Ci sono momenti in cui si è contenti, e non è razionale, epperò viene naturale accettare d’essere così piacevolmente pieni di qualcosa che è reale ed impalpabile assieme. Ci si sente come da bambini, dopo una giornata di giochi, e assieme alla stanchezza, nel tornare a casa, c’era la certezza che il giorno successivo si sarebbe ripetuta la felicità e così ne derivava un piacere che durava fino al sonno.
Oggi, credo, si sia contenti perché qualcosa è andato per il suo verso e questo apre al futuro, come c’era allora la certezza del piacere del gioco e del giorno dopo.
E’ quella fiducia nel favore delle cose e quell’aprirsi che aumenta la contentezza e a volte la muta in felicità.
Ecco quello che dice ciò che si apre: questa contentezza durerà oltre questo presente che ci prende.
Non so da dove provenga tutto ciò, anche da noi stessi, credo, ma è un dono e come tale dev’essere accolto: col sorriso.
E’ mutato il significato della fotografia: da eccezione a normalità. La quantità e la diffusione delle immagini è sempre stata presente, la Kodak, a partire dai primi del ‘900, ha costruito un impero su questa possibilità di renderne universale l’uso della fotografia, ma oggi la possibilità di fermare immagini prescinde dai nomi dei produttori, diventa, come per la riproduzione del suono, qualcosa di cui ci si accontenta dal punto di vista tecnico per far emergere un significato dell’immagine. Quale significato? Quello della dimostrazione dell’attimo vissuto. E così il tempo viene rubato a se stesso, l’immagine sostituisce il messaggio, che anziché essere scritto, appare. E mai come oggi la fotografia è stata insieme narrazione di frammento e apparenza priva di contesto. Frammento perché cerca di racchiudere la parola che descrive in un mostrare e quindi lascia al libero arbitrio interpretativo. Apparenza perché la stessa descrizione del contesto dev’essere semplificata dal punto di vista cognitivo, si deve condividere per non equivocare e quindi la cosa dev’essere semplice. Andrebbe tutto bene se la semplicità non divenisse banalità, ripetizione, serialità da eccesso, per cui non lascia traccia anche se pretende di mantenere in sé l’attimo, cioè l’eternità. Mai come adesso si è socializzata la fotografia e ogni giorno vengono immesse quantità inimmaginabili di immagini visibili a chiunque, per cui ci si può chiedere se non sia questo numero a rendere totalmente differente il significato del fotografare. E’ così. Gran parte delle immagini non hanno un significato comune e semplicemente, entrando in rete, vengono buttate in una discarica che non si saturerà perché ciò che si fotografa comunque perderà la funzione di traccia del sé, per la volatilità del digitale, e non solo la sua enorme quantità. I supporti magnetici non tengono più di un certo tempo e se una stampa o una pellicola durano più di 100 anni, una registrazione digitale può esserci o non esserci, dopo 20 anni. E’ un problema per gli artisti, per i fotografi veri? Certamente no. E per chi vuole tenere l’eccezione è un problema? Neppure. Solo che una cosa, la fotografia al pari del testo solo digitale, è qualcosa di diverso da ciò che era, non è immortale, non racconterà di noi, non mostrerà il mondo come noi l’abbiamo veduto, neppure quando si potrà leggere o vedere, perché parlando tutti assieme non si sente nulla di ciò che viene detto. Una sorta di Alzheimer tecnologico divora e divorerà la memoria questi scatti, assieme ai documenti che scriviamo e tutto il resto. Ecco che il mezzo assume oggi un altro significato, la transitorietà, e forse questa è l’immagine più fedele che la fotografia ci restituisce. Sic transeat gloria mundi. La nostra gloria non dura, ed è la cosa più crudele, dopo la perdita della giovinezza, che ci potessero dire.
Ci si chiederà come nascono queste riflessioni che sembrano non avere un contesto e che, molto spesso, sono pensieri conosciuti, cose che ognuno di noi pensa. Nascono dall’osservare, conversare, dai racconti di altre vite che mi inducono a ripensare alla mia e così diventano un esame delle mie scelte e contraddizioni. Dirlo in modo assertivo può dare una patente saputella che non c’è, non ci sono verità assolute, solo il riesame di ciò che davvero significa il tempo, ciò che è agire e ciò che invece essere agito. E quanta felicità questo mi genera o mi sottrae. In fondo la triade: tempo, possibilità, felicità la si trova ovunque nella vita e come al solito bisognerebbe chiedersi cos’è che apre e cos’è che chiude, per capire se la felicità può entrare o meno.
C’è una notizia buona e una meno buona. Quella meno buona ci dice che le occasioni (e quindi le scelte) per quel futuro, proprio quello, ci sono solo una volta. Quella buona ci dice che si presentano in continuazione. Non sono le stesse, magari si assomigliano, ma saranno altre, comunque nuove. Chi preferisce aspettare indefinitamente è un indeciso o un perfezionista, entrambi condannati all’insoddisfazione. Chi prende tutto quello che passa è un bulimico che non gusta più nulla e non discerne. Chi a volte prende e a volte se lascia scappare l’occasione, è normale. Ma tutti siamo sollecitati da questo miracolo dell’essere sorpresi. La scelta è tra un essere presi da qualcosa che è un futuro concreto (sia esso immediato, prossimo o lontano) e comunque possibile, oppure rifiutarlo. La scelta è sempre binaria, le scelte a mezzo sono piccoli rifiuti. Poi le cose non vanno come si pensa, deviano perché altre scelte vengono fatte, perché le sorprese non necessariamente saturano il desiderio, al più rispondono al bisogno, ma ciò che accade è qualcosa, anche quando è stato favorito, che è in sostanza inaspettato. Chi non è meravigliato dalla possibilità ha già scelto, e di fatto non ha creato nulla di nuovo per sé. E questa è un’altra parte della scelta, ovvero la novità, ciò che ci può cambiare. Si dice che i treni non passano due volte, se così fosse gli orari ferroviari sarebbero inutili, ci sarebbe qualche scontro inevitabile, anche se sarebbe interessante andare in stazione e prendere il primo treno che incontra il nostro favore o desiderio. E il desiderio d’essere altri e il bisogno di nuovo, di viaggio dentro e fuori di sé, in misura diversa sarebbero soddisfatti. Se guardiamo bene, nessuno davvero è in grado di vietarci questa esperienza che confiniamo nel sogno. Pensateci e scartate una per una le impossibilità trovando soluzioni, vedrete che non è impossibile. Ma questo ci riporta al fatto che se quel treno, quell’occasione, non passeranno più epperò altri ne passano, cosicché la vita può essere intesa come rimpianto di ciò che poteva accadere e non è successo oppure come possibilità che succeda qualcosa che ci muta perché corrisponde alla nostra scelta e quindi a noi. Se vado in un centro commerciale, le scelte mi stancano, sono sollecitazioni multiple a desideri poco strutturati, sollecito il desiderio che non avevo, attraverso un essere attraverso le cose o l’apparenza. Se parto da casa e acquisto ciò che già desidero, una soddisfazione intrinseca mi prende. Non sono stanco, sono contento perché ho già un possibile mio futuro in mano. Uscendo dalla banalità dell’esempio, ciò che penso è che in realtà è l’uso del mio tempo che in fondo è in gioco e quanto di questo tempo corrisponde a ciò che faccio e scelgo. La scelta, il prendere quel treno è un uso forte del mio tempo che diventa vissuto, non un tempo che mi è fatto vivere da altro che non sento mio. Poi anche il nuovo diventerà abitudine, comunque non è più tale se non ha la capacità di rinnovarsi, di ricrearsi, di essere vivo, insomma. Però se considero che io uso il mio tempo attraverso le mie scelte e lo determino e da esso mi lascio determinare perché si conforma a me, anche attraverso il contrasto a ciò che non mi piace, che non mi si confà, comunque lo vivo. E’ allora che mi accorgo che il tempo cronologico conta poco, che il mio tempo è ciò che scelgo, che le occasioni continueranno a presentarsi e che io potrò vederle e scegliere se esserci o meno. Ecco questo mi pare che sia davvero una meraviglia e che che nella sua gratuità, ci chieda unicamente di vivere approssimandoci a quello che davvero siamo, a coincidere e a godere di noi, del molto che abbiamo e riceviamo in continuazione.
E’ una delle ultime feste delle matricole, il ’68 renderà improvvisamente anacronistica questa festa, che riprenderà alla fine degli anni ’70, quando tutto sarà normalizzato. La fotografia è del 1967, scattata probabilmente, su fp4 Ilford, sviluppata e stampata in casa. In quell’anno l’università elitaria diventa università di massa, ma soprattutto comincia a mettere in discussione i meccanismi di trasmissione del sapere e la loro incidenza sulla società. Si capisce che il sapere serve per mantenere potere, soggezione e diseguaglianze se non mette in discussione il suo fine. La conoscenza fino a quel momento ha liberato poco se non è stata accompagnata dalla critica e dalla richiesta di cambiamento. Cioè non basta leggere la società, bisogna trarne le conseguenze. E’ una consapevolezza che cresce, che diventa collettiva, ma quello che viene poi, dal 1972 è una sequela infinita di errori, di radicalismi, di alienazioni differenti, e altrettanto gravi: la lotta armata, le uccisioni di magistrati e giornalisti, l’attacco al cuore dello stato, i servizi deviati, gli attentati neri, i golpe falliti. Tutto porta alla restaurazione e il lento scivolamento nell’anomia, nell’esasperazione dell’io perché il noi è insoddisfacente. Il sapere torna nell’alveo della trasmissione delle competenze, non discute più rapporti e fini, si tecnologizza e parcellizza ulteriormente. Si capisce che il sapere di per sé non salva, al più pone domande radicali, anche se aiuta a trovare risposte nell’analisi della realtà, bisogna decidere se ascoltarlo o meno. Nel frattempo la macchina del sapere si organizza, crea competenze alte ed esclusive, ma in campi ristretti, dequalifica come inutili economicamente le conoscenze umanistiche, punta sulla parcellizzazione che allontana le risposte complessive e fa trionfare la tecnologia: ogni problema singolo ha una risposta tecnologica, ogni malattia del corpo e dell’ambiente riceverà una guarigione. Poiché non può economicamente attendere la coscienza del problema che crea, spesso la tecnologia anticipa la domanda, la crea.
Il bivio tra un sapere che colloca l’individuo nella società e quindi la sottopone al suo vaglio e il sapere funzionale nasce ben prima del ’67, però diventa coscienza collettiva in quegli anni. I risultati di una meditazione caotica, non per questo priva di acutezza, di fortissimo discernimento, sfociano, anziché nella sabbia che è sotto l’asfalto, come si scriveva sui muri di Parigi, in un grigiore di cemento. Se prima del ’68 l’attacco al territorio e all’uomo, la speculazione, erano un fatto enorme e censurabile, questa pratica divoratrice diventa poi una presunta corsa all’arricchimento di massa. Cresce la scolarizzazione e il sapere e aumenta la malversazione, il malaffare grigio, la corruzione, la pratica criminale intelligente. Non c’è correlazione tra sapere e comportamento delinquenziale, ma certamente cresce l’infingardaggine, il girarsi altrove, il non vedere per interesse. Quindi il sapere abiura alla sua funzione critica e pur essendo di massa non migliora complessivamente la coscienza sociale. Dov’è l’errore? Forse nel dare al sapere una responsabilità che in realtà è dell’uomo, forse nella malintesa concezione che il sapere serva a fare e non ad essere.
Quel giorno, era l’otto febbraio, ero molto giovane e pieno di pensieri e speranze, giravo per la città con la mia macchina fotografica. Cercavo i volti, come sempre, le situazioni accennate. In questa situazione, dietro l’angolo del Pedrocchi si prepara una sorpresa, sono giovani che vogliono ridere con altri giovani. Una giovinezza esplode nello scherzo e nell’ilarità conseguente. E’ un attimo poi qualcosa di diverso attirerà l’attenzione per ulteriore ilarità. In questa sospensione prima che qualcosa accada, è vissuta una generazione e la successiva. Non malamente, si è riso molto. I due della foto si stanno preparando alla vita, non so cosa sia accaduto loro poi, come le vite si siano svolte. Se penso a ciò che conosco, immagino che le difficoltà e i grovigli non siano mancati, che la crescita abbia avuto luci e amarezze, che l’indole si sia piegata, indurita, che abbiano appreso molto dalla realtà (che è sempre una dura maestra). Sono miei coetanei, e poi hanno avuto occasioni per usare il sapere che questa alma mater gli ha dato. Chissà, e se, le hanno usate. Comunque i loro anni saranno stati pieni e di certo le soddisfazioni avranno equilibrato le amarezze. Sono anche certo che c’è stata molta speranza, ma che questa si sarà via via esaurita se non l’hanno alimentata di utopia e di sogni. Hanno vissuto, ma non sappiamo come abbiano impiegato ciò che gli è stato dato, se l’abbiano elaborato e siano diventati eretici. Stanno per avere una grande occasione e così li lasciamo, nel 1967, in attesa di una vita che ci sarà.
Premessa: quanto segue è fastidioso, troppo lungo e comunque non dice nulla che non sia un’opinione. Al più è una traccia di discussione. E qui può finire la lettura.
Tema: ma il nuovo è davvero nuovo e il vecchio quanto è vecchio?
Svolgimento:
Qualche anno fa, nel 2009, di Renzi non si sapeva quasi nulla oltre la cerchia dei sodali di Firenze. Dopo le dimissioni di Veltroni per la sconfitta in Sardegna, del PD era segretario Franceschini, che per tenere un po’ assieme, un’elezione senza congresso e decisioni politiche poco comprensibili, convocò il 21 marzo, un’assemblea dei Circoli a Roma. In quell’occasione, e in un’ora disattenta, con un intervento appassionato, si fece molto notare una quasi quarantenne avvocata di Udine, Debora Serracchiani. Strigliò il segretario, chiese ragione e ascolto per gli iscritti che sentivano lontane le decisione della politica del partito dalla vita reale. Con determinazione dettò delle linee di cambiamento. Fu molto applaudita. Cito alcuni passi del suo discorso:
…
Noi non possiamo riconoscerci in un Paese che non investe nella scuola nell’università e nella ricerca.
Noi non ci possiamo riconoscere in un Paese che pensa di superare la crisi economica solo prendendola più allegramente.
Noi non ci possiamo riconoscere in un Paese che pensa che i propri lavoratori siano dei fannulloni e che i medici debbano denunciare i propri assistiti.
E noi non ci possiamo riconoscere in un Paese che non si preoccupa di quei bambini che rischiano di essere bambini non esistenti, bambini che non potranno essere registrati. Io quel paese non lo voglio.
Noi non ci dobbiamo riconoscere in questi.
E noi, dico segretario, non ci possiamo riconoscere in un Paese che non tassa i più ricchi solo perché pensa che siano troppo pochi!
E dico, segretario, che non ci riconosceremo in un partito che non capisca quanto sia importante tornare a parlare agli italiani con una voce sola.
Questo noi lo pretendiamo!!!
…
Poi Debora Serracchiani fu candidata alle europee, e fu eletta a furor di popolo, prendendo più voti di Berlusconi nel Triveneto, poi è stata eletta segretaria del PD del Friuli Venezia Giulia, poi Presidente della Regione, e ora anche vice Segretaria del PD nazionale. Poi si vedrà. Quindi un cursus honorum rapido, con dichiarazioni e prese di posizione nette. Magari non sempre conseguenti a quel primo appassionato intervento, ultimamente spesso parla, mentre il segretario nazionale tace, cioè fa dire ai vice per non metterci la faccia, ma le situazioni cambiano e anche le opinioni possono mutare. Ho parlato di una persona che stimo per l’impegno, anche quando non condivido ciò che pensa e dice, perché la sua storia, come quella di tutta questa nuova generazione di politici, è breve, molto tranchant nei modi e legata a tempi rapidi.
Sembra che uno dei caratteri dell’economia contemporanea, ovvero la velocità e il cambio di prodotto, sia il segno in cui si misura l’efficacia dell’azione e il cambiamento. Il nuovo, insomma. La stessa interpretazione della modernità è concentrata sul fare, sullo sperimentare, sul conformarsi ad una velocità esterna più che a determinarla. Quindi tutto il lessico che ha orientato le idee di cambiamento e di sinistra è diventato improvvisamente obsoleto perché quelle idee volevano cambiare profondamente la società e i rapporti che erano in essa (ricordate il veniamo da lontano e andiamo lontano? Il percorso di lunga lena, ecc. ), mentre ora si punta sull’accelerazione che di necessità si sovrappone a ciò che esiste e quindi all’accettazione dell’economia così com’è, della politica estera come viene (Mogherini, chi era costei?), nella rappresentazione dell’uomo come serve al momento. Quindi un seguire il flusso che mai come ora determina governi e loro azione in forza della crescita e dell’arricchimento di pochi a scapito di molti. La diseguaglianza è un drammatico problema che investe tutte le democrazie occidentali.
Da un paio d’anni viene detto che tutto ciò che è stato fatto finora in politica in Italia, è stato incapace di modificare la realtà, che esso si è perduto in interminabili discussioni utili solo a conservare privilegi e diritti di pochi. Quindi il vecchio è stato, ed è, incapace di cogliere la realtà, è cieco, non vede gli elementi di reale adeguatezza ai bisogni delle persone, i loro nuovi diritti. La cittadinanza si esprime mediamente per interessi, ovvero ciò che non interessa mediamente non esiste, e quindi non è un caso che sia scomparso il dibattito sulla cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, il diritto a un fine vita decoroso, il conflitto di interessi, la lotta all’evasione, la proprietà dell’acqua pubblica, i beni comuni, ecc.ecc.. C’è una nuova declinazione dell’eguaglianza basata sulla meritocrazia, una sorta di arrichessez vous interpretata come opportunità dei singoli non come offerta di sistema di diritti. Quindi siamo dinanzi ad una nuova interpretazione della realtà che scardina le ammuffite parole delle ideologie e dell’illuminismo. Una interpretazione più che positivista, basata sulla fortuna dell’individuo anziché sull’insieme, sull’io, anziché sul noi.
Questo però non è granché nuovo, basta leggere un qualsiasi classico del liberalismo, quindi la novità è più su una nuova gestione del potere. La mia tesi è che in realtà sia transitato solo il potere tra generazioni e che i poteri veri, quelli neanche tanto occulti siano intatti, anzi che ci sia in corso una deriva che consciamente o inconsciamente ne aumenta l’influenza e la presa economica. Se così è la generazione di Renzi, Serracchiani, Guerini, Taddei, Madia, Boschi, ecc. ecc. ha preso in mano non solo il PD, ma la rappresentazione e la gestione della realtà politica e dell’agire dell’intero Paese. E quello che io penso è che si consumata una lotta di potere, più che di idee, e una parte ha perso perché chiaramente inadeguata a capire cosa stava accadendo, ma che entrambe le gestioni del potere, quella precedente e l’attuale, siano presuntuose e arroganti e non dissimili, quindi il nuovo non è più democratico o attento alla diversa interpretazione delle cose che porta la critica, ma determinato a ridurre la propria realtà ad unica, sia pure a colpi di maggioranza, anche contro l’evidenza, tanto poi se si sbaglia si potrà riparare: siamo giovani, abbiamo tempo.
Mancando una visione chiara di dove si finirà, un modello esplicito a cui conformarsi o meno, le idee nuove sono labili e mutevoli quanto quelle precedenti erano vecchie e irrigidite, però a fronte della lentezza del processo che compone ragioni opposte, che mette assieme gli obbiettivi e li compone negli effetti reciproci, oggi si preferisce la velocità. Gli esempi sono ripetuti, si colloca Rai Way in borsa, si parla di legge sulla Rai e subito parte una offerta di Mediaset che chiede l’acquisto della società di trasmissione che di fatto la farebbe diventare monopolista delle antenne. Ora si mette una barriera al 51% , ma se passerà la legge elettorale che consente a un partito con il 25% degli aventi diritto al voto di portare a casa la maggioranza sull’unica camera che legifera, di determinare capo dello stato e presidente della repubblica chi potrà impedire che una determinazione ministeriale non venga immediatamente modificata? E questo vale per qualsiasi altra privatizzazione senza una legge sui monopoli, senza che neppure si sia riusciti in 20 anni a chiudere una reti di Mediaset, rete quattro, dichiarata non conforme alla legge con sentenza. Banche popolari, Enel, Finmeccanica, non si capisce quale sia il progetto semplicemente perché il progetto non c’è, prima c’era un eccesso di ideologia e di progettazione ora c’è la totale assenza di un piano su cui si possa esprimere un gradimento, un parere, un voto. E la stessa gestione della crisi, nel risolverne problemi, non porta verso una maggiore trasparenza, ma verso la costituzione di nuovi aggregati privati, insomma emerge un modo per privatizzare ciò che è pubblico o già privato, favorendo però la concentrazione in grandi gruppi che poi deterranno l’intera, o quasi, offerta dei beni e servizi.
Quindi il nuovo, è esercizio di potere conforme a una visione giovanilista della realtà, dove la discussione è un impedimento, una perdita di tempo, ma che nel fare poco si cura delle implicazioni. Anche la discussione diventa un atto formale perché altrove si è già deciso, l’ultimo esempio è la convocazione per domani da parte del presidente del Consiglio, dei gruppi parlamentari per esaminare, un’ora ciascuno, i provvedimenti su scuola, Rai, ambiente e fisco. Cosa si può davvero discutere in un’ora e sopratutto quando mai in una repubblica parlamentare il presidente dell’esecutivo convoca i gruppi parlamentari del partito di cui è segretario, forse per dire cosa questi dovranno votare in leggi non fatte da loro? Dove finisce l’indipendenza dei poteri, la libertà del parlamentare e del parlamento? Quindi il nuovo è un potere che non si cura di nascondersi e si esercita visto che adesione e convenienze, non si oppongono. Però questo passaggio di potere generazionale e sua modalità di gestione, non ha sconfitto solo la parte del “vecchi” della politica, ma anche tutta quella parte giovane che non si è adeguata con prontezza alla nuova gestione del potere. Il modello oggi è molto più verticistico, poco democratico perché basato ancor più sulla cooptazione e selettivo in senso di fedeltà al capo, tende ad escludere una reale contendibilità del potere e pensa di essere in tal modo duraturo. Questo è un modello che sta contagiando l’intero sistema politico. Del resto si legge nelle priorità e nella politica sinora portate innanzi, e orientate alle modifiche costituzionali in senso maggioritario, nell’ emettere continui provvedimenti che affrontano i temi più diversi, nel dire e nel contraddire secondo convenienza, nel non toccare nessuno dei potentati reali che assicurano la tenuta del potere oltre la stretta cerchia della politica. E’ significativo che emerga la convinzione di giocare una sfida già vinta per il controllo del potere politico in Italia e il favore del potere economico, che accompagna quello politico, è emblematico di una direzione e di un sostegno conforme agli interessi del primo. Ma per un partito riformista gli interessi del potere economico sono i suoi stessi interessi? Visto dall’esterno il cambiamento è sì nuovo, ma in senso di restaurazione di potentati più che nella distribuzione di nuove eguaglianze e diritti.
Conclusioni:
vista così la situazione non resterebbe che attendere che qualcosa accada di positivo oppure che passi, perché tutto passa. Però non c’è una pazienza sufficiente nei vecchi e negli scontenti, per cui chi non si adegua o è destinato a patire, a diventare gioiosamente gufo, oppure immagina una via di uscita più conforme a ciò che pensa.
Allora la prima domanda che ci si può porre è: va bene esercizio del potere, ma per chi? a favore di cosa? Quindi la prima necessità è favorire la nascita di una risposta aggregante, di un possibile riconoscersi non solo nella protesta, ma nella proposta.
Lo spazio e le teste esistono, possono mettere a disposizione alternative serie, che magari verranno bocciate, ma come si diceva un tempo, bisogna durare un minuto in più dell’avversario perché il giusto alla fine riemerge. Poi servono uomini, punti di riferimento, e qui c’è il secondo problema, se la politica oltre le banalità e la gestione del potere è davvero servizio, servono persone che abbiano la tranquillità di non dipendere da qualcosa o qualcuno, che possano fare riferimento a un gruppo che condivide non il potere, ma il fine per cui lo si chiede. Ci sono questi uomini e donne? Io ritengo di sì, e sono al di fuori della contesa generazionale, si guardano come persone e portatori di contenuti, e capiscono che nelle organizzazioni in cui lavorano, c’è necessità di cambiare fortemente, anche e sopratutto se sanno che non hanno intera la verità.
La sinistra politica da sola è incapace di riformare se stessa e di mettersi assieme, c’è troppo vissuto e troppa rendita di posizione, però abbiamo un esempio, nel ’69 il sociale fu gestito molto più dal sindacato che dalla politica e cambiò la politica stessa. Quindi sia pure con caratteristiche molto differenti, la nascita di un blocco sociale, alternativo, di sinistra riformista potrebbe essere perseguito, ma non a partire dai partiti bensì dall’analisi della realtà di quel 50% del Paese che è sostanzialmente immerso a vita nella crisi e a cui è stato tolta l’unica possibilità di mutamento che aveva ovvero la mobilità sociale. Non è strano che il Papa riesca a vedere e indicare i problemi con una precisione che la sinistra non evidenzia, ed è pure ascoltato. Quindi consapevolezza, tempo giusto per costruire, ed elaborazione di alternative. Se Landini scendesse in politica fondando un partito, sbaglierebbe, ma se la C.G.I.L. si chiedesse fortemente come deve essa cambiare per rappresentare gli interessi di chi lavora e vive in questo Paese, allora le cose cambierebbero. Un sociologo renziano ha detto che è stata seppellita la rappresentanza degli interessi come attore che interferisce con la politica, invece io credo che la rappresentanza degli interessi sia il sale della democrazia e della mediazione che porta al cambiamento di tutti. Se si elimina la rappresentanza non si elimina il privilegio, ma la dimensione dei diritti, ha diritto chi ha il potere, gli altri sono muti, e questo riguarda i partiti, i sindacati, ma sopratutto i cittadini: senza rappresentanza non c’è voce, senza voce non c’è limite all’abuso.
Tesi finale:
c’è stata solo una presa di potere di una parte dei giovani in un partito di vecchi che non si ritenevano tali. Doveva accadere sopratutto per la poca capacità dei vecchi di capire cosa accadeva. Però il nuovo non nuovo anche se il vecchio è stato sconfitto comunque. Se quest’ultimo ora avesse un po’ di intelligenza la eserciterebbe, sia prendendosi la responsabilità di essere conseguente a ciò che dice e sia favorendo che un nuovo davvero tale, nasca. E siccome sono un inguaribile romantico ed ottimista, penso che ogni malattia genera i suoi antidoti e che all’orizzonte davvero appaia un bianco cavallo, adesso resta da capire chi lo conduce.
Molti, quasi tutti, vanno in bicicletta o a piedi: studenti, avvocati, professori universitari, professionisti, artigiani e massaie. Altri in suv. Ma quelli sono commercianti, persone in cerca di evidenza facile, nobili più o meno decaduti con palazzo in centro, personaggi con capitali strani, foresti. La città storica è piccola, si percorre in mezz’ora, ed è un gusto andarci tra portici, piazzette, caffetterie e tavoli all’aperto, monumenti e palazzi. Molti palazzi e monumenti, che si sovrappongono come nei dipinti del ‘300, che trovi nella basilica o nel Salone, ce n’è uno di Altichieri da Zevio, bellissimo, nella cappella del beato Luca Belludi, che mostra il Santo e la città zeppa di case, con quella prospettiva piatta che dà un senso di folla curiosa e un po’ meravigliata, solo che non ci sono persone ma palazzi, strade, piazze e torri che si accalcano entro mura turrite. Una sorta d’isola in mezzo a una campagna che accoglie e converge come un abbraccio. Dentro le mura del ‘500 è un addensarsi di case e se si vedono dall’alto, a malapena si indovina il cardum e il decumanum romano, perché la città c’era prima di Roma e perché non fu mai un accampamento, e così le strade si muovono a raggiera, a ellissi larghe, ristrette dai portici, ma anche allargate da essi per chi cammina. Ci sono strade in cui pedoni e biciclette si mischiano allegramente, altre in cui c’è un caotico flusso che dipende dalle ore e dagli spostamenti, le auto sembrano in più, servono per tornare a casa quando si è andati distanti, ma poi il piacere è muoversi con la fretta che consente un corpo. Non sono mai sufficienti le rastrelliere per le bici e le piste ciclabili stanno decadendo da quando è arrivato un sindaco che non capisceperché foresto, che sente le ragioni dei commercianti e molto meno quelle di chi non vota, come gli studenti. Qualche anno fa proposi al rettore di fare un campus per la facoltà di medicina fuori città, mi rispose che non era il caso e che l’università era un campus urbano come accade ad Oxford o Cambridge. Aveva ragione lui sul campus, del resto quasi 70.000 studenti non sono pochi in una città che ha 200.000 abitanti, ma aveva torto pensando che fosse come nelle città inglesi dove è l’università la principale struttura urbana e il centro di pensiero anche economico. Qui, come a Bologna, ci si vanta dell’università, ma poi si pensa ad altro, spesso la si sfrutta. L’alma mater è al più matrigna per l’ industria e indifferente alla tradizione commerciale millenaria. Una economia miope e spesso arrogante oltre che lagnosa, fatta di parole e poca generosità. Non è un caso che gli ultimi benefattori si siano estinti nei primi anni del secolo scorso, questo ci dice che dopo lo splendore degli anni della repubblica e del principato, la lunga dominazione veneziana non ha generato una stirpe di munifici ricchi, ma circoli chiusi e gelosie. Eppure c’è un’aria che altrove non si trova. Non quella inquinata che si respira, ma l’idea che possa accadere qualcosa di grande, di bello, di adeguato a un destino che punta in alto. Questo non vedere l’alto è tipico di chi guarda con troppa attenzione ciò che vende e più per il guadagno che per la sostanza, ma mi ostino a pensare che in un qualche momento ci sia chi comincia a guardare innanzi e vede che la civitas è un insieme unico se ne facciamo parte non se si vive di rendita. E’ chiaro che sono di parte, amo troppo questa città, ne ho la sensazione tangibile quando ci cammino, quando vedo luoghi in cui sono cresciuto e che hanno acquistato la giusta dimensione capendo col tempo, cosa si è pensato e cosa c’è stato tra queste mura, ma non è solo un amore fatto di appartenenza, è il piacere di tornarci, unito alla capacità di vedere difetti e limiti. Da molto tempo l’industria delle lapidi per gli uomini illustri langue, con fatica si trovano qualità importanti per dedicare una strada, le stesse glorie accademiche si sono rarefatte. Come per gli uomini, le città vivono se si aprono, se guardano lontano, ora il periodo è indeciso tra una micragnosità di piccole ricchezze tenute strette e il volo di chi vorrebbe un respiro possente che indichi al mondo che di cultura, di ricerca, di saperi, di scoperte ci si alimenta e vive. Quando ci penso mi dico che finché ci saranno biciclette e persone che vanno a piedi c’è speranza che questo vedere prenda il sopravvento. Lo so che è così, perché chi cammina ha tempo per pensare e chi pensa riesce a vedere oltre, ha una meta, che è non solo la strada su cui cammina.
In un libro di Nicola Lisi, diario di un parroco di campagna, si parla della vita che si svolge in una piccola comunità. Le feste religiose, i residui pagani, le credenze, le nascite e le morti. I fatti singolari si estrapolano da una sequenza di consuetudini acquisite non si sa come e tutto procede in una atmosfera sospesa. Anche i sentimenti sembrano solo personali e privi di effetti di mutamento e così il magico e l’inconsueto sono temperati, quieti . Tutto fa parte delle giornate che iniziano con un risveglio e finiscono con un riposo. Giorni tutti uguali che al più sono rischiarati dal loro grigiore da un senso d’attesa che qualcosa accada. Appena oltre i confini della parrocchia e del paese, succedono cose differenti e importanti, ma di queste arriva solo l’eco e raramente l’effetto. Questa era la condizione vera del mondo fino a 70-80 anni fa, e la tentazione del dotto o del protagonista era la vita quieta e l’estraniarsi dalle cose, proprio come accadeva nelle vite usuali, ma per scelta non per condizione. Poi le vite si dividevano tra vite immote e vite mobili, tra un tempo locale e un tempo universale. Ma di quest’ultimo tempo arrivava ben poco nelle case delle persone comuni, c’era al più qualche notizia da commentare, ed essa restava rigorosamente separata dalla gestione delle vite nel loro svolgersi abituale. Quindi c’erano due tempi che non coincidevano, e neppure spesso si toccavano: uno in cui si viveva e i cui non avveniva praticamente nulla e uno in cui avveniva molto ma che di fatto raramente riguardava le vite dei singoli. Anche i gravi sommovimenti storici, le guerre, gli eventi naturali catastrofici entravano nella memoria ma non mutavano le vite se non le riguardavano direttamente. Mia nonna ricordava il terremoto di Messina, ma questo non le aveva mutato condizione o destino personale visto che non era li, cosa che invece fece la prima guerra mondiale. Voglio dire che una sorta di impermeabilità del tempo vissuto nella propria vita rispetto al tempo dei fatti e del mondo era naturale quando non emergeva una correlazione diretta tra le notizie, i fatti e il vivere usuale. Ci si preoccupava di se e di ciò che accadeva in un raggio molto ristretto di metri, al più qualche kilometro, il resto era curiosità. Oggi che abbiamo la possibilità di conoscere molto di ciò che accade, che possiamo viaggiare con facilità, che siamo immersi nelle notizie, stranamente l’influsso sulle vite personali di ciò che accade non è mutato di molto. Viviamo apparentemente in un villaggio globale, ma la dimensione è quella della casa, di ciò che faremo tra qualche ora, in un fine settimana, tra qualche mese. Viviamo in una penombra serale che ha in se nostalgia e quiete e la percezione del mondo non agisce sui fatti e sulla possibilità di incidere sulle loro conseguenze, ma solo sulla distinzione se essi ci riguardano o meno e comunque ci penseremo domani. L”esortazione di John Donne sul non mandare a chiedere per chi suona la campana è ancora pienamente inattuata. Sappiamo molto ma non espandiamo il nostro tempo e così si deve ridurre la conoscenza, toglierle importanza fino a ridurla a un brusio di fondo che genera un’inquietudine costante. Viviamo vite inquiete perché il nostro tempo non coincide con il tempo del mondo, perché ne sentiamo la minaccia ma non interagiamo con esso. Allora la domanda diventa non tanto dove sono, cosa capisco, ma piuttosto: ciò che accade mi riguarda? E cosa davvero mi riguarda?
Insegnavano a non chiedere più di quello che veniva detto, a non fare domande dirette. Così la curiosità pian piano, prendeva un’altra forma rispetto a quella immediata. Si nutriva di particolari e si temperava nella pazienza. Anche parlare secondo un ordine veniva insegnato, anzi si imparava più il silenzio che la parola, sopratutto quella impetuosa, se si era con i “grandi”, però si notava che, pur in una gerarchia d’interesse, chi parlava aveva attenzione. Non sempre, ma certamente più di quanto oggi si pratichi. Si parlava molto poco di sé e troppo spesso d’altri, anche se sfumando e lasciando intuire. A certi discorsi i bambini venivano allontanati. Non credo per particolari pudori, ma perché “putei e colombi smerda ‘e case” Cioè bambini e colombi…ecc. Andava bene così? No, non tutto almeno, però s’imparava ad ascoltare e a dare importanza a ciò che veniva detto. E sopratutto taciuto. E il momento vero dell’iniziazione era quando i “grandi” non erano più tali perché ti ascoltavano. Non accadeva di colpo, c’era un periodo in cui si scopriva che l’attenzione non era più distratta, che diventavi interlocutore. Un riconoscimento d’importanza, insomma, che aumentava molto l’autostima e il ruolo.
Forse per questo mi suona sempre strano, il dove sei, cosa fai, con chi sei? Non perché abbia reticenze, ma perché penso ancora che dire di sé sia una facoltà che si dona all’altro, un gesto libero e quindi senza bisogno di richieste. Ma mi rendo conto che sono il prodotto, neppure ben riuscito, di un’altra era, e quindi chiedete pure, al più non rispondo.
Ma cosa sentiamo davvero di comune e di collettivo?
Abbiamo sentimenti forti e individuali, l’amore, il disamore, affetti, solitudini e su questi regoliamo il sentire un po’ più profondo, generiamo stati emozionali che modificano i rapporti, e magari seguono un po’ le vite. Ma poi ? C’è un difetto di speranza che pervade lo stare assieme e si ripercuote sulle capacità individuali di venir fuori dal contingente, di superare i dolori e le difficoltà. Preclude anche la capacità di star dentro a ciò che vorremmo durasse. Insomma corrode l’idea che la vita abbia un discreto diritto alla felicità come bagaglio di nascita e ci rimanda alla precarietà, come nei tempi in cui le vite era molto più insicure. Questo devolverci a noi stessi come zattera unica di salvazione, ci consegna interamente alla fallacia, all’insicurezza dubbiosa delle nostre passioni dove ogni orgoglioso,e ottimista, per sempre, viene temperato dai fatti, dalle contraddizioni interiori, dalla testa e dal sentimento d’altri. Mancano le passioni collettive, che sono a loro modo più forti perché s’alimentano non dei dubbi di ciascuno, ma dalla necessità che scaturisce nell’analisi del reale, dalle certezze enunciate, sono pur sempre un divenire. Le passioni collettive non sono date in un adempimento vicino, ma includono la felicità relativa del sapere che si procede, e si conquistano posizioni, nella giusta direzione. Ebbene, queste passioni, oggi sono più flebili, quasi più petizione di principio che una forza condivisa.
Qualche sera fa, in un incontro politico dove, tra diverse parti della sinistra si discuteva sulle ragioni dello stare assieme, è stato consegnato un documento di 7 pagine, scritte fitte, con carattere 6 o 8 e interlinea 1, con moltissime parti in grassetto, sottolineature e un argomentare sull’imprescindibile. Pensavo, leggendo, che tutto questo ordinare per assoluti senza esercito, è debolezza intellettuale e fisica, e che esprime l’incapacità di uscire dalle gabbie e dai luoghi comuni dell’ideologia passata, ma che soprattutto impedisce di trovare ideali condivisi perché esso parte dal delimitare confini anziché evidenziare ciò che dovrebbe tenere assieme. Ho ricordato questo fatto, non perché la politica sia particolarmente importante, ma perché essa è misura della presenza o meno di ideali nella società, oltre le convenienze, l’interesse personale, il giorno per giorno. E del resto, non accade così anche nelle vite dei singoli, negli amori che si trascinano e ancora così si chiamano ma sono incapaci di futuro e di novità? L’immagine che mi veniva da quelle pagine e dalla loro assolutezza, da quel così o niente, era quella delle infinite riunioni, un tempo molto fumose di qualsiasi cosa si potesse fumare, e ricche di opinioni, in cui il numero spesso superava quello dei presenti, ma che alla fine non uscivano dai circoli, dalle conventicole, e non investivano la società proprio perché essa nelle discussioni era sbagliata e spesso astratta, priva di bisogni che potessero diventare cultura, insomma indocile a conformarsi al fine alto. E i bisogni venivano visti come espressione individuale, non gestibili in un bisogno che li contenesse, come se tutti avessimo le stesse paure, lo stesso corpo, la stessa età, gli stessi desideri. Non riuscire a capire che la passione nasce da un obbiettivo alto, ma si alimenta nel suo farsi, nel suo generare sentire condiviso, è il sintomo della difficoltà di questi anni.
