dicerie del vicolo

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Non so come si sia diffusa la voce, ma di certo è accaduto. Magari si sono detti: ma lo sai che lì nessuno disturba, che si sta bene, c’è pure una copertura per il troppo caldo. E magari c’è scappato pure un sorrisino. (Chissà come ridono i colombi…) Poi qualcuno ha proseguito in dialetto: squasi squasi me fasso là ‘a covàda parché lu, el paron, non ghe xe mai e se sta proprio ben. E hanno capito anche quelli che parlano solo italiano che lì era un buon posto per covare, e sorridenti hanno rispettato la priorità, perché tra uccelli così si fa.

È così ci sono, per il secondo anno, prima due uova e ora due colombini. Rispetto allo scorso anno, il nido l’han fatto dentro una vasca che tiene qualche tulipano, due arbusti di lantana, e delle fresie. Solo la lantana è in fiore e copre i colombini. Ogni tanto devo innaffiare e c’è un movimento buffo che cerca di schivare gli spruzzi poi un accomodarsi in una piccola pozzanghera calda di terra e acqua, appena un inizio di tubare e poi un perdersi nel pensiero della crescita.

Guardando la colomba, ho pensato che forse è la stessa che lo scorso anno è nata qui, che abbia conservato nei suoi pensieri un’idea di casa. Cioè è casa sua questo balcone, anche se l’ho irto di punte, anche se il tubare mi sveglia il mattino, ma lei pensa, giustamente, che il luogo in cui si nasce un po’ ci appartiene. Gli uccelli hanno spiriti diversi, ci sono gli avventurosi e gli stanziali, tutti tornano a qualche casa; a me piacciono di più quelli che osano, ma rispetto quelli che oziano nel vicolo. Quelli che parlottano tra le terrazze e i tetti, quelli che camminano più che volare. E imparano a sporgere il petto, a fare passetti brevi intervallati dal volare per balzi. Una sorta di ostinazione, di caparbietà nel dire: abito qui, come te, è anche casa mia. 

Tra non molto i colombini se ne andranno. Con le piogge d’autunno si scioglierà il guano e l’odore, forse la lantana ne approfitterà, magari anche le fresie. E quella presenza ostinata diventerà colore, profumo, equilibrio. Un diverso modo di volare. Quello concesso a noi umani che abbiamo la capacità di vedere che scorrere è indifferente che avvenga in aria o in acqua o terra. Volare è scorrere la terra con gli occhi. Volare è scorrere il cielo con lo sguardo. Vedere.

come sarà l’autunno?

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Si sente,

il respiro lungo del sonno e l’irrompere sommesso dei sogni nel reale,

nei giorni in cui il sole scava nelle cose

piccoli grani per danzare nei suoi raggi,

è allora che la stanchezza di ciò che non accade avvolge il tempo,

e il suo scorrere sembra chiedere significato.

Come sarà l’autunno,

che scandisce di impegni le giornate,

e i suoi progetti riprende con fatica?

Ancora starà zitto il cuore

mentre si commuove in una foto,

e piano decifrando l’aritmetica d’assenza

chiede conto dell’andare, dove?

Tutto cheta nel dirsi:

c’è la noia di chi ha visto e non s’ è seguito,

ma non basta,

perché ci saranno i pomeriggi disarmati,

il senso che non acquista la profondità del rosso.

Così si ascolta, si sente,

e il pensiero va all’instancabile

rimescolar di conchiglie e sassi,

mentre si vuotano scogli e sabbia,

e i perditempo stan seduti a sentire

il pensiero del tramonto,

perché ancora una volta è sera

e poi notte

e poi sogno,

ancora.

sulle interpretazioni della luce tra i rami

Pensavo a te, oggi, e tra gli alberi filtrava luce,

nel bosco s’agitavano felci, fiori sparsi in cerca di chiaro,

c’era un silenzio di parole e fitto di suoni,

e mi veniva la presenza tua, che mai è caso,

ma spesso è un piccolo solco nell’anima, verticale come un grido.

Camminavo su aghi di pino sciogliendo le mute richieste,

seguendo la vita che continua a vivere ,

come se il tempo fosse cosa che non la riguarda: il tuo, il mio, indifferente,

e così quello inutile di ciò che non è stato, non poteva essere, che non ha voluto.

Eppure il pensiero non si recinta,

vuole attenzioni che non riserveremmo a noi stessi,

in fondo ad ogni desiderio, o sentimento, non c’è giustificazione,

solo la soddisfazione che riapre la porta al desiderare.

e questo, a volte è poco, troppo poco.

Cosi tengo la luce, la presenza, il segno,

che poi è grido che lascia un piccolo solco,

mentre la punta del piede disseppellisce piano, richieste,

e allora parlo a me, al possibile, alla luce che filtra tra i rami,

ricordo che komorebi è il suo nome giapponese e dirlo piano, sembra una morbida lode al giorno

che accarezza e testardo vuol venire.

 

 

il senso di Marja per il colore

Il rigoverno della casa, per tacito accordo avviene in mia assenza; si sa gli uomini intralciano, intrigano come si dice da queste parti, e l’intrigo è l’inciampo, l’inutile che si mette in mezzo, il superfluo da togliere di torno. Quindi io non ci sono e al ritorno troverò la casa linda e pulita, le lenzuola cambiate, le stoviglie pulite nuovamente lavate. Non si sa mai, dev’essere il pensiero, perché ogni donna nutre dubbi sulla effettiva capacità di pulirsi e pulire dell’uomo. E credo sia un atavico senso dello sporco connesso al genere maschile che sin da quando rientrava nella caverna appena spazzata con un animale sanguinante senza curarsi della scia sul pavimento, ha continuato nei millenni a portare con sé prede da mostrare e untume, così che anche quando pulisce, l’uomo, mica pulisce bene, ma è con la testa altrove, pensando a chissà quale impresa comunque unta. Nol gà man, non ha mano, non sa gestire il pulito, è il pensiero tenero e liquidatorio che affida al genere opposto il monopolio della pulizia domestica. Marja con il senso europeo-orientale  delle donne che conoscono gli uomini che tornano alticci e si buttano vestiti sul letto, non fa differenze e ripulisce ciò che con fatica pulisco. Anche per questo l’intrigo cioè io, è meglio stia distante. Se fossi lì in mezzo, interverrei, direi, mi lamenterei, eppoi perderei la possibilità di giocare a trova quello che era qui e adesso invece chissà dove l’ha messo, gioco che mi fa smoccolare sorridendo e recuperare il senso di superiorità sul governo del disordine che mi appartiene: nessuno sa trovare le cose in mezzo al casino come me. Fin qui la meccanica degli spostamenti e delle azioni che la partita a scacchi perenne mette in campo, ma ciò che ogni volta degusto è la sorpresa che tengo per ultima cioè la combinazione di colori delle lenzuola e dei cuscini del letto. L’antefatto è che mi piacciono sia le lenzuola bianche che colorate, e non le voglio in tinta unita, cioè il sotto dovrebbe essere diverso dal sopra e dalla federa. Qui subentra la teoria dei tre colori, che si complica se esiste il copripiumone, perché l’accostamento dovrebbe avere la mia armonia mentre invece subentra il senso del colore di chi mette assieme le lenzuola. Spesso va bene, ma solo perché i colori hanno quelle tonalità asburgico slavo russofone che di solito si mettevano sulle bandiere, quindi senza saperlo emergono le reminiscenze di un’europa che non era tale ma si riconosceva dai vessilli. Ed essendo la scelta possibile perché non mettere un arancio con un rosso e un blu ovvero il calore del sud con il progressivo mitigarsi verso il gelo dell’est. Oppure invertire i colori e puntare sulla cacofonia del verde con l’ azzurro. Ecco questo senso del colore che trovavo nei miei viaggi ad est, nei maglioni di lane melange fatti in casa, nelle sequenze di gialli, ocra verso verdi pisello degli stucchi dei palazzi, poi i colori squillanti delle cupole, gli ori, i contrasti che inaspettatamente confluiscono nel cupo delle icone, fino ad essere poi interpretati in campagna in colori che andavano dal fango verso il rosso pompeiano, lo intravvedo nella scelta che viene fatta per il mio dormire. E penso a come i sogni saranno, avvolti in quelle sequenze, penso che la sorpresa merita un approfondimento, ma soprattutto che da Goethe la teoria dei colori ha avuto una notevole influenza nel pensiero alto e che Michel Pastoureau, che ne è sommo interprete e punto di arrivo, avrebbe molto da insegnare ai nostri esperti di politica estera. Guardate i colori delle case e intuite l’umore e la sensibilità dei popoli. Guardo la parure del letto e mi rallegra sapere che la pensiamo in maniera diversa, Marja ed io, che abbiamo parole differenti e sensibilità che si incuriosiscono nella differenza. Marja, non assomiglia a Smilla che possedeva oltre trenta sfumature per la neve, e però la sua visione del mondo allarga il mio. Certo che se fosse giapponese e zen, rischierei qualche sogno meno complicato, ma vuoi mettere la sorpresa anziché il colore su colore: anche se incubo fosse sarebbe un incubo allegro. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=EZ-VsKB_tNw

le dimissioni

Le dimissioni non nascono mai di colpo. Ovvero sì, ma quelle sono per insufficienza di ragionamento. Partono come un ceffone e spesso ricevono un pugno. Mi è capitato più d’una volta nella vita di reagire a ciò che ritenevo così ingiusto da non appartenermi e quindi di dare subito le dimissioni. Mi hanno fermato facendomi riflettere sull’ingiustizia: andandomene l’avrei avvalorata. Così non me ne sono mai andato per emotività, ma per scelta. E non importava ciò che perdevo, era una scelta che mi permettevo perché ero importante a me stesso. Ho sbagliato spesso i conti, della carriera soprattutto. Un vecchio democristiano mi diceva: mai dare le dimissioni, il tempo in politica è infinito. E anche nelle aziende è infinito.  Non è vero ma me l’hanno ripetuto qualche sera fa. Un altro democristiano. Ho pensato: cosa saremmo stati noi comunisti senza i democristiani. Avevamo bisogno di un confronto continuo con ciò che non volevamo essere e anche loro avevano bisogno di noi perché eravamo una alternativa a ciò che erano. E sono ancora, mi veniva da pensare, perché i democristiani non finiscono mai. Sono il paese che respira piano e sembra dorma, ma ha un occhio aperto. Vede. Un po’ di sbieco ma vede.

Le mie dimissioni sono nate per senso del limite. L’ho capito mesi fa. Anzi non molto dopo aver assunto l’incarico. Ero straniero e inadeguato ai circoli locali, alle alleanze, alle strizzatine d’occhio, alle feste riservate, alle decisioni prese per altri fini. Inadeguato. Quando questa parola esce nella mente può provocare un attacco all’autostima: ma come inadeguato, hai affrontato di peggio, hai risolto problemi più grossi. Sì certo, hai sbagliato parecchio, ti dà ancora fastidio pensare alle ingenuità di allora, ma poi ne sei uscito. E cosa sarà mai, impegnati e ci riesci. E invece no, inadeguato non mi dava fastidio. Era un punto d’onore. Me lo ripetevo: inadeguato.  E quello mi dava l’idea che dimettermi era la cosa giusta. Certo c’era anche un po’ di spocchia perché significava che non mi mescolavo, che non volevo apprendere il flow chart dei giochetti, delle comunelle, del chi è importante e perché. E quindi inadeguato era la mia motivazione che mi ripetevo come un mantra. Un mantra con delle conseguenze e quindi la decisione di andarmene.

Andar via per scelta. Me lo ripetevo nei lunghi tragitti in auto. Me lo ripetevo nella nebbia, quando volevo solo arrivare a casa. Epperò una ragione per dare una possibilità alle cose, la trovavo sempre: una sfida, un progetto nuovo, un guardare oltre, insomma qualcosa che giustificasse la fatica. Essendo libero di decidere poteva frenarmi solo l’idea del cambiamento e la responsabilità. E il senso di onnipotenza. Abbiamo spesso a che fare con l’onnipotenza. Chi riceve un incarico deve esercitare un’autorità. Poi lo stile è tutto. Ci sono gli stronzi e i deboli, ma sempre di autorità si tratta. E di problemi. Chi è furbo li delega a qualcun altro. Come diceva quella legge di Murphy: un buon capo espiatorio vale quasi quanto una soluzione… Oppure vale il pesce in barile, scaricare i problemi per assenza e per consenso: basta dire di sì a tutti. Il muro dei sì, è insuperabile perché evita il confronto e non fa fare un passo avanti. Ma si può fare altro: si può tentare di risolvere i problemi prendendosene la responsabilità, se c’è lo spazio per farlo. Sennò si è inadeguati.

Inadeguato e conseguente. Le dimissioni sono il riconoscimento che ciascuno può procedere per suo conto e che la cosa non ci dà fastidio. Oppure un piccolo fastidio ce lo dà, ma è inferiore al fastidio che provoca il continuare. Nel decalogo che ognuno si costruisce vivendo, ci dovrebbe essere il posto per andarsene senza essere messi alla porta, perchè un conto è sentirsi inadeguati e un conto è che te lo dica qualcuno. Una grande libertà poter andare via. Con stile, salutando tutti senza ipocrisia. Poter dire: ho ricevuto, ho dato, mi è anche piaciuto, ma non sempre. Di sicuro c’è di meglio di quello che potevo fare io, anche se non è stato poco. Troverete, anzi vi troveranno chi è più adeguato. Ecco questo adeguato è diverso da me e quindi non posso aver nulla che gli rimprovero. Non mi sostituisce, lui è un altro e io sono quello che sono. Interessante questa cosa delle dimissioni, è un lasciare senza rimorsi e senza troppi rimpianti.

Il personale mi ha detto parole buone, mi sono commosso, ma ai vecchi uomini capita di commuoversi, e quando gli accade si rendono conto dell’età. Credo che dovrebbero fare un corso a scuola sulle dimissioni: come andarsene, commuoversi e stare bene con se stessi anche da giovani. Sarebbe un corso sulla relatività del potere, sull’io e sul noi. Sul potere insomma. Credo proprio dovrebbero farlo.

di te conservo

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Di te conservo un prato enorme che finiva nella pietra,. rasati entrambi per cura di frequentazione e decoro d’amministratori. Perché questa è la cura che metteranno nel cuore dei problemi immani e futuri.

Di te conservo la luce radente che il tramonto regala agli occhi e toglie al cuore. Una luce che puzza di addio, di distacco, di greto di fiume in città, di acqua già morta nel guizzare d’inutili pesci, di cose abbandonate anzitempo da un sé voglioso di nuovo. Eppure è una luce che allunga le dita, indora le cose, le maneggia e le arrossa. Una luce che ha il sospiro freddo del monte e il caldo della terra. Una luce che conserva negli occhi, che riordina gli steli del prato, che affretta le persone a raccogliersi. Una luce ambivalente che contiene immatura la sua fine eppure riluce, riflette.

Di te conservo quella luce che è l’ora in cui si immagina, quando il possibile s’affaccia, il sorriso è ancora dentro, quando la sera non preannuncia la notte, e le cose diventano inutili a mascherare i sentimenti.

Di te conservo il dettaglio della voce allora, già fresca di scuro, , la e che si allarga e la i che s’appuntisce,, il sorriso nervoso di tempo, che sfugge, sfugge,. e consapevole s’incrina.

Di te conservo la folla attorno già pronta ad andare eppure seduta, allungata, discorrente e intenta, inefficiente nelle felicità, distratta fintamente al suo afflosciarsi, esattamente come chi serviva ad esempio,. E il tempo s’affloscia nella luce, lo sapevi? S’affloscia e s’oscura di desideri mancati, di possibili spenti, di baci, di sudori, di corpi scongiunti, di esiti scongiurati, di doveri assolti.

Ci insegnano il congiuntivo e non il disgiuntivo, forse per pudore, nella memoria d’un personale dolore che non è lecito insegnare e allora si lascia fare alla vita. Ed è una vigliaccheria che s’aggiunge, un coraggio tolto agli eventi, un finto malcelato dovere che puzza di tutte le sacristie del mondo credente e ateo, una ignavia che si ripete.

E così ti conservo al margine d’ogni verde, d’ogni riflesso, d’ogni pietra che riluce. E non importa che non sia tu che vieni alla mente perché comunque coincidi. Come coincide il mare con il suo moto e l’immobilità del suo abisso,. come coincide ogni meriggio nella luce che allunga con l’ombra priva di luce,. come diviene ogni angolo in cui la polvere trova rifugio senza diventarne morbida parte.. E io penso che tu sia questo sentire che è forte e non ha più sembianza, ma è te ogni volta che cala il giorno. Ed è assenza che si fa presenza, vuoto che si riempie, coppa che spande, sguardo che si perde e ritorna, fatica e rifugio. Sì rifugio d’un passato distillato in senso,. solo senso come ambra che contiene qualcosa che visse e di essa riluce e vuole contatto di pelle e se s’avvicina al fuoco, brucia. E per questo si cura, perché nel bruciare non ciò che visse ma noi saremmo consumati. Definitivamente.

http://https://www.youtube.com/watch?v=qqAH2J0EXPk

p.s. la punteggiatura incespica volutamente e cammina, essa sì per suo conto.

transizione

Ci fosse stata una solida ragione,

un puntello logico,

un sostegno alla certezza di non essere nell’ eterno transitare.

Non c’era, e per questo, abbiamo accumulato oggettività fugaci,

costellato di specchi le pareti,

e ci siamo additati, con pacche sulle spalle, allegri,

riconoscendo le solidità apparenti,

sicuri d’esser vivi nel tempo che per noi faceva.

E come in un lampo, che pur pesa agli occhi, 

ci siamo trovati carichi di passato non cucito,

vestiti dei brandelli che avevano molto promesso.

E oggi, che le cose con noi sono invecchiate,

senza fedi dovremmo santificare il grigio,

riconoscerne la capacità di contenerci,

e con le dita addolcire gli spigoli per osservar la polvere,

che posa sui nostri piedi,

e su quel solido che tanto abbiamo amato. 

Conoscitori di lampi, 

adoratori d’intelletto, 

abbiamo evitato il colore della modestia,

che è difficile nel suo certificare il tempo,

le siamo sfuggiti, certi di solidità apparenti, 

finché, stanchi, abbiamo reso malfermo e incerto il passo.

Sappiamo ora, che non è la velocità a salvarci, 

ma la vista lenta che le cose scava, 

e ne estrae il colore solido e grumoso

per restituirle a noi, beffarda,

il tanto di chi sa che transitare è condizione d’essere.

http://https://www.youtube.com/watch?v=NPDCsi1mbhE

il tempo dell’elicriso

Fuori piove. L’elicriso ha rallentato la fioritura, così la lavanda e il rosmarino. Nella mia immaginazione, essi s’interrogano perplessi degli improvvisi sbalzi di temperatura. Ieri era un caldo quasi estivo e oggi fa freddo. E sarebbe tempo di coccole e calduccio di pelle con un tempo infinito e vuoto davanti. Un tempo in 3D. Da riempire oppure sospendere, da bere e assaporare, tempo proprio e non d’altri. È un’invenzione recente il tempo. Quello esatto e invadente, intendo. Prima trionfava un tempo pressapoco. Come quello dell’elicriso: è ora di fiorire, di mandare profumo di sera, di godersi il sole, di passare verso la maturità del verde, toh, guarda, fa freddino, è ora di scivolare nel letargo vigile dell’inverno. Tempo regolato sull’altezza del sole e sul succedersi delle lune. È bello il tempo regolato dalle lune, stabilisce quando è ora di crescere e di declinare, incessantemente. Dà una sicurezza che il tempo esatto non fornisce, ovvero quella che qualcosa comunque accade. In questo sta il tempo lento del riempire, il tempo 3D, che non è retta, freccia, ma è vischioso o fluido, e ha quella piccola baulatura della tensione superficiale che fa credere che qualcosa spinga da sotto. Come ci fosse un sentimento che vuol emergere, che rende vivo il tempo. Ecco il tempo dell’elicriso è un tempo del sentimento. Dell’amore sospeso e di quello impellente. Dell’amore ciclico che rinnova se stesso e di quello fedele a ciò che muta. Un tempo che accade, esattamente come l’amore, cioè pressapoco.

il sud, la magia e me

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… il violinista fa il barbiere il resto dell’anno. Cito a memoria, era il violinista che suonava la taranta in Sud e magia, e penso che pochi libri sono stati così importanti per farmi capire che c’era un’ Italia silente, presupposta e sconosciuta. E arcaica in modo alto e sapiente perché conteneva il mito, la tenebra vischiosa che albergava in noi ancora visibile, il prima che era oscuramente adesso.

Cos’è primitivo? Quello che precede, e non è un giudizio di valore. Con la tipica esterofilia e con i pregiudizi politici che ancora esistono tra le pieghe della nostra accademia, negli anni in cui De Martino scriveva i suoi libri di antropologia dedicati alla “sua” quistione meridionale, alla piccola taranta, alla magia, si celebravano nelle nostre università e sui giornali, Levì- Strauss e Margaret Mead. E lui, era altrettanto grande. Anche di più, ma negletto perché demoliva i luoghi comuni del sottosviluppo, il facile giudizio dell’intellettuale che bollava come inferiori le culture povere, e cercava tra noi le ragioni dell’irrazionale e del reale dell’uomo. Quello che viene prima, qui, conteneva, come oggi contiene, il mitico-religioso, quel bagaglio/fardello culturale che serpeggia nelle nostre giornate, che è superstizione, e rifiuto del male prodotto dall’ambiente. Certo, scegliere gli umili, gli sconfitti, è una parte della realtà, oggi più di allora si celebra il falso egualitarismo delle possibilità: tutti possiamo ascendere la scala sociale, tutti possiamo essere felici. E questo distoglie dal contesto, ovvero dal perché siamo in basso e perché siamo infelici. De Martino dava una risposta indiretta, e rendeva evidente la contraddizione. Introduceva concetti come appaesamento, domesticità delle soluzioni, l’essere nel mondo comunque. Evidenziava il ruolo della magia e riportava la follia nel disagio infinito dell’estraneità. E per farlo, andava sul campo, ascoltava, metteva insieme alle situazioni. Non rifiutava il magico, non lo espelleva dal reale. Se intervistava la figlia della maestra, come la madre, anch’essa maga, le faceva dire degli incantesimi, ed allora emergevano gli amori asimmetrici e disperati, le gelosie, le paure per la salute, la malattia senza risposta.

“Il mondo popolare subalterno costituisce, per la società borghese, un mondo di cose più che di persone”. Ed io nelle cose che leggevo di De Martino, riconoscevo racconti che avevo ascoltato da bambino, la presenza della magia nelle case, nei letti, le malattie strane come le guarigioni, gli incantesimi e gli scongiuri, segno che tutte le culture arcaiche s’assomigliano e sono fatte di uomini che cosificano il disagio, non diventano loro stessi cosa. Mi colpiva la nettezza con cui emergeva una questione sessuale, un’ interpretazione del desiderio in chiave mitico religiosa, l’estensione del concetto di possessione come de responsabilizzazione di fronte al disagio. E le risposte erano ancora presenti nella presunta razionalità dei riti, nelle benedizioni, nei giudizi che partivano da presunzione di realtà. Ma ancor di più mi colpiva la considerazione sul camminare: noi eravamo la somma di atti ripetuti che avevano cambiato la condizione dell’ominide, tanto da renderla naturale ed automatica, ma quell’ancestrale scatto verso l’alto, un affrancamento dal suolo, era una condizione che conservava il pregresso. Il prima, il primitivo. E così era con la magia. Sembra strano oggi parlare di magia, ma oltre al razionale apparente, se si scompongono gesti e pensieri, emergono le stesse paure, le risposte apotropaiche attualizzate ai nuovi/antichi disagi. De Martino per me arrivò troppo tardi, anche se ero molto giovane non ebbi il coraggio e la forza di lasciarmi attrarre da una strada possibile di impegno di vita. Più facile fare altro, ma oggi se qualcuno portato ad essere sensibile a ciò che avviene attorno e agli uomini, mi chiedesse cosa studiare, gli direi: studia filosofia, sociologia, economia politica, biologia e antropologia. Non so se troverai mai un lavoro, ma di sicuro troverai tante domande da non annoiarti mai.

 Riporto tre, tra le tante citazioni che allora, come ora, mi colpirono.

l’Antropologia è “un modo di pensare noi  stessi come altri”.

“Felice oblio quello per il quale io non debbo totalmente impegnarmi ogni momento a mantenermi nella stazione eretta, ma avendola appresa da infante con l’aiuto degli adulti, e avendola appresa la specie umana già con gli ominidi,  io posso “perdermi” in quel mondano che è l’abitudinario camminare sulle gambe, restando “disponibile” per fare una passeggiata conversando con un amico. Felice oblio quello di una “domesticità” nella quale mi muovo, e delle cose con i loro “nomi”, sonnecchianti nella semicoscienza o sprofondati nell’inconscio, onde ogni cosa “dorme” con la sua etichetta di potenziale operabilità, e solo così può dormire, altrimenti si sveglierebbe come problema ed io perderei me stesso e il mondo, non potendo più scegliere e valorizzare ‘qui ed ora’ solo questo o solo quello. Quando si parla di carattere inaugurale dell’economico in quanto progetto comunitario dell’utilizzabile, si deve porre mente ‑ fra l’altro ‑ alla forza liberatrice condizionante del ‘dimenticarsi’ nel mondo. Nel che risplende di nuova verità quella necessità di perdersi per salvarsi che sino ad ora ha avuto un significato religioso proprio perché non è tentato a riconoscere all’ economico il carattere di valorizzazione inaugurale del mondo…”

“Come si delimita l’orizzonte ‘mondo? Come una immensa possibilità  da cui viene emergendo, nella continuità di un concreto esserci, una graduale limitata attualità culminante nella presentificazione dominante del momento. Il mondo: cioè gli spazi cosmici, il nostro pianeta, gli astri del cielo notturno e la luce solare di quello diurno, le piante, gli animali, gli uomini e tutto questo nel tempo, che abbraccia la storia del mio esserci, e quella di tutti gli altri esseri umani, e che retrocede verso un infinito passato e avanza verso un infinito futuro. Questo è il mondo che dorme in me, cui sono legato mediante il mio corpo e il mio inconscio: un dormire tuttavia che è un potenziale svegliarsi. Ogni mondo, quindi, e anche il mondo magico, è un mondo che legittima la sua esistenza sul piano della creazione culturale collettiva, mentre il mondo del folle è un “mondo” che non riesce a formarsi proprio perché pretende di nascere sganciato da quelle ovvietà preliminari che non devono costituire più un problema: il mondo del folle pretende di formarsi sganciato da un mondo dove si risvegliano continuamente i significati dormienti, in un balbettare oscuro intorno a eccessivi problemi che lasciano la realtà sempre indecisa e pericolosamente vischiosa.”

e per continuare a ragionare, tra il tanto a disposizione:

Il mondo magico di Ernesto De Martino

http://www.siderlandia.it/2.0/da-ernesto-de-martino-a-pier-paolo-pasolini-una-difficile-eredita-2/

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=0WMVE5mnIvQ

http://https://www.youtube.com/watch?v=YQkXUausnv8

elogio del poco o tanto che viene

Mica tutto si può dire. Si può raccontare l'apparenza, celare tra le righe espliciti enigmi, si può mostrare il mostrabile.

Il mostrarsi non è forse conseguenza del non bastarsi, della solitudine che non si colma?
Fortunati quelli che hanno avuto un grande amore di cui lamentare l'assenza, più disgraziati gli altri che si arrabattano nel costruire un presente che almeno odori di futuro.
È per questo che raccontare il passato ha il profumo dolce dell'elegia, nel mentre dire davvero come si sta, cosa si vorrebbe, raccontare la propria debolezza, non può essere cosi esplicito. Non viviamo nel dolore e neppure nella gioia, ma in un infinito relativo crepuscolo da cui trarre luce. In questo relativo, decifrare, se c'è interesse, passione, è la condizione di un futuro. Non ci si appassiona al passato, e in questa verità c'è il senso di ciò che si desidera, si mostra, si dice.