vi racconto perché comincio ad aver paura

Vi racconto perché comincio ad aver paura. C’è una guerra in corso in Europa, è in Ucraina. Può restare un conflitto circoscritto, ma anche no, basta un niente perché degradi in escalation di ritorsioni. Ci si fida che accada come per la ex Jugoslavia, dove tutti hanno fatto combattere in conto terzi, ma non è così. Qui siamo ai confini della Russia e sembra che non ci si voglia render conto che questo Paese non è solo un mercato, ma una potenza nucleare tecnologicamente avanzata, che non può accettare di avere la Nato alle frontiere. Sembra a parti inverse, la crisi dei missili a Cuba. Solo alle porte di casa, stavolta. Manca una politica estera europea, un esercito europeo, una determinazione comune e gli Stati, in ordine sparso, si accodano alla politica americana, che ha altre logiche e sopratutto lavora su uno scacchiere mondiale, magari con i risultati che vediamo. 

Ma questa è solo una parte della paura. Uso la parola paura perché ha un significato preciso, timore non lo ha più, la paura dovrebbe far reagire, analizzare ciò che accade. Chi ha paura si sente solo, bisogna uscire dalla paura e condividere. Sono inquieto, metto insieme segnali, li interpreto, certamente mi sbaglio ma i segnali sono fatti precisi.

Non si parla più di energia, il crollo del prezzo del petrolio ha reso anti economico lo share oil canadese. Per fortuna, ed è una manna per l’ambiente visto l’alto inquinamento di questa tecnologia, ma non si parla più delle importazioni di gas e petrolio dagli Stati uniti verso l’Europa. Intanto è stato revocato il progetto South Stream che doveva portare gas dalla Russia attraverso Turchia e Grecia, la Russia parla con la Cina e noi dipendiamo ancora dai vecchi gasdotti che passano per l’Ucraina. quanto può durare questa situazione se la crisi si impenna? Anche a sud, nel Mediterraneo le cose non vanno bene, l’avventura libica, ha prodotto un bubbone a pochi passi da casa e anche quell’area non è più un fornitore certo di energia.

La percezione di un diffuso senso di malessere si diffonde attraverso l’incertezza: che sta accadendo? E il rifiuto verso l’Europa dei burocrati non riguarda solo la destra o la Grecia, ma la stessa idea di Europa unita, che è più una possibilità che una realtà, certamente non una entità politica rilevante.

Ieri ho ascoltato questo dialogo tra due imprenditori che parlavano nello spogliatoio della palestra. E’ rilevante pur facendoci la tara perché non siamo a un convegno, e sono parole in libertà, senza dover rassicurare nessuno:

…ma tu lo sai che in Grecia non ci sono medicine negli ospedali, la gente è alla fame. Non esporto più in Grecia, ci sono stato il mese scorso, una desolazione. Chi vuoi che compri di prodotti di consumo, non hanno soldi, a Marrachech o Dakar hai più mercato, e se ti ammali ti va meglio. Ieri ero a Bruxelles, incontro con un funzionario UE, 40.000 euro al mese di stipendio. E’ uno di quelli che contano, anche se non un capo. Parliamo, lo dice lui, l’Europa è morta, la teniamo in vita per le banche non per le persone. Poi a cena, in un ristorantino, 148 euro. A testa. È normale, a Bruxelles. Dice ancora, qui non si rendono conto del mostro che è stato creato, ma ogni quindici giorni ci spostiamo con carte e persone a Strasburgo, e poi di nuovo indietro. Ascoltiamo più le lobbies che le commissioni, in fondo coincidono. Equilibri, non c’è politica, solo equilibri e nascondere i cadaveri.

Sai cosa ho pensato tornando? È perché non siamo alla fame come in Grecia ma non abbiamo niente in mano, nessuna sicurezza. Sai che faccio, porto via due rami d’azienda, un pezzo un Italia per il marchio, il resto all’estero per le tasse e la sicurezza del futuro. Renzi ? Bravo si, ma un sacco di parole, ma almeno Berlusconi mi dava garanzie. Cosa vuoi che me ne freghi del senato, in sei mesi in Europa, dove non può ricattare non ne è venuto nulla. Voto lega anche se sono quattro sfigati, che vivono di rendita sulle disgrazie. Ma ha ragione Tsipras questa non è l’Europa di Spinelli è un mostro delle banche. Hai visto con Junker, che gli hanno fatto per i suoi trascorsi di primo ministro? Nulla. Il fatto è che c’è un patto tra popolari e socialisti, e non si può dire che il dittatore è morto, finché non si sono sistemate le cose per la successione, come facevano in URSS o nei paesi comunisti. Prima o poi crolla tutto e chi si salva è chi l’ha visto prima.

L’altro interlocutore concorda, è un professionista, parla del falso in bilancio, entrambi ridono sulle norme che rendono possibile il “nero”. Salutano ed escono.

