il profumo delle pesche

Erano mattine calde e luminose, mai troppo presto, dopo colazione, mia madre mi metteva sul sellino della Legnano gialla, e con calma attraversavamo la città. Sentivo l’aria fresca che veniva dall’ombra dei portici e il sole già caldo, mi pareva che nei contrasti ci fosse la felicità, ma questo lo so ora mentre allora mi piaceva e basta. Lei aveva una borsa di pelle blu, a sacco, che conteneva infiniti tesori, un sorriso di ragazza e vestiti leggeri, a fiori come si usava allora.  

Si cominciava a fine giugno e poi si proseguiva a luglio, nell’andare in un luogo che aveva il nome latino, ma era fatto di barche agili, di sabbia riportata, di alberi grandissimi e pieni di foglie bianche e verdi. Ed era pieno di grida, di tuffi nell’acqua, di corse, di salvagenti fatti di camere d’aria. Mia madre prendeva il sole, leggeva una rivista, io giocavo coscienzioso con paletta, sabbia, acqua e secchiello. Costruivo cose che avevano un nome, ma non era quello, erano luoghi della fantasia dove il gocciolare della sabbia bagnata sommava forme e statue incredibili, e cuspidi, e creste di mura incantate. Era un lavorare alacre, fatto di secchielli riempiti, di tragitti, di soddisfazioni che esigevano nuove conquiste. Fino alle 11, quando dovevo lavare le mani e da quel sacco blu uscivano le pesche bianche (monse’esane, di Monselice, così si chiedevano al fruttaro’o), fresche di ghiaccio mattutino e con quella leggera peluria che a me sembrava freddo sulla pelle. Le sbucciavo con le piccole dita di allora e poi c’era il primo morso accompagnato dal pane croccante e caldo. Si univano il profumo delle pesche con quello del pane e non sapevo da dove nascesse tutto quel piacere. Non era fame, no, era solo piacere. Mia madre mi guardava e assaporava con me, parlando quella lingua profumata e dolce, che non ho più abbandonato.

Credo siamo fatti di piccoli fatti, di ricordi, di sensazioni che si allacciano e sovrappongono le une nelle altre. Come si scavasse il profumo e poi la dolcezza e il sapore fino a quel duro nocciolo che non si può mangiare, ma che solo può dare vita a un albero, e a innumerevoli frutti destinati a provocare altre infinite sensazioni. È essere parte di un flusso che gioiosamente non finisce, e quando lo capisco sento un profondo senso di ringraziamento. 

tang o qing?


Il rumore m’è sembrato un tang. Un suono sordo, prolungato dalla vista del risultato. La mente ci impiega del tempo ad elaborare, e se uno è tardo o divagante, di più. Essendo entrambe le cose mi sono perso a considerare cose lette sul rimettere assieme, sull’aggiustare. I rapporti umani si aggiustano: come le tazze. I bicchieri invece si buttano. Che rapporti abbiamo?

La tazza con monogramma cinese ha urtato il bordo del lavello e oltre a scheggiarsi ha emesso quel suono d’incipit: tang. Forse era un’affermazione d’identità, essa si riconosceva nell’epoca T’ang, e  magari ragione pure l’aveva, non di nascita ma d’affinità. Non era forse resistita alla distruzione perpetrata da truppe piccole e poco disciplinate (si sarebbero detti mongoli nelle cronache del tempo) che in casa avevano reso disperatamente dispari il servizio di tazze in bone china, così leggero e trasparente da essere un piccolo vanto d’acquisto? E non aveva pure mantenuto con compostezza la laccatura nonostante piccoli crepi d’incuria l’avessero ripetutamente insultata. Era una signora prima che una tazza, orgogliosa del suo monogramma, e l’ha inopinatamente preservato nella sua fulgida interezza anche nella catastrofe, anche questo segno della sua cura nel proteggere la cifra segreta che portava dentro di sé e al mondo. Era forte d’educazione sin dalla nascita, un po’ pingue nella porcellana grassa, però docile alle mani che l’avevano forgiata in un tronco cono di evidente ascendenza sensuale e sessuale. Era votata al diletto e con attenzione aveva svolto il suo servizio in silenziosa solerzia, contenendo onde di caffelatte, nascondendo al mondo la mia predilezione caffeinica per il caffè forte, e pur lasciandone uscire il profumo con distaccata signorilità non aveva detto nulla sulle sue preferenze, tenendo per sé i giudizi. Enigmatica ed aristocratica lasciava intuire senza dire.

Comunque il danno è fatto, checché ne dicano i giapponesi che rifiutando il tao e la finitezza delle cose, praticano lo zen e saldano i vasi con una lega d’oro, rendendoli, a loro dire, più preziosi, e così li trasmettono per innumeri anni per altri usi ed altre rotture. Se funzionassero così anche nell’arte del sentimento, i giapponesi, potrebbero insegnare all’universo mondo come riaggiustare, con oro, le rotture che incrinano uso e futuro dei rapporti tra umani, ma non è così e, seppure (nella versione occidentale, giudaico cristiana si direbbe) si aggiustano con monili, fiori, cene e vacanze riparatrici, quei rapporti hanno una loro intrinseca fragilità che si sopisce nella struttura ma non scompare e ne mina l’uso. Insomma da queste parti la ceramica ricorda, e questo non porta bene.

Tornando alla tazza, noto la perfezione del danno, oltre l’irreparabile scheggiatura. Una voluta netta, una curva da geometria analitica, complessa e cangiante, su tre dimensioni, arricchita da interiori curvature molto nette e bianche. Segno forse di un disagio per tanto contenere silente? Che si fosse annoiata per il caffelatte, lei abituata a cerimonie molto più intense e meditative. Che il caffè l’avesse disgustata? Accade anche a me quando sto male, forse lei aveva un rifiuto per quella caffeina così volgare ed esibita, una caffeina dai facili costumi che si presta a innumeri variazioni. Un kamasutra della caffeina che ogni barista conosce quando vengono ordinati tre caffè e insieme vengono specificate quattro varianti dell’oggetto da servire. Mentre per il thè, lei potrebbe dire, esiste una purezza intrinseca che lascia al delibante il compito di mutarne o meno, la fragranza, ma essa nasce per infuso, ed è in sé assoluta. Se fosse questa la ragione della perfezione delle volute di rottura ne avrei ulteriore considerazione. Come il nobile che nella sconfitta comunque sceglie una distruzione alta e rappresentativa di sé e di essa resta traccia come di un animo nobile finalmente mostrato nella sua intrinseca altezza anche nella prova e nella rovina. 

Guardo le scheggiature di smalto, ne vedo tracce vicino all’orrido scarico, ne facilito la perdizione. Pur tenendo tra le mani i pezzi seguo il tao della trasformazione, non li attaccherò con vile attack, sarebbe volgare violenza nei confronti della tazza, oltraggiata e  mutila nell’animo, consegnata con me al gusto acre dell’acrilonitrile Mai più la stessa, diverrebbe soprammobile inutile, lei così piena, la mattina, di vita liquida. 

Mia cara, ti consegno alla raccolta differenziata, siamo un popolo di rozzi anche nei rifiuti, pensa che non esiste una raccolta della porcellana, e neppure della terraglia forte, saresti davvero riciclabile ma su di te procedono per esclusione: non bisogna mischiarti col vetro, con la plastica, con i metalli. Finirai nel secco, e questo è un riconoscere la tua aristocratica natura, non ti mescoli con la plebaglia pronta ad essere riciclata con chissà chi e per chissà ché, ma resterai nella terra ad attendere immutabile il passare delle stagioni. Perché la classe non è compost. 

p.s. adesso che ci ripenso, non era un tang ma forse un ting, o un qing,  il suono, più breve e seccato dell’accaduto. Altra epoca, affettata e contaminata di dispetto e insofferenza per la malagrazia. Forse la tazza era ispirata da quest’epoca e tutto quello smalto nero deporrebbe a favore per un interiore lutto dei tempi: o tempora, o mores. Ecco perché il distacco non solo è più netto, ma disgustato da tanta imperizia. Come dire: non mi meriti, mi tolgo di torno, friggiti nel tuo unto con quelle sciacquette che ti faranno compagnia al mattino.

narcisi senza specchio

Il tipo umano è quello che ha bisogno  del confermare l’immagine e rassicurarsi attraverso il comportamento, e ha bisogno di farlo sapere. A sua giustificazione e necessità si potrebbe invocare l’epoca insicura, ma quando mai il mondo lo è stato? Oppure la pressione odierna verso l’individualità come misura del successo e dell’identità. Quest’ultima centralità diffusa dell’individuo potrebbe anche essere segno di un benessere inusuale nel passato, oltreché il modo per dividere il noi, di certo ingombrate per l’autorità. Potendo scegliere però meglio il benessere che il suo contrario. Comunque sia il narcisismo è ben presente nelle attese individuali, è trasversale al genere e riflette il bisogno di conferma della propria attrattività. Quando scivola in una perenne giovinezza, fa sorridere e non è difficile riconoscere anche i tratti propri in questo contemplarsi anziché vedersi. Così c’è una rivalutazione dei peccati di gioventù, che divengono senza tempo e percorsi con leggerezza. C’è però il limite precario del ricolo, e l’assenza di uno specchio perché se il narciso si guardasse davvero si vedrebbe e allora tutte le sue alzate d’orgoglio, il suo rappresentarsi, il racconto di sé apologetico diverrebbe quello che è ovvero una stanca necessità di essere più veloci del tempo, sapendo che ciò che non si è stati non può essere ora. Non è il narcisismo a far aggio al presente se esiste spirito critico, ironia, capacità di vedersi e accogliersi per quello che si è ora, sapendo che non si è da buttare anzitempo. È il giovanilismo ad essere pernicioso per il narciso senza specchio, una autostima invece serve assai e rende diversi e consapevoli, almeno davanti allo specchio sia esso reale o interiore.

a proposito dei diari

Qualche giorno fa ho preso in mano il primo volume dei diari di Gide. Un libro di oltre 1500 pagine fatto di annotazioni, impressioni, incontri, giudizi, dialoghi, fatti notevoli e meno. Un insieme di istantanee che Gide riassume per se stesso. Con la diaristica è più facile trovare l’autore piuttosto che cercarlo tra le pagine della sua narrativa, indagarlo nelle speranze e le paure nei suoi personaggi, ricostruirlo per induzione. I diari hanno quel sapore vagamente elegiaco, con le loro verità d’impressione sempre approssimative e il farlocco dell’esibizione, che rendono chi li scrive umano. Sono dialogici anche se fanno finta di rivolgersi unicamente a sé, si mostrano e quindi per chi legge, non è un guardare dalla serratura, è la quotidiana rappresentazione senza contraddittorio. Nei diari si eliminano molte abitudini, si evidenziano le occasioni e, anche se non vogliono, lasciano intuire che tutti ci assomigliamo nella meccanica della diversità. Certo c’è il genio, ma questo non è pane da diari, casomai se ne coglie qualche scintilla, o il perdurante modo di vivere sopra le righe, il genio riserva il suo esplicarsi all’opera e questa è altrove. 

Quando è possibile, può affascinare incrociare le diaristiche, le biografie, con le lettere di chi era significativo per l’autore (in questo momento penso, ad esempio a Manganelli, alla Merini, a Fulvia Papetti).  Ne esce un ridimensionamento e anche un fascino ulteriore. È lo stesso processo d’interesse altrui nei nostri confronti, che vorremmo nel conoscere per vederci con altri occhi. All’uomo di genio questo interessa ben poco in quanto è dominus del suo vivere, lo subordina per concezione naturale. Gide non è differente, e ciò che lo attornia sembra un’ orchestra che viene condotta come strumento complessivo, che sbaglia e può contrariare, ma suona una sua musica anche durante il processo creativo.  La psicologia ha indagato i processi che portano alla scoperta, ne ha stabilito le condizioni necessarie che però non sono in grado di generare il nuovo come importante solo perché c’è un milieu favorevole. Ad esempio quando si parla del rinascimento toscano, che non è solo toscano, che altrove è altrettanto importante, che il substrato è comune, che i grandi, i geni di allora, sono accompagnati da richieste importanti che riguardano la ragione, l’uomo, il bello. Che esiste una committenza diffusa ed estesa geograficamente,  che è moda delle classi dominanti, e che il bello costa oggettivamente poco. Come il genio.

Galimberti ha fatto un’osservazione importante: nella nostra epoca non ci sono geni della statura di un Leonardo da Vinci, neppure nelle arti o nella letteratura ci sono geni, e neppure se ne vedono all’orizzonte. In compenso c’è una produzione diffusa di livello elevato e transeunte, la parola geniale viene sprecata e soprattutto la tecnica ha determinato e determina il progresso. Nella diaristica emerge invece la fatica del quotidiano perseguire un ruolo che riguarda il profondo dell’autore. Non basta una app per diventare famosi e restare, quella serve a far soldi ma finisce presto divorata dal passo successivo. Questa è la tecnica, invece nelle vite immerse nel narcisistico compimento di sé, si sente una continua tensione verso un ulteriore. Si abusa molto la parola eterno, nulla lo è davvero, però il durare a lungo è già molto per chi scrive di sé. Il disinteresse, il cinismo, non scrive di sé, e neppure del mondo che lo circonda, basterebbe questo pensiero per far capire che c’è un interesse umano notevole in chi si narra, che non è solo la necessità di essere riconosciuti, apprezzati, ammirati, amati. (tutte queste parole non sono sinonimi, ma si inanellano in una catena recitata dal desiderio)

Ho cercato un blog che da molto tempo non pubblica più. C’è ancora, anche se l’autrice chissà che starà facendo. Mi sono soffermato a rileggere e a pensare alle osservazioni che lei faceva e che la riguardavano, ma soprattutto che guardavano. Il mondo le si svolgeva attorno e lei lo interpretava su di sé, partecipe. Ho pensato che in quel tempo anch’io avevo una scrittura diversa, attenta a fatti immediati da riportare in una prospettiva di tempo lungo. Ho pensato che i blog sono allora, come adesso, un’ immensa diaristica che procede o si interrompe e che chi comunica fa dialogare impressioni, rappresentazioni, ma anche molta sostanza. Anche se manca quasi sempre la verifica, le lettere, le impressioni di altri, di chi conosce personalmente chi scrive. Qui la tecnica ha reso pervasiva e immediata la capacità di proporre e di far assorbire stimoli e meno evidente e necessaria (forse perché noiosa?) la riflessione sui temi essenziali della vita. Che poi sono tre, ma ciascuno li declina secondo bisogno, identità, necessità.

su Manganelli:

Era povero in canna. È vissuto fino a dopo il 1960 in una camera ammobiliata, presso la famiglia Magnoni. Quando i Magnoni traslocavano, anche il pensionante traslocava. Come il canarino. Diceva mio padre: io, il portaombrelli e il canarino abbiamo traslocato con la famiglia Magnoni» (L.M.).

«Aveva una moglie e una bimba, ma già le prime bufere esistenziali lo avevano reso inquieto e solitario. In effetti egli stava vivendo in quegli anni l’Hilarotragoedia che darà alle stampe tanto tempo dopo, nel 1964. Il vistoso ossimoro del titolo connota la sua vicenda degli anni 1947-49, oscillante tra un amore assoluto, caparbio e il sospetto della follia incombente sulla giovane poetessa amata. Fu allora che scopersi, durante le visite settimanali che mi faceva la strana coppia degna di un dramma antico, la complessità della natura di Manganelli, che affiancava a sublimi raptus intellettuali una profonda, rara e squisita umanità. Con essa egli cercava di salvare la ragazza, di affidarla in mani sicure, ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i suoi segni esteriori. Un giorno egli scomparve in lambretta, diretto a Roma» (Maria Corti). «Mia madre rimase da separata in casa con i suoceri fino alla morte del nonno, accantonando per il momento tutte le sue ambizioni letterarie, ambizioni che riprenderà più tardi. I problemi pratici incombevano, le spese erano tantissime e mia madre tentava di fronteggiarle alternando l’insegnamento con le lezioni private. Io andai a vivere con i nonni materni a Parma, nonni e città assolutamente sconosciuti. Quando mio nonno paterno si ammalò, mi portò da sua madre chiedendole: – Me la tieni per quindici giorni? – E ci rimasi vent’anni» (L.M.).

oppure

http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/12/news/papetti_manganelli_l_erotismo_e_le_angosce_di_un_seduttore-107114417/

o ancora sul rapporto tra geni

http://ilmanifesto.info/carl-gustav-jung-e-wolfgang-pauli-lettere-sulla-fatica-di-essere-un-genio/

 

immagini

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Sullo schermo scorrono le immagini che riempiono buona parte della memoria del mio pc. Scatto con una frequenza di cui non mi rendo conto, lo vedo ora che mi fermo a guardare, curioso della prossima immagine. Intanto un programma random mette assieme immagini secondo proprie logiche, scatti, situazioni, pensieri connessi: da quanto tempo intrappolo istanti che possono ricollegarsi ad un pensiero? Ci sono immagini passate e non solo solo pixel e colore.

Immagini. Immagini il procedere dei pensieri della mia giornata? Non ti chiedo se ti interessano. Avrei paura di una risposta non adeguata. Una risposta positiva non lo è, sarebbe meglio una dubitativa. Tu cosa immagini? Mi interesserebbe saperlo, ma non lo dici e quando lo si chiede l’immagine è già scomparsa. C’è una abitudine a dare un nome a ciò che s’immagina, a formularli in parole, a legarli a ciò che si vede e dove si è. Quando si dice ti penso, si dicono cose molto complesse perché in realtà significa che tu ci sei dove io sono, in ciò che ho attorno, in quello che vedo e che in qualche modo condivido con te perché mi sei venuta in mente. 

Ho capito la natura del disordine che mi attornia. Le centinaia di taccuini, appunti, foto mie e d’altri, appese, sparse, raggruppate in cartelle, seppellite dove solo io so. Oppure non so, ma è bello lo stesso perché so che esistono. E poesie pudiche appese, e irriverenti, ed erotiche, perché la poesia è sempre erotica quando entra in ciò che vede, mescola sentire e possedere. Si dovrebbe dire pudiche poesie e già si sospenderebbe la voce perché i versi veri sono altre cose e invece per me la parola è un modo di vedere, di cogliere, annodare un pensiero a ciò che sembra reale e quando lo vede e lo scrive o lo fotografa lo cambia, lo rende più simile a sé e meno all’impalpabile equilibrio di atomi, energie, forze deboli, casualità, che vediamo. È un coincidere di pensieri virtualmente staccati in un unico luogo e punto dell’universo in cui noi siamo in quel preciso momento. Che resta. In qualche modo resta ed entra con noi in ciò che accade poi.