Quindi mancano i modelli e i condottieri forti di pensiero, ma noi dove siamo e cosa sentiamo davvero? Perché non c’è attenzione e analisi per ciò che si ripete, per ciò che si accetta senza discutere? Cosa vi dicono queste parole: povertà, occupazione, lavoro, diritti individuali e collettivi, Ucraina, Isis, Libia, immigrazione, sicurezza personale e collettiva, libertà, democrazia, futuro, presente, patrimonio comune, altro da me ?
Finché gioco col mio computer, al più leggo, spesso guardo e non sento che un breve brivido di fronte alla minaccia, distolgo subito e passo ad altro. Lo so che finché non mi faccio domande posso solo soggiacere alla tecnologia, essere il suo punto debole e al più ricondurmi ad una virtualità di persone che sono come me. Nel mio aprirmi ad ogni cosa virtuale, nella mia curiosità vorace, resto in superficie, relativizzo ogni cosa, aspetto passi, anzi la faccio passare subito distogliendo lo sguardo e mentre penso d’essere aperto in realtà mi chiudo alle passioni comuni. La tecnologia così adoperata mi porta alle mie passioni e le rende totalizzanti, così ho un ambito in cui posso essere felice o triste, ma sarò inequivocabilmente solo. Ecco perché queste domande si accantonano, perché sono difficili e ci pare di essere inani di fronte a qualcosa che avviene, e avverrà, nonostante noi. Senza passioni comuni si fa strada l’idea di essere prigionieri di un dio che impone secondo caso e sua necessità, umiliati dall’assenza di un’eresia che cerca la verità e indichi una strada e che se non salva dia almeno dignità al vivere comune.
Non perdo la speranza, passerà l’inverno della solitudine e dello scontento. Lo so che non è nuovo agli uomini e che tornerà un sentire comune e forte, un motivo per cui siamo assieme. Vorrei fosse per scelta e non per necessità.
Ha cominciato a lavare la camicia come facevano le lavandaie di un tempo, solo che non aveva un fiume a disposizione, ma una piccola bacinella di plastica e la rastrelliera delle biciclette davanti alla chiesa dei Cappuccini. E intanto pioveva a raffiche mentre lui lavava immergendo nella bacinella e sbattendo sulla rastrelliera. Era a capo scoperto e cantava in una lingua che sembrava chiusa in gola, fatta di vocali buttate in mezzo a consonanti di saliva. Cantava strascicando le parole, come ad ascoltarne il suono, e lavava sotto la pioggia. Nessuno chiedeva. Il piazzale era vuoto. Tutti giravano al largo sotto i loro ombrelli. Vedevo che molti di questi ombrelli erano variopinti, come a ingraziarsi quel cielo grigio e forte di vento che strattonava le tele e faceva procedere di sghimbescio. I cestini erano pieni di ombrelli rotti, di stecche piegate, di molle ormai senza senso, di manici nuovi su aste spezzate. Poi ha preso da un sacchetto giallo, ch’era dentro a una cassetta da frutta messa a mò di cestino su una bicicletta, una coperta, l’ha stesa sul selciato tirandola bene, in modo che non facesse pieghe. Come un tappeto. La coperta era consunta, di quel colore nocciola che andava di moda un tempo, ed aveva qualche strappo che lui accostava per coprire la pietra sottostante. Poi, sempre sotto la pioggia s’è accoccolato sui talloni continuando a cantare. Allora ho visto due cose distinte e notevoli: il volto, che era abbastanza giovane, con una barba nera più da carenza di cura mattutina che di scelta, e gli occhi che guardavano ostinatamente verso il basso. Il viso forte, poteva essere di chiunque, solo che questo era bagnato fradicio, rigato in continuazione di gocce e chiuso al modo circostante, ma, pareva, non a sé e al suo pensiero. L’altra cosa che ho notato era la direzione della coperta. Era rivolta verso sud sud est, la stessa direzione del vento ch’ era girato. Poi dalla posizione accoccolata ha posato le ginocchia, e allora ho pensato che si sarebbe allungato in avanti con le braccia tese fino a posare la fronte, e invece ha preso il sacchetto giallo e in ginocchio, sempre sotto la pioggia, con cura ha cominciato a piegare le poche cose che aveva. Come a metterle dentro un cassetto che profumasse di lavanda, di legno, di casa. Per ultima ha piegato la camicia lavata e poi col palmo ha preso la pila delle sue povere cose infilandola in quel sacchetto giallo. Solo allora si è alzato e ha ripiegato la coperta, ancora cantando tra sé e sempre con le persone che giravano al largo. Potrei raccontarvi il resto, ma non avrebbe molto significato. Però vi dico un pensiero che, brevissimo, mi ha attraversato allora: quello era un uomo come me, con una sua solitudine grande. Si teneva a galla con qualcosa. Come facciamo tutti. E non lo meritava. Nessuno merita la solitudine. Ho ripensato ad altri luoghi, ad altre solitudini e mi sono sentito più solo.