L’impressione che ne traggo è quella di una Italia divisa, dove la realtà è altrove da quella dell’ agenda di governo. Il debito italiano è 10 volte quello della Grecia, non possiamo fallire senza far scoppiare l’Europa, ma siamo anche nella paralisi. Ho visto gli interessi pagati in questi anni a chi ha finanziato il debito. Ovunque, c’è stato un flusso enorme di denaro verso i creditori che non sono prestatori d’opera o promotori di sviluppo, ma semplici prenditori. Per paradosso si finanzia l’usura perché continui a fare il suo mestiere. Questo ottenebra tutto, l’economia è disgiunta dai popoli e dalle persone, non conta più neppure il successo personale, tutto viene subordinato a decisioni prese in consessi dove l’unica cosa che conta è : ti ho dato i soldi, li rivoglio indietro con gli interessi, il contesto non è affar mio. Per questo non si capisce quali siano le politiche di sviluppo, se il sistema è divisivo le politiche tornano negli Stati, diventano non competitive, ma aggressive e questo è il contrario del processo di unificazione. Ieri è stato detto alla Grecia che la democrazia, ovvero la decisione del popolo conta fino a un certo punto, ci sono regole sovraordinate che limitano la democrazia, il pagamento del debito ad esempio. Eppure Tsipras non chiede il suo annullamento, ma di pagare secondo la crescita, ovvero aiutateci a crescere e vi pagheremo prima. pare non sia accettabile, sarebbe un precedente.

Torno ad un altro precedente, il riconoscimento unilaterale del Kossovo indipendente dalla Serbia fatto dall’area dei Paese Nato. E’ un seme tratto dal vaso di Pandora. Non si sa cosa possa generare, ma sicuramente cose non buone visto che ha violato trattati e frontiere. Infatti la Crimea è altrettanto legittima se lo è il Kossovo, e anche le nazionalità interne agli Stati Europei lo diventano, la Catalogna, oppure i Paesi Baschi, o il sud Tirolo, o chissà quanti altri pezzi di nazionalità che sono distinte e autonome dentro a Stati che hanno altra lingua e cultura. L’Europa dei popoli serviva a questo, se è persa traccia, soffocandola nell’Europa della finanza, che neppure è Europa, ma qualcosa di sovranazionale che sta indifferentemente a Shanghai o Ginevra, o Londra.

E intanto ogni 15 giorni le carte fanno la spola tra Bruxelles e Strasburgo, ecco perché comincio ad avere paura.

diario

Ho deciso di scrivere un diario della mia esperienza in politica attuale. Delle tensioni che sento e di come mi pare stia mutando il Paese. Ho anche deciso che, a parte qualche considerazione che troverete anche qui, il posto giusto sia un nuovo blog che tratti solo di questo. Il suo indirizzo è essilio.wordpress.com e il nome è già un sentire perché si sta andando via (esilio) da una idea collettiva e condivisa di cambiamento  verso nuove (?) concezioni della società e dei rapporti tra persone. Ma è anche una spinta all’esilio, quella esterna che ricevo e che vorrebbe uscissi dal mio partito, e non è quella interiore, pur forte, che fa i conti con la mia coscienza. Questa spinta esterna proviene sopratutto da quelli che mi/ci sentono come elemento di disturbo, e non le darò soddisfazione se non per scelta personale, perché alla forza si risponde con la resistenza .

Cercherò di essere sereno e seppur di parte, mantenere quella che penso sia una norma inderogabile di civiltà verso se stessi e gli altri: l’onestà del dire e del pensare con il rispetto che questo si porta appresso.

contenders

Alcuni di noi, io, abbiamo una Patria, un paese che amiamo, una cultura comune. Sappiamo cose, magari non tutte così precise, e non tutti le stesse. Ci formiamo idee, un’ analisi della realtà, soluzioni. Di sicuro non abbiamo, da molto tempo, verità assolute e il relativo ci sembra un buon modo per accogliere la differenza e il ragionamento contrario, ma pretendiamo rispetto. Per noi e per chiunque. E nel rispetto sono comprese le regole che devono valere per tutti, la verità dei comportamenti. Per questo e per altro, non ci piacciono i furbi, quelli che cercano di fregarti, neppure gli arroganti ci piacciono perché usano la forza per imporre verità non vere. Non ci piacciono gli irresponsabili che dicono cose che non faranno, oppure fanno guai e li attribuiscono ad altri. Non ci piace chi la racconta, chi imbonisce, chi prende in giro la speranza. Sappiamo che la colpa di ciò che accade non è sempre altrove, che un motivo per tutto non giustifica niente, e quindi facciamo autocritica. Spesso. L’onestà ci sembra una precondizione in ogni rapporto, e non è un fine. Bisogna essere onesti, anche con se stessi. Vediamo i nostri limiti, sappiamo che sono importanti, però abbiamo sogni grandi e piccoli, vecchi e nuovi. Sappiamo che il mondo è complesso, che bisogna semplificare le cose per star meglio, ma nessuno di noi banalizza la realtà e sappiamo che semplificare è difficile e non lo si fa a colpi di slogan e tanto meno con l’accetta. Pensiamo che c’è un primato del capire e dell’intelligenza nel fare, e che quest’ultimo ha bisogno almeno di essere pensato. Siamo stanchi degli annunci, vogliamo partecipare e l’abbiamo sempre fatto. Oggi siamo coscienti che il problema prioritario è la corruzione e il malaffare, la legalità e il rispetto delle regole e pensiamo che il marcio vada amputato. Ovunque. Per noi le istituzioni non sono immutabili, ma sono il nostro patrimonio e baluardo democratico comune e quindi pensiamo si debba agire partendo dal rispetto del futuro e del presente nel modificarle.

Abbiamo un Paese che amiamo, una cultura, volontà comuni, ma non abbiamo più una parte sociale e politica. Temiamo di non avere più un partito in cui riconoscerci e pur essendo tanti, ci sentiamo soli.

napule siamo noi

Ieri mattina, un amico osserva che lo spazio dato per la morte di Pino Daniele sui giornali di radio tre, la rete di “noi intelligenti e progressivi”, è inusuale e conclude con questa considerazione: ma Pino Daniele era davvero così importante, lo conoscevano all’estero? Al mio amico non interessa molto la musica leggera, neppure quella classica lo prende più del necessario, sarà per questo che non ha potuto, a suo tempo, apprezzare quanto innovativo sia stato Pino Daniele per la musica in generale e per quella napoletana in particolare, parlando della vita e dei problemi quotidiani, dell’amore e del lavoro che non c’è, senza infingimenti, dicendo le cose. Il bello viene fuori dalla realtà, ma non la redime. Quindi il mio amico, che non ha ascoltato le parole delle canzoni di Pino Daniele, non può capire. Però, su un eccesso ha ragione, perché al solito, si è esercitata la retorica brada, quella che si avventa su un fatto e lo snatura. Ieri ho sentito e letto commenti infiniti, ripetitivi, eppure credo che a Lui bastasse che gli fosse riconosciuto di aver parlato con verità ed arte di ciò che sentiva e che gli stava attorno.

Al mio amico ho risposto che non ci sono notizie, che non accade nulla. Questo è particolarmente vero in questo periodo in cui, se si tolgono le disgrazie, non si sente un minimo odore di futuro che non ci ricordi che da tempo bisogna pulire le condutture. C’è un traccheggiare fatto di elezioni in parlamento, di faide interne, di provvedimenti in odore d’insano accordo e tutto finisce nell’ottundimento, nell’indifferenza. Qualunque cosa accada sembra non modificare le vite e le loro prospettive per cui, ne nasce un connivere che è nei fatti, nella politica prodotta da compromessi e non chiarezza di chi è da una parte e chi dall’altra, motivata sempre da urgenza, eccezionalità, anormalità. In questo la prima repubblica era più democratica, c’erano elezioni, accordi, porcherie e responsabilità, si sapeva chi era l’avversario di chi. Ora sembra che ci sia una marmellata fatta di parole e di atti, ma nessuno davvero risolutivo. Provincie che esistono ma non esistono, regioni che continuano a lamentarsi e spendere, nessuna modifica radicale dei modi di spesa dello stato centrale e quindi si taglia fuori della casa del potere, ma dentro di essa la sclerosi continua. Insomma manca la chiarezza di un disegno e di un obiettivo verificabile. A parole si sono contrapposte parole, in questo chi è più bravo vince e da un pezzo l’affabulazione è parte della caratura dei premier. Del resto le analisi sul gradimento degli italiani nei confronti della politica mostrano una mutazione fondamentale nel modo di intendere la democrazia: i partiti hanno consenso zero, i leader consensi alti, a due cifre. Quindi non contano più i processi che confrontano le idee, ma lo scontro diretto, senza discussione partecipata, senza quell’ analisi della realtà che porta al farsi del nuovo e del futuro. Si può dire una cosa, correggerla, negarla. Non c’è nessuna novità, quindi, anche perché chi si oppone ha la coscienza poco immacolata, oppure vuol far notizia a tutti i costi come Grillo che difende i vigili romani assenteisti. Una opposizione senza idee alternative, senza puntiglio, senza unità d’azione diventa velleitaria e quindi non fa notizia, ma soprattutto non crea l’alternativa. Non mi piace pensare che l’alternativa debba risiedere nel fallimento, nello star peggio, è vero che la realtà è una dura maestra, ma questa da tempo non insegna più nulla, non induce a produrre cambiamento. L’unica novità che occupa per ora poco spazio sono le elezioni in Grecia, se vincerà Tsipras, l’unione europea sarà costretta a fare i conti con la povertà e con l’iniquità delle condizioni economiche imposte ai paesi in crisi. Sarà un vento che riporta a sinistra la discussione ora lasciata nelle mani della destra, bisogna pur dirlo che con questa Europa non si può essere uguali e neppure crescere assieme. Certo è assurdo tornare agli stati nazionali e alle monete, ma in realtà servono più poteri per la crescita comune che regole che affossano i più deboli. Se l’Europa sarà, dovrà essere egualitaria, fare l’interesse dei popoli che la compongono, praticare la democrazia per tutti gli organi di governo e di potere e non essere un insieme di dominanti e dominati utile solo alla crescita dei capitali finanziari.

Ma finché questo non accade in realtà le notizie sono poche. Pino Daniele aveva una grande capacità di mettere assieme la realtà con il sentire, fare di una carta sporca l’emblema di una città e fornire un motivo per cambiare. Non sono riuscito a spiegarlo al mio amico, che le persone come Pino Daniele, qualunque cosa facciano, sono importanti per davvero, perché sono quelle che vedono e indicano un modo nuovo di essere, la necessità di ribellarsi, un sentire che non può essere sempre ottuso. Queste persone sono il nuovo e uno di loro se n’è andato, forse con troppa retorica, ma non era la sua speranza ad esserlo.

non possiamo permettercelo

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C’è il sole, i ragazzi, gli operai, il corteo lunghissimo, le bandiere, e molte sono rosse. Tanti giovani. C’è allegria e protesta, e messe assieme sono voglia di cambiare. Bello, no? La piazza è piena, qualcuno lo conosco, molti no, e anche questo è bello. Tra quelli di un tempo si sono sopiti i contrasti, le storie contano ma poi non contano più quando si è dalla stessa parte. Ci sono quelli che vendono lotta comunista, ed è una tenerezza per chi ha la mia età, un ritornare a un tempo esaurito. Ma siamo tanti: ci sono i precari, molte donne, insegnanti, operai, studenti. E striscioni, bandiere, cartelli, musica che ha ritmato il corteo, slogan, sorrisi.  Dalle casse esce la voce di Caparezza che dice: non me lo posso permettere.

E tutti concordano, saltando a ritmo di rap: che venga rubato il futuro, non possiamo permettercelo.

espunti dalla realtà

Nessuna prima pagina dei giornali su carta parla dello sciopero di domani. E’ significativo, la stampa si conforma ad una idea per cui chi protesta è marginale. Il fatto che vi sia un declassamento delle idee a favore dei personalismi, delle banalità momentanee è un processo che dura da tempo, prima sui talk show, ora ovunque. Anche l’antipolitica viene derubricata a fatto accessorio, serve anch’essa ad una maggioranza fatta di pochi che raccontano un paese diverso da quello che esiste.

I lavoratori, i pensionati, non fanno notizia, espunti dalla realtà, assieme alla crisi strutturale. Scompare l’aggettivo epocale quando servirebbe davvero e la crisi viene trattata come problema transitorio. Del resto sono scomparsi anche i suicidi di imprenditori. Le morti strane e poco spiegabili diventano trafiletti di interruzioni di servizi: una persona è caduta sotto un treno, due ore di fermo della linea ferroviaria.  Non basta più una storia, un morto, serve qualcosa che superi l’indifferenza. La crisi silente, i disoccupati atomizzati in migliaia di piccoli fallimenti e ristrutturazioni aziendali, sono un elemento di sistema e ciò la dice lunga sull’utilità di una informazione che sta diventando conformazione. Embedded.

Solo il caso, lo scontro fisico fa notizia ormai, questo sindacato ha stufato, si sente ripetere e Renzi l’ha capito subito. Ma di quale realtà si sta occupando chi per mestiere dovrebbe riferire ciò che accade? Va bene così? Chi riguarda la crisi, come se ne esce, quali alternative ci sono?

Domani chi sciopera ha una realtà diversa di quella di cui si parla, anche così il popolo si divide, anche così il potere diventa nemico, e invece avremmo bisogno tutti di unità, non di conformazione, di obbiettivi condivisi non di prove muscolari, ma non se parla e chi sciopera non si sente ascoltato. Il danno diventa anch’esso strutturale.

l’illegalità fa male: digli di smettere

Accendo mezzo sigaro, sono in un bar, quasi immediatamente mi chiedono di spegnere o di uscire. Ho attorno la riprovazione generale. Anche dei fumatori. Spesso mi accade anche fuori di sentire commenti infastiditi sul fumo.

Salgo in autobus, è pieno, faccio fatica ad arrivare a timbrare il biglietto. Ad ogni fermata salgono e scendono persone, pochissimi timbrano, tutti abbonati? Nessuno protesta o chiede ragione. Arriviamo in stazione, tutti scendono, tutti liberi. Farla franca sembra dia una soddisfazione particolare.

Quindici giorni fa un amico dirigente mi parlava del seminario, che ha tenuto la sua azienda, sulle nuove regole sugli appalti della pubblica amministrazione. Dovevano capire cosa c’era di nuovo e allora hanno chiamato avvocati, dirigenti pubblici (quelli che scriveranno i nuovi appalti), commercialisti. Alla fine la conclusione è che la procedura non è più difficile, neppure più trasparente, solo si sono moltiplicati i decisori, e quindi ci saranno problemi, che nel migliore dei casi saranno burocratici. Però tutto si affronta e il lavoro è lavoro. Ci sono centinaia di persone che lavorano e che devono essere pagate ogni mese, si capiranno le regole e si cercherà di vincere le gare. Guadagnandoci, naturalmente.

Siamo al bar, parliamo di Roma, tutti sono schifati, tre mesi fa parlavamo di Expo e Milano, poi due mesi fa di Mose e Venezia. Vedo sorrisi di compatimento per il mio accalorarmi, dicono che è così ovunque, hanno preso quelli facili, quelli impudenti. E’ uno scandalo che serve a qualcuno, poi tutto si quieterà, è il sistema che è marcio. Ma io dove sono in questo sistema? Se pago in nero un lavoro, se l’amico del bar mi fa uno scontrino a volte sì e a volte no, se faccio un favore per avere un mio diritto, se chiedo una raccomandazione nessuno si indigna. Se corrompo per avere un lavoro o evitare una ispezione e dico che è per non chiudere l’azienda, allora molti giustificano. Però quando prendono un corrotto tutti si indignano, e i corruttori? Perché non hanno altrettanta riprovazione di quando mi sono acceso il sigaro nel bar ? Se nessuno fuma al cinema o al ristorante, significa che il controllo sociale funziona benissimo. E allora quando si dice che siamo tutti onesti significa che non rubiamo cose, ma pure che gran parte di noi si gira dall’altra parte se vediamo farlo. Certo c’è il problema del rapporto cittadino istituzione, se si denuncia qualcosa la parte istituzionale ha proprie regole e abitudini, non interviene secondo i tempi con cui si attende che le cose vengano affrontate, le pene sono ridicole, lo Stato è inutilmente inquisitorio con i piccoli, e non con chi trova la strada per passare attraverso le regole. Ma pur senza sanzioni applicate non si fuma nei luoghi chiusi e quindi significa che una strada c’è per far rispettare la legalità senza troppi interventi. Dipende da noi, non votare più un disonesto, non prendere prodotti di una azienda che corrompe è un deterrente più forte della legge. Dipende anche da noi.

p.s. Le grandi aziende di software e i governi, assumono gli hacker per capire da chi li viola, le debolezze dei sistemi informatici e renderli più sicuri. I maggiori esperti di corruzione sono i corruttori, chi studia le norme per violarle, lo Stato dovrebbe assumerli, pagarli moltissimo e utilizzare la loro scienza per rendere forti e applicabili le leggi sugli appalti. Non lo dico io, lo dice l’OSCE. Costerebbe molto meno della corruzione e i lavori sarebbero fatti meglio.

difficoltà di spiegare

Lettere in stampatello, un po’ ondivaghe e diseguali, come fanno i bambini che hanno imparato a scrivere, ma non si lasciano andare al mare del corsivo per timore d’annegare nel senso. Conoscere la semplicità e la forza adulta che sta dietro quelle lettere pitturate con cura, guardate a fine opera prima di ripulire il pennello, perché i pennelli costano e vanno ben tenuti, avvertire lo sguardo che sorride muto, perché è tutto corretto e si può mostrare, è una gioia. Il cartello parla di una cosa comune, del suo buon uso, e sapere chi l’ha scritto è un piacere d’umanità. In altri tempi ho visto quegli occhi commossi, le mani grandi attorcigliate d’emozione, per qualcosa che ci riguardava tutti, ed è un privilegio che mi ha fatto capire molto. Lui, e molti altri come lui, uomini e donne, hanno vissuto due vite, una fatta di difficoltà, di affetti, di molto lavoro e sudore da fatica fisica, e un’altra vita fatta di lotte, presenza, volontà di cambiare, non per sé, per tutti. C’è una grande differenza tra la crescita e il successo personale e quello di tutti. E’ una differenza dove una parola desueta , solidarietà, è addirittura coniugata alla francese, e quella fraternità sembra una cosa vecchia, da persone che mettono assieme i loro destini. Forse per questa desuetudine a pensarsi assieme, di certe cose non si parla più. E forse per questo è difficile spiegarla al segretario del pd che punta al nuovo e ha pochi ricordi di lotte, ma è la differenza che sta tra sinistra e centro destra: da una parte si pensa di crescere assieme, dall’altra crescono i singoli. Però chi ha scritto il cartello è dentro al pd e non ci pensa proprio ad andarsene, ha dato fiducia al segretario perché chi vince ha la responsabilità di portare avanti le idee comuni. I segretari non si costruiscono sulle idee, quelle sono il nostro patrimonio, ti spiegherebbe, ma sul modo per realizzarle. E così gli dà fiducia anche se farebbe in altro modo. Quando parla, dice poche cose, così gli guardo le mani grandi e sento che anche loro parlano e ciò che esce fa fatica perché è radicato dentro. Non cambia opinione sul fatto che il giusto debba emergere e debba essere di tutti. E lui sa cos’è giusto e cosa non lo è, chi è debole e chi è forte, dove dovrebbero andare a prendere i soldi e dove invece bisognerebbe portarne. Ha fiducia del segretario, perché di un compagno si ha fiducia. Per questo non saprei come spiegare al segretario del pd che queste persone non si possono deludere, o peggio tradire, che in queste persone sta l’essenza del cambiamento perché sono disposte a soffrire se è per tutti e non solo per pochi. Non hanno mai avuto problemi di identità, sanno chi sono, perché sanno da che parte stare. Penso a questa difficoltà di comunicazione, di ascolto di chi non ha salotti o potere, di fiducia concessa perché un compagno non tradisce. Lo penso finché guardo il cartello, le lettere in stampatello, le loro altezze e righe un po’ ondivaghe. Penso che domani saremo assieme, che ci sarà buon cibo preparato con fatica e allegria, perché a stare assieme in cucina ci si diverte pure, che ci saranno parole e sorrisi, e magari lui si commuoverà perché gli accade quando sente che siamo in tanti e dalla stessa parte.

Sorriderà anche al fatto che invece che mille euro ne basteranno 20 per pranzare e autofinanziare quella campagna elettorale già fatta e perduta, perché tra le tavole piene di gente e importante e queste c’è una bella differenza. Qui i debiti si onorano anche quando si perde, ma l’avversario resta avversario. Questa è la differenza che fa di un uomo un uomo, ma chi glielo spiega al segretario.

Caro amico

Caro amico, siamo davvero retrò, continuiamo a scriverci lettere. Rade, certo, ma lettere fatte di parole che cercano di tenere assieme ciò che siamo con ciò che siamo stati. Ti ricordi quella sera alla casa degli italiani, a nord di Rosario? E alla fine della cena, gli inni, i discorsi, le canzoni napoletane e friulane, le lacrime che scendevano senza sapere perché e il cantare sempre più piano e poi il silenzio pieno di borbottii. Sono sicuro che ti ricordi, e anche di quello che allora ci sembrò un vecchietto, ti ricordi. Ci prese un po’ in disparte e ci chiese: ma come va in Italia, davvero? E il re, quello giovane, come sta? Parlava di Umberto e lui se n’era andato nel ’35 in Argentina. Gli raccontammo che andava bene, che anche Umberto stava bene e adesso era all’estero. Ci guardammo senza aggiungere altro. Lui parve contento.

Te lo ricordo perché anche tu sei distante da tanto ormai, mi scrivi che l’Italia c’è poco sui giornali in America, e neppure per televisione ne parlano mai. In internet segui altro, in fondo non c’è mai urgenza quando si è lontani e le cose viste da distante si muovono ma non fanno rumore. Lo so, eppure delle sere ho un magone che diluisco nel sonno. Ti penso allora e mi piacerebbe aver fatto le tue scelte. Essere distante, tornare qualche mese ogni 10 anni, come fai tu. Salutare gli amici, fare una rimpatriata fatta di pacche sulle spalle, cibo, informazioni e piccole notizie su chi non c’è, bere quel tanto che ci arrossa le guance e poi salutarci contando di esserci sempre. Ogni volta che ci sarà. Mi piacerebbe ancora di più adesso, ma allora scegliemmo altro. Ti ricordi quanto ne parlammo, e ciascuno cercava di convincere l’altro, poi ci siamo salutati, ripetendoci che ci saremmo visti e scritto, che ogni anno almeno ci sarebbe stato un appuntamento, che la nostra amicizia non sarebbe finita. Come non sarebbero finite le cose in cui credevamo. L’amicizia c’è ancora, magari non quella di un tempo, frammentata com’è dalla distanza e dalle vite, ma le cose in cui credevamo, amico mio, non ci sono più. Finito tutto, cancellato, espulso dalle idee e dalle passioni.

A noi sembravano immortali quelle idee, ci sentivamo dentro un progetto che eccedeva di gran lunga noi stessi. Era una religione con l’uomo al centro, ma hanno vinto gli atei e così tutto si è sgretolato. Prima con verità che non volevamo vedere e che sono apparse forti e incontestabili, così tutto è sembrato distorto, impossibile, sbagliato. Molti hanno fatto finta di niente, conveniva, ma poi sotto i colpi dell’individualismo e dell’indifferenza, pian piano si sono zittiti. Parlavano per frasi fatte, vuote di passione e di realtà. Tu eri distante, ma io ero qua e mi sono sentito un sognatore incapace di vedere la realtà. Non mi piaceva la realtà che mi imponevano, mi sembrava una campana fessa, senza suono. Ero fuori tempo e lo capivo, ormai residuo di un passato che ci crollava addosso. Quando crolla una casa non crollano solo i mattoni, le travi, ma anche gli affetti legati agli oggetti, i rapporti, le speranze che quella casa ha contenuto. Tra poco toccherà a Berlinguer, il resto se n’è già andato. Ti dico di questa sensazione perché non c’è più nulla di importante che vogliano tenere e te lo dico anche perché quelle notti e quel giorno li passammo assieme, condividendo lacrime e certezze. Si pensava, ce lo dicevamo, che quell’idea di società, di rigore, di cambiamento più rispettoso dell’uomo e del posto in cui vive, sarebbe andata avanti, anche nel Suo nome, e che le lotte future lo avrebbero sempre sentito parte di esse. Non fu così quasi subito, te n’eri già andato, ma quello che precedette la Sua morte, i picchetti alla FIAT (c’andammo anche noi, ricordi, per non far sentire soli quelli che erano lì giorno e notte), la scala mobile, la marcia dei 40.000 e le cose precipitarono. Lui non vide il referendum perduto, dissero che noi avevamo sbagliato. Ce lo dissero gli italiani, assieme ai dirigenti del nostro partito. I 40.000 trovarono interlocutori dappertutto, e noi non capimmo che se c’era un errore i problemi non cessavano, le soluzioni trovavano risposte fatte di licenziamenti, di difficoltà crescenti. Allora ci furono Craxi e poi Berlusconi a fornire risposte. E noi? Noi, io, non capii che già allora avevamo perduto, perché quella sconfitta aveva scavato dentro, demolito principi, convinzioni, idee. Però mica si diceva e così si è continuato finché mi sono trovato fuori della storia. Non da solo, ma io lo sentivo. Capisci, noi credevamo di essere parte della storia, di farla col nostro piccolo contributo e questa c’aveva sputato fuori, come un osso di frutto. Non ci ha messi in disparte, ci ha cancellato. Si chiama damnatio memoriae. E’ accaduto spesso nel passato, accade ora.

E così è finito tutto.

Ne parlavo con mio figlio, poi con altri giovani che hanno l’età in cui te ne sei andato, con una ragazza americana, e un lavoro che forse ci sarebbe stato, perché l’America, dicevi, era pur sempre un posto da cui vedere il mondo e poi ritornare. Questi ragazzi/uomini sono rimasti qui e parlando con loro ho scoperto che le nostre priorità di allora sono diventate niente, che le loro vite sono molto più precarie delle nostre, e già ci parevano ingiuste e misere (della miseria della condizione studentesca, ricordi? Ho ancora il saggio da qualche parte), e che quello che credevamo di aver conquistato per tutti, loro non lo vivevano, semplicemente perché non c’era. E poco vale dire che quelli che gli hanno tolto i diritti si chiamavano Berlusconi o Craxi, semplicemente sono stati privati di qualcosa quando ancora non potevano sapere che c’era e quindi non lo avvertono come una mancanza. Stanno peggio e basta. Non c’era passione in questo parlare con loro, i problemi e le mie soluzioni non avevano condivisione. Forse neppure le capivano le soluzioni, le parole che a me sembravano così ricche di significato. Allora ho capito l’indifferenza che è subentrata, è naturale sia così, per loro gli obbiettivi si sono talmente ravvicinati, l’affitto, le bollette, l’arrivare a fine mese, quale sarà il prossimo lavoro, che nel futuro al più ci sta una vacanza piccola, una partita con gli amici. Tutto diventa distante nell’indigenza e non c’è tempo, e modo di pensare, in grande. Questi uomini, perché ragazzi non lo sono, non credono più, né in Renzi né in quelli che lo contrastano. Sono distanti, come te, eppure vivono qui, ma non guardano al futuro, perché non riescono ad immaginarlo se non come somma di piccole/grandi difficoltà personali risolte.

E’ finito tutto, amico mio, e noi non ce ne siamo accorti, persi come eravamo nella cristallina forza delle convinzioni, degli ideali. Non ce ne siamo accorti e così siamo corresponsabili, perché non abbiamo saputo far evolvere le nostre ragioni del cuore e dell’intelligenza. Battuti non dal nuovo, ma dal vecchio che riemerge nel liberalismo trionfante. E così anche quello che si era duramente conquistato, è vetusto e si butta. Non è più vero che i diritti sono per sempre, scadono come il latte, ma noi non lo pensavamo. E’ la nostra sconfitta e non c’è più tempo per riprendere le bandiere rosse gettate nel fango. Almeno tu sei distante, leggi di questo Paese con la giusta misura e lo collochi nel tempo dilatato che si ha da lontano, cambierà perché in altri modi qualcun altro si incaricherà di rispondere all’ineguaglianza e all’ingiustizia. Sono un vecchio trombone, mio caro, borbotto e tengo lontano il cinismo, almeno quello, perché se qualcuno ha perduto non devono perdere tutti, anche quelli che verranno. Immagino ci sia una terza via, qualcosa che sia davvero nuovo e consideri un valore il cammino fatto. Adesso siamo un vicolo che non avevamo previsto, e non abbiamo un testimone da consegnare a qualcuno. E questo, credimi, rende oltremodo tristi. Ma qualcun altro si arrampicherà su per i muri e vedrà il giorno. Com’è, non come lo raccontano. Non noi. Ma questa speranza mi basta e forse può bastare anche a te.