Immagini. Cosa accade attorno quando il kairos permette che accada ciò che vedo e sento, permette che io accada? A nessuno si può chiedere l’eroismo di capire cosa ci passa per la testa. A nessuno si può chiedere più di un racconto del vedere. E invece la sensazione che viene chiesta riguarda chi la chiede, è un mi ami? ed è parte di quella gelosia del possedere ciò che, in qualche modo, pensiamo di amare.

Immagini. Può essere imperativo, una richiesta che non ammette alternative e che chiede all’altro di entrare nel proprio mondo, che chiede di essere nei pensieri. Rifiutalo, questo immagini, sono i perfidi indovinelli degli innamorati che chiedono di vaticinare ciò che più si desidera. Si sbaglia sempre e non per mancato amore ma per impossibilità dell’accadere. Se mi chiedi di interpretare un tuo desiderio, quel desiderio non si può immaginare, semplicemente è. Dovrei essere te, coincidere. Questa è una interpretazione dell’amore, essere uno totalmente. E invece se ti chiedo di immaginare, ti chiedo una libertà assoluta, un correre liberi a fianco. Ti porgo la mia interpretazione dell’amore, quella che ho dentro, ed è parziale ma è amore. Quello che so dare con attenzione. Il disamore è mancanza di attenzione, l’amore non è cosa da indovini, ma attenzione, cura e un correre assieme.  

Immagini e scorrono le immagini. Davvero siamo così tante parole, tanti sguardi, tanti pensieri pensati? C’è una ricchezza felice nel pensare e nel vedere. Possiamo sempre essere tante emozioni ancora, tanto amore, tanta gioia di esistere ed essere anche quando ci annoiamo, quando il cielo è scuro, quando c’è il vuoto. C’è una possibilità infinita di raccogliere ed annodare e quindi una speranza infinita, un futuro infinito perché c’è ancora tutto a disposizione. tutto il kairos che ci riguarda.

Immagini cosa ti porti dentro e cosa sei ora? Davvero lo immagini e te ne rendi conto? Lo senti, almeno in piccola parte, tutto quello che ancora possiedi e che non hai esplorato, quello che emerge nei pensieri, nei sentimenti, nel nuovo che continua a generarsi ed urgere per connettersi al mondo e farti meravigliare di te?

Prima è apparsa l’immagine di un ristorante di Aleppo, si chiamava Martini e incuriosiva quel nome che testimoniava che gli uomini si muovevano in continuazione. Ed erano ovunque se stessi. Come adesso. L’immagine mostra il patio coperto, che era di una bellezza quieta e forte: da 400 anni un luogo in cui si comunicavano, sovrapponevano pensieri, modi di vedere e cura. Perché l’attenzione è cura. Magari ora è un cumulo di rovine, le persone dell’immagine saranno disperse, speriamo vive, posso immaginarle, posso riconnetterle con la realtà per un momento, vedere un futuro desiderato che le riguarda. Quel luogo oltre che per la bellezza mi aveva colpito per le persone e perché era un generatore di immagini. Ti diceva quello che era possibile e quello che lui era stato continuando ad essere. Assieme. E il processo non finiva pagando un conto, si imprimeva dentro, generava nuovi pensieri. Facciamo così con ciò che amiamo, immaginiamo ciò che potrebbe essere e non siamo prigionieri di ciò che è. Immagini cosa sarebbe l’amore senza un progetto, senza una speranza, senza l’attesa? Lo immagini? Sei davvero in grado di pensare una cosa così?  Ebbene se si riesce ad immaginare, quello chissà cos’è, chissà che specie di amore è. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=X-asa07vXOU

pronto?

Nell’infinito flusso di parole della rete, le storie zampillano ignare. Stamattina c’era un telefono lasciato aperto, dialoghi sullo sfondo, e un insistere da parte mia con quel pronto, pronto, pronto, che non significa nulla. Pronto a che? Ad ascoltare? Ad essere ascoltato? Estote parati. Siate pronti al futuro, ma qui è tutto presente, tutto cronaca e carta da cassonetti: avanti un altro presente. Un tempo con la carta di giornale si facevano molte cose, dall’incartare il pesce sino alle pulizie intime, nell’era della specializzazione al più serve la fibra cellulosica e allora a che serve il presente? È forse quel pronto senza risposta? Una richiesta che oggi potrebbe essere un aiuto. Aiuto, nessuno mi ascolta. Oppure un ci sono, eccomi, sono un po’ come tu mi vuoi, o ancora un come sta andando, ti ricordi di me? Di sicuro il pronto è una relazione. Chi ordina non lo dice il pronto: tu devi essere pronto. Neppure ti dice chi è, passa all’oggetto della chiamata, non chiede un contatto ma una disponibilità assoluta, non invoca aiuto e certamente non lo dà. C’era una pubblicità che diceva qualche anno fa : il telefono, la tua voce. Anche, ma la voce significa oltre le parole, è flusso di sensazioni e ora il telefono non è telefono, a volte usa la voce, spesso altro. È semplicemente un medium che non divina. La tecnologia ci modifica quanto e come l’evoluzione biologica, ma non è l’evoluzione biologica. È un cartoccio di parole che si getta ritualmente nel cassonetto del presente, solo che esso ritma il pensiero: non si scappa. Slavoj Žižek , ha appena pubblicato un ulteriore saggio, il cinquantesimo credo, sull’immaginario e sulla sua relazione col reale, partendo dal presupposto che ora è l’immaginario a determinare il reale. Žižek datti una regolata, 50 saggi sono immaginario, non sono reale, sono sms lunghi trecento pagine, sono glossolalia filosofica, come possiamo accontentarci della seconda e terza di copertina e pagarla 22 euro,, lasciaci il tempo di assorbire, di dissentire, di convergere e di modificarci. Alimenti il terremoto di parole, i 28.000 titoli nuovi che compaiono ogni anno, così le scosse continuano e ci rendono insicuri di tutto, a partire dalla nostra sconfinata incapacità di esserci davvero nel presente. Gli umani lettori forti, leggono più o meno tremila libri nella loro vita. Ci perdiamo ciò che deve restare a favore dell’attualità, che poi è anch’essa un pronto, una richiesta d’aiuto, che sarebbe a dire: aiutatemi a dare un senso al futuro.

Pronto? Ci sei davvero? Siamo il giorno dopo le elezioni e migliaia di pagine sono riempite dal nuovo, dalla percezione/interpretazione della novità, ma cosa si spiega? C’è qualcuno che dica che l’essenza è tutta in quel pronto senza risposta mentre sullo sfondo altre vite che ci escludono proseguono? In quel pronto c’è la partecipazione negata dall’arroganza di chi pronto non lo dice mai, c’è il desiderio di condividere negato, ma c’è anche il presente e la sua dittatura, c’è la tecnologia e il problema del disagio che essa non toglie, casomai amplifica. Vanno forte i siti della sfiga politico sociale, del lamento, delle storie personali che esigono la pacca sulla spalla, solo che anch’essi, scelto il target devono continuamente restare nel ruolo: una infinita storia di cadute. Sono il pronto che riceve una risposta ma non esaurisce la domanda. Il pronto come gadget comunicativo.

Al posto di Žižek, mi leggo l’arte del viaggio di Cesare De Seta. Viaggiare è una attività lenta, dove il pronto qualche risposta la riceve, Slavoj aspetterà e intanto magari scade come il latte: il presente e l’immaginario lo rendono vecchio, anche se ciò che dice vecchio non è. E cioè che in ogni cambiamento chi ha osannato senza critiche il vecchio, si conformava allora e poi diventa alfiere del nuovo, e nuovamente si conforma. È la sua natura, vive nel presente e in ciò che esso può dare. Magari Renzi ne sa qualcosa. Pronto? 

c’è un tempo

c’è un tempo che non ho voluto,                                                                                                         era libeccio, venuto in faccia, 
inatteso, alito caldo,
  e non c’era luogo,
né ora,
per farsi offendere,
per farsi consumare:
   non avevo viso da farmi accarezzare.
In quel tempo mi son perso,
in quel tempo ritrovato,
è bastato poi un fiammifero 
e un mondo ch’era torbido
improvviso s’è schiarito.
Potrei parlarti delle dita,
d’un fiammifero consumato,
    ma quel tempo non m’apparteneva
mi è stato regalato.

    Il tempo ci trova, ci segue e sorride.

A suo modo, sorride.

http://https://www.youtube.com/watch?v=XpGBrkj5Pec

un’inutile vita grama

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È passato del tempo, allora come adesso, mettevo in forma di lettera, dialoghi, considerazioni che venivano dopo, quando il passo era meno importante di ciò che si era scatenato prima. Nel parlare tra se c’è questa attenzione caparbia ad un oggetto, l’inseguire code di pensieri che si dileguano dispettosi, scegliere porte spalancate ed ammiccanti. E noi parlavamo di temi sensibili, importanti davvero, del che fare della vita, convinti entrambi delle proprie scelte e ragioni, ma ascoltando. C’è una attenzione amorosa nell’ascoltare, un lasciarsi stupire e l’ammettere il dubbio. In questo c’era amore nel confrontare le nostre due diverse concezioni, la mia viscosa, rallentante, che sbottava verso la leggerezza come capacità di lasciare impronte lievi e la tua, bruciante, veloce, piena dell’impeto che spinge e fa vibrare. Confronto impari perché la bellezza s’accoccola sempre nel fascino del pensiero altrui, così è da parte mia ma era anche puntigliosa, la mia difesa, anni di ricerca non si buttano per aria facilmente. Sai cosa emerge in questi casi? Il timore del fallimento totale, aver sbagliato quella prima porta che poi ha reso il resto un cumulo di errori giustificativi, di seppellimenti del fastidioso nella glorificazione del parziale successo. Usare la lentezza come costruzione di se stessi. Dopo il fascino giovanile per me la velocità era divenuta nemica della riflessione. Non siamo militari, mi dicevo, non dobbiamo decidere come uccidere il prossimo nemico per non essere uccisi, non dobbiamo sbaragliare nessuno, e questo lo penso ancora perché la riflessione sospende, rallenta, porta alla considerazione dell’alternativa e quindi argina il desiderio, la sua soddisfazione. E chi ha detto che desiderio e felicità coincidano? Anche se noi cerchiamo la seconda anche attraverso il primo. Come vedi non penso in termini di mortificazione, di assenza, ma di lentezza, ben sapendo che essa contiene veleni importanti e discreti, quelli a cui ci si assuefa guardandosi l’ombelico, contemplando la bellezza e non vedendone le domande, curando il corpo come immutabile perché pensato coincidente con la mente, con il pensiero fecondo, vitale. La lentezza si può trasferire nella dimensione propria di una terzietà, di un guardare distaccato che la velocità, nella sua ansia di bruciare tempo e vita, non ha.

Thanatos, desiderio e rifiuto/ricerca della morte. In un confronto da giganti, l’assalto al cielo degli dei, ecco cosa mi suggerivi, ascoltandoti, e interpretando con le mie lentezze, la tua ansia di corsa vitale. Volevo avere il respiro del mare, contenerne la furia sapendo che sono le maree che contano e con esso portare l’annessione del cielo al proprio piccolo, miserrimo, mondo. Così importante e fondamentale che trovarne misura è impedito. Questa era la mia proposta. Ciò che facevo. Lentezza e velocità messe di fronte, con sorrisi e scambi veloci di parole e silenzi. Io taccio quando non so dove poggiare i piedi, avresti dovuto accontentarti di seminare dubbi come papaveri, ma da buon miles riottoso ho sempre avuto una trincea in cui resistere: questa era la percezione del fallimento. Nel fallire non conta ciò che si è stati, ma ciò che si è diventati. In questo il fallimento assomiglia molto all’innocenza, nell’uno c’è la coscienza che l’errore è stato più grande di noi, l’abbiamo attivato, ci siamo misurati, è stato un confronto perseguito per orgoglio, per delirio di onnipotenza, per impossibilità di fare altrimenti: avevamo poveri mezzi a disposizione del sogno, alcune tecniche di sotterfugio imparate faticosamente e ammantate di sincerità, una capacità infinita di auto convincersi, e una fiducia sterminate di riuscire. Eppure abbiamo fallito. Potevamo fare altrimenti? No, anche se era certamente possibile, ma che fine avrebbe fatto la sfida con la dissoluzione, la coincidenza tra vita e possibilità di dare forma e soddisfazione ai desideri? C’era Thanatos e la sua sfida, sempre aperta, dietro, e sapendo che alla fine essa vince, meglio fuggirle correndole incontro, meglio alzare continuamente la posta, mettere milioni di sogni e di chilometri tra una immagine nostra e il tempo che si confronta con noi. Sai perché il fallimento assomiglia all’innocenza? Perché contiene la stessa impossibilità d’essere altro, quando l’innocenza si percepisce già non è più tale, quindi dev’essere senza saperlo davvero, oppure la consapevolezza di essa si deve arrestare, esattamente come il fallimento, appena prima. Dove si differenziano è invece nei tempi dello svolgersi, thanatos è una fuga continua, l’innocenza sembra immota mentre si muove. Hai fatto caso che entrambe prescindono dalla vita? Questo dovrà pure significare qualcosa. Forse che il dualismo non è così automatico e non esiste una scelta radicale nell’essere innocenti o nel correre, ma un’ approssimazione, una conformità a ciò che si è e non a ciò che ci pare di essere. Potrei usare le tue parole, le tue distinzioni tra cose e pensieri, tra sentimento e piacere, tra decisione e dubbio. In fondo ci si dice che vorremmo avere l’apparenza di qualcuno, ciò che in lui lenisce le nostre ferite, non le sue sconfitte, i suoi dubbi, la tenebra che contiene. Chi persegue la lentezza vorrebbe avere il piacere della velocità e chi è veloce sa che può rallentare se ha superato la paura di essere raggiunto. Ho pensato che se alla fine di un discorrere così partecipe perché entrava nell’intimo, esponeva la propria nudità fatta di paure prima che di desideri, se nel considerare che il fallimento è sempre parziale e che esso è una molla per una impresa ulteriore, se tutto questo resta e affolla la mente, avevamo parlato davvero. Cambiando ciascuno per suo conto, alimentando piccoli dubbi che pizzicheranno la pelle nelle notti poco assonnate, e non è poco perché questo è uscire da una inutile vita grama. Sbagliando, ma provandoci. Non ho nulla da celebrare, nulla, e questo stranamente mi rende sereno, fiducioso, partecipe. Chissà se sono più attaccato a me o al mondo, ma sono attento a ciò che muta, proprio per l’assenza di certezze e rallento.

http://https://www.youtube.com/watch?v=6gzmij4LGA4

intercalare

Davvero 

C’è sempre incredulità in un pensiero nuovo. Aria pulita, stupore, e la richiesta di una conferma che ci si rivolge. Si sospende per un attimo la corsa per raccogliere ciò è emerso improvviso e guardarsi attorno. 

proviamo emozioni 

La sorpresa si è sciolta, il passo è leggero. Quella sintesi che si è fatta strada ha mostrato un accesso al profondo, ma è stato un momento e ha lasciato solo un’ impressione. Come un tuffo nell’acqua che risveglia il corpo e gli dice: esisti. 

più per paura 

Ragionare per confronto, per differenza propria, perché senza presunzione, siamo differenti. Da noi, anzitutto. Da ciò che siamo stati e saremo. E il pensiero è la fotografia, sorprendentemente a fuoco, di un momento. Ricca di dettagli, fa uscire dalla velocità che appiattisce le cose, le sensazioni, i desideri. Esce dalla tirannia del presente e ci mostra un modo d’ essere che a volte perdura, ma quasi sempre si perde, dopo aver illuminato e affascinato. Questo è anche motivo dello scrivere: per contrastare un senso di perdita d’occasione alla quale è difficile abituarsi. 

che per passione? 

Nel mio giardino c’è un noce, da san Giovanni si raccoglievano i frutti per il nocino, altri frutti continuavano la loro crescita e poi cadevano senza essere raccolti. Tagliando l’erba, a primavera, vedevo piccole piante che a volte si facevano strada dalla corazza del frutto. Quella forza del crescere mi spiaceva fosse confusa tra gli steli, perché non erano erba ma alberi che volevano fruttificare. Era una foresta che voleva nascere da un solo albero.         Si è chiuso il dubbio iniziale in un nocciolo duro che non ha soluzione; può però germogliare. Lo farà. A volte capita che generi una roccia, altre una ninfea, per questo bisogna camminare leggeri.

Davvero

proviamo emozioni

più per paura

che per passione?

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ripetutamente

Ripetutamente. Se associata al pensiero di una persona, questa parola, evidenzia un’attenzione particolare. La si dissemina per dire altro in un discorso intimo. Ripetutamente è l’insistere del pensiero nel voler far parte, nell’essere assieme oltre il normale e il consueto. Testimonia un comunicare profondo che penetra il giorno, lo riporta a sé senza bisogno di un motivo. In positivo e in negativo.

Nel negativo la costrizione del ripetersi diventa gabbia, prigionia, recinto del pensiero. Lo impoverisce perché lo priva della curiosità allegra, lo priva di ciò che sta attorno. È un pensiero che vuole risistemare le cose, fare ordine e ricondurre a razionalità.

In positivo, il pensiero ripetuto, se non è ossessivo, ma allora è già scivolato di crinale nel negativo, è lieve e curioso. Intendiamoci, è lieve come una carezza che sa andare in profondità, sollecita sia la tenerezza che il desiderio. Coccola perché vuole scoprire, ma pazienta e il disvelarsi è attesa dolce. È un ripetersi che fa bene, che toglie dall’usuale, dalle abitudini. È terapeutico e fertile se dosato con la giusta leggerezza, se tiene lontano il veleno dell’ossessione. Contiene quella leggerezza che apre il sorriso, che chiede, svagata nel quotidiano, che il mondo si riveli un poco attraverso una persona. Teniamo questo ripetutamente da conto, ne esistono altri, ma in questo c’è l’esercizio dell’attenzione, della curiosità partecipe e della gentilezza. L’ascolto insomma, più che il dire, il bussare alla propria porta interiore piuttosto che lo spalancare.

E che bello se qualcuno dicesse: ti penserò,

ti amerò,

come non ti sai.

in quel luogo del cuore che è la vita,

ripetutamente,

e in quel mare che è il tempo

diversamente.