché gli occhi e i commenti si scambiavano ridendo, ad alta voce. Tutti ci affrettammo a dare mance generose perché la smettessero e loro, i musicisti, ringraziavano, accennavano a qualche bis di ringraziamento, finché ci fu uno scambiare di sfottò e accenni di note in risposta in un’allegria generale. Solo il ragioniere era rimasto imperturbabile. Mangiava il suo brodo e alzava appena gli occhi, poi rivolgendosi al vuoto disse distintamente: ma come l’è, di nuovo il natale? E ridacchiò.

Ecco, allora ho capito che la mia solitudine era un lusso.