Ti abbraccio con quella parola che ci piaceva tanto: compagno. Come un tempo, come adesso.

parole

Una infinita cascata di parole inzuppa il Paese. E come in un giorno d’estate, ritornati bambini, tantissimi si lasciano bagnare. Eppure le condizioni materiali dei cittadini non sono migliorate in questo anno di transizione (si spera) verso qualcosa di differente. Ma cos’è, dove sia e come si possa raggiungerlo, questo mutamento positivo, non è certo. Le parole offuscano le relazioni causa-effetto, ed evocare un cambiamento, spesso punitivo, non basta ad essere certi che per un sacrificio ci sarà una ricompensa. In questi giorni ho sentito un profluvio di immagini, di similitudini, di metafore. Una girandola variegata che ha portato gli occhi altrove dagli esuberi Alitalia e Meridiana, dai licenziamenti Tyssen Group, dalle casse integrazioni senza ormai azienda in cui tornare, dalle 160 vertenze aperte presso il ministero del lavoro. In piazza san Giovanni, la segretaria Camusso, arrancava con le parole un po’ usate: diritti, lotta, sciopero, contrattazione. Altrove tutte queste parole venivano irrise, giudicate vecchie, parte di una generazione di ideali vetusti e portate innanzi da persone incapaci di capire come funzione un iphone, una macchina digitale, un computer. Il vecchio e il nuovo che malamente si confrontano, dove il primo chiede di discutere con gli strumenti che conosce, con quello che è stato elaborato in decenni di confronti con risultato positivo e il secondo gli risponde che non è più un soggetto portatore di soluzioni, di cultura, di problemi. Ma davvero è una questione generazionale, un modo nuovo di capire la realtà? oppure è un diverso modo di usare le parole, di offrire una risposta verbale ad un Paese stremato, che non lotta più e vuol darsi una tregua, una speranza (che come tutte le speranze non ha bisogno di motivo e neppure pretende di diventare certezza). Leggendo il materiale a disposizione sui decreti delegati del Job Act, capisco che non viene indicato il lavoro vero che ci sarà alla fine, se spariranno le decine di contratti atipici, se chi lavora -o vorrebbe lavorare- sia esso giovane o meno giovane, troverà un lavoro e non solo una precaria occupazione. Però sentendo le parole sembra che tutto questo ci sia, allora capisco che ci sarà uno jato tra realtà e promesse, che ciò che davvero manca è una indicazione, un piano per lo sviluppo del Paese che da decenni latita e lascia alla sola iniziativa privata il compito di provvedere alla crescita. Ma questa iniziativa si è dimostrata insufficiente, spesso incapace, e allora torno sulle parole, quelle nuove, colorate e troppe da una parte, e quelle vetuste, logore, grigie, dall’altra. E mi convinco che siccome di parole ce ne sono state sempre più del necessario, dovrebbero essere i fatti a dare speranza, a dimostrare la giustezza di ciò che si fa. La realtà è una dura maestra. Ma la realtà rende flebile la speranza, la circonda di dura fatica, la mette in un percorso in cui chi conduce ha lo stesso rischio di chi è condotto. Proprio lo stesso rischio, non quello delle liquidazioni d’oro dopo i fallimenti. E troppi sono ancora le scialuppe per la prima classe e troppo pochi i salvagente per quella economica. Falso in bilancio, evasione fiscale, carcere per i reati finanziari, tutele per la fuga di capitali, ecc. ecc. non fanno parte del lessico trionfalistico di questi giorni perché parlare di questo, non dà colore ai discorsi, non infiamma, fa scappare i finanzieri d’assalto, i bon vivant, e al più racconta di equità e giustizia in un Paese che sembra preferire i furbi agli onesti. Forse per questo queste idee, a me care e importanti, sono diventate rare e difficili. Perché non si vede la riva, e così, finché si nuota, ci vengono raccontate storie e parole che non ci appartengono, ma che ci invitano a immaginare una salvezza facile e vicina (naufraghi, ecco quello che davvero siamo, di idee, di progetti comuni, di certezze), e questo ci espone tutti ad una scelta: valuteremo la realtà di ciò che viene promesso, oppure ci accontenteremo del calore delle parole che tratteggiano un futuro possibile? E’ una scelta drammatica, disperata per certi versi. Emerge in molti la tentazione di lasciare ad altri il compito di analizzare, riflettere, indicare soluzioni, come se la stanchezza del vedere la realtà ora fosse impossibile da superare. Credo invece che tutti dovremmo essere coinvolti, non dalle parole, ma da un progetto che condividiamo. Si usano esempi affascinanti ma poco italiani, è strano evocare Steve Jobs in un Paese che non ha più nessuna filiera tecnologica innovativa leader mondiale. E’ strano parlare di investimenti quando i privati se ne vanno dopo aver lucrato per decenni sugli aiuti di stato. E’ strano immaginare che i talenti che abbiamo restino senza un piano che investa denaro pubblico per le start up, per le nuove tecnologie, per la ricerca, per il lavoro che non sia solo occupazione, ma contenuti, competenze, abilità innovativa. C’è una strana mescolanza tra le parole: futuro, tecnologia, presente. Come se ciascuna di esse fosse automatica negli effetti e gratuita. Come se il futuro, per il solo fatto di tratteggiarlo, fosse già presente. La parola vivifica ciò che vorremmo, ma non lo rende reale, lo rende perseguibile. E questo costa fatica. Allora la domanda oltre le parole è: siamo disponibili a far fatica, sacrifici, condividere un percorso per raggiungere qualcosa di certo? E questo obbiettivo è di ciascuno, di alcuni, oppure è di tutti?