Nel mio piccolo giardino le piante non sono cose, ma posseggono personalità precise. Alcune ascoltano, aspettano in silenzio d’essere curate, e deperiscono, come gli umani, in mancanza d’amore. Altre sono pensose, metodiche, spesso sotterranee nel meditare e fioriscono quando è tempo, spandono profumo, hanno un cosciente equilibrio di bellezza che si ripete, sempre nuovo e stupefacente. Altre ancora, sono arroganti, si propagano secondo oscuri amplessi, vanno ovunque, tolgono aria e respiro a chi da tempo occupa silente il luogo che pensava suo. Non bastano all’arroganza verde, i capienti vasi, si sparge nei giardini vicini, spesso viene strappata come erba ma è pervicace e molteplice d’ingegno così quella che sfugge diventa forte di radici, intimorisce i giardinieri improvvisati che lasciano crescere e poi si stupiscono d’essere prigionieri di nuovi alberi.
C’è talmente tanta vita in questo fazzoletto di terra che alberi maestosi vi vorrebbero trovare posto, le rose tranquille invecchierebbero, silenti e profumate e il gelsomino ripeterebbe la sua magia ogni anno parlando con il lento ulivo.
Le lotte verdi per il predominio trovano insperate alleanze in piante da semi ventosi e si disputano spazi, intrecciano radici e rami in dialoghi mai quieti e tantomeno casti. Ciò che prevale dipende dalla cura o dal capriccio della stagione, il caldo sceglie e modifica le resistenze di ciascuno, così l’acqua diviene il dono che posso dare indifferentemente a tutte, ma so che ciascuna ne farà un diverso uso e che ancora una volta, una sotterranea lotta s’accenderà per vivere e proliferare.
In questo battagliare salvo gli umili e i silenti, li porto altrove, in nuova terra e vasi, perché conosco l’arroganza che pretende e non fa dire ciò che necessita alla vita e alla bellezza di ciascuno. Per gli altri è un susseguirsi di rese e di nuovi assalti, di fascinazioni per uccelli prima affamati e poi golosi. Dei frutti nulla resta ma della battaglia sono osservatore attento. Partecipe, a volte, per simpatia o per stabilire un ordine, ciò che è tumulto di vita m’affascina quanto il silenzio del fiore di limone e il bocciolo di rosa, e capisco che un linguaggio per me silente, ma forte d’urli e di sussurri, sta percorrendo terra e aria che dà a ciascuno personalità e misura.
È un piccolo farsi di verde sociale dove nessuno mai rinuncia ad essere se stesso.
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tra le pieghe del vero
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Dai propri errori si impara, a volte, quelli degli altri si subiscono, sempre.
Eppure c’è la presunzione di chi ha un’ autorità, anche piccola, di non sbagliare. Mentre la moltitudine che si chiama pubblica opinione pensa che ripetendo opinioni altrui, di non causare danno con i piccoli assensi, con i silenzi che oscurano la realtà, che velano e la manipolano fino a non percepirne più il gusto, il profumo, la forma.
L’errore è la naturale ignoranza che possediamo, l’impossibilità di tenere nel giusto conto tutti gli elementi che compongono la realtà e ciò che si dovrebbe capire.
Quando studiavo chimica quantitativa, la teoria dell’errore veniva in soccorso, in qualche modo svelava il vero perché evidenziava la sistematicità insita negli strumenti e nelle procedure ma anche il compensarsi delle forze opposte che agivano sulle cose e proprio quel compensarsi, distinto e scrostato dalla superficie diveniva un indizio forte di ciò che agiva e mascherava il vero. Il risultato era lo stesso ma le dinamiche differenti e l’errore appariva.
In quel modo analitico di tener conto prima di emettere un giudizio, prima di una consapevolezza era contenuta una lentezza che metteva da parte l’azzardo ed era, nel suo essere vicina alla realtà, sostenibile in sé.
Se tutto questo lo si applicasse ai sentimenti, alla natura della comunicazione (anche amorosa) che conforma i rapporti e genera le cose si avrebbe, forse, una serie di mezzi silenzi, inframmezzati da parole pesate che esprimerebbero il dubbio e darebbero fiducia all’agire, perché se nulla nasce da nulla, il vero è fatica e comprensione profonda della realtà.
Ma il dubbio non è gradito, si vuole la certezza immediata e allora con il conforto di dati, di interpretazioni e autorevolezze costruite sugli errori occultati, sulle verità dette a mezzo, ciò che verrà detto sarà inconfutabile. Nei rapporti umani, nella politica, ma anche nell’ informazione che sceglie i fatti e li interpreta anziché mostrarli, abbiamo resuscitato il vaticinio e una pletora di pizie conformi che alla fine ci convinceranno che, non il loro affermare ma il nostro capire, è l’errore e così terranno intatta la ragione.
In fondo Guglielmo di Occam ci aveva insegnato a discernere e anche al chiedere se mi ami o no emergeva che non c’era via di mezzo, con la conseguenza che ogni spiegazione era superflua.
La risposta più semplice contiene più verità e se non ho la risposta che vorresti raccontami i tuoi dubbi, ciò che ti trattiene, ciò che è impossibile ma vero. Questo basterà e non sarà necessario che ci siano altre domande ma solo conseguenze, silenzi e rade risposte.
mantra della centrale o della guerra
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Nel pericolo per capire bisogna avere pazienza,
quando sembra tutto perduto, bisogna salvarsi e avere la pazienza di cercare vie d’uscita.
La forza della pazienza e del bene comune è il rifugio di chi ama la vita.
e quando tutto crolla bisogna avere la speranza della pazienza.
Solo attraverso la pazienza, qualcuno si salverà.
Lo penso per chi vive nella centrale,
ma anche per quelli fuori della centrale, che ignari attendono.
lo pensavo per i tecnici ed i pompieri di Chernobyl,
per tutti quelli che si lasciavano contaminare per salvare altri anziché fuggire.
Lo pensava Rigoni Stern che parlava della vita con voce paziente
mentre in Russia, nella ritirata, c’era quasi solo morte.
Lo penso per le piccole difficoltà che riducono l’orizzonte ad un angolo acuto,
lo penso quando non c’è pazienza per capire ciò che viene chiesto e offerto,
quando l’immagine mente e impedisce di vedere.
Lo penso quando l’ amor proprio toglie la pazienza di costruirsi,
quando non si capisce e si continua lo stesso a inondare di parole il mondo.
Quando c’è paura occorre pazienza,
quando è notte, senza conta d’ore, occorre la pazienza della luce,
quando si è soli, nella centrale o nel cuore dell’universo, occorre pazienza, verità, amore.
sette anni selvaggi
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Sette anni selvaggi in cui la vita si è rollata come una sigaretta con tabacchi strani e quei sette anni l’hanno preparata per sottrazione, deviazione, fraintendimento, bisogno. Tutto questo mescolato nel bidone dello scorrere dei giorni, con tutti i loro luoghi comuni acquisiti e in formazione.
La regola aurea dell’umano sentire l’ho appresa così, aggiungendo, perché solo questa operazione contiene tutto, l’aritmetica, la fisica, lo spirituale, le cose. Ho aggiunto esperienze, fatto cose banali, alcune singolari, molte inutili e scavato la terra per creare trappole mentali in cui inciampare, ma ho imparato molto. Quello che s’impara resta a modo suo, cambia natura, diventa altro da ciò che è accaduto, da ciò che si è letto, scritto, visto. E ciò che resta si aggiunge con delicatezza inusitata, rispetta l’esistente anche quando questo lo accompagna alla porta del pregiudizio. Lo rassicura che resterà una traccia, un ricordo, e nel frattempo ci muta.
Sette anni di cui posso dire che ogni errore era necessario, ma non sufficiente, che esso si è sommato in silenzio, chiudendo strade per costringermi ad aprirne altre. Quanto pesa il caso rispetto alle scelte e alla necessità? Credo parecchio, anche se la controprova non possiamo averla. Quando penso a una sintesi, la sento sferica, morbida, globulare di piccole offese e di slanci improvvisi, ora ad ardua disposizione mentre guardo il soffitto.
Brani di immagini, il sole che filtra tra le imposte, un ricordo scacciato per l’umiliazione subita, per il prezzo eccessivo pagato che si somma ad altre umiliazioni. Brucia ancora anche se ora che ne vedo le motivazioni, sono poca cosa, i fatti spesso banali, le scuse superflue eppure pretese. Come imparare quando vengono aggiunte ingiustizie grandi a corpi piccoli, eppure sono cose che restano e flettono un cammino, una realtà che poteva essere differente.
Ognuno di noi contiene molte vite autogenerate, alcune di esse continuano parallele nel presente e nel ricordo. Ciò che le separa è la relazione che esse conservano con l’idea che abbiamo di noi stessi, che maturiamo nel profondo e che hanno la necessità vitale dell’omeostasi. Ciò che esce alla comunicazione è la capacità di suscitare emozioni in noi stessi e negli altri, i pensieri e gli atti conseguenti, espliciti o meno, che generano.
C’era una forma nella sintesi che quegli anni donavano, una sfera che ora si apre, il coraggio accanto alla paura, la difficoltà di crescere perché si deve perdere molto, l’innocenza e il nuovo che è bisogno prima d’essere fascino. Non è vero che a ogni domanda c’è una risposta , ci sono molte risposte e molti pezzi di realtà che vivono dentro e si ricombinano. Non serve più cercare ciò che viene da solo, basta mettere quiete, lasciare che la distanza renda piccole le ferite, le cose, quello che poteva essere e non è stato.
Dopo notte, atra e funesta,
splende in Ciel più vago il sole,
e di gioia empie la terra;
variazioni sull’otto marzo
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prima variazione:
Si può essere commossi e calmi? Sì, se ciò che si è subito ha talmente imbevuto la vita da diventare permanente parte di essa.
Con voce commossa e calma, enuncia lo stalking subito per sei anni, le minacce fisiche, le percosse, il pericolo di morte. E accanto a questa condizione assurda del vivere, enumera le denunce, la diffidenza incontrata, i tentativi di dissuaderla dalle querele, l’atteggiamento e l’insensibilità incontrate, divenuti essi stessi, percossa e violenza. Il tentativo di convincerla a capire più l’aggressore che lei stessa in nome di una inesistente unione e amore. Una parola pesante emerge tra le altre, la connivenza che è parte dell’istituzione e rende compatibile socialmente l’abuso. Anch’essa parte del torto e dell’abuso subito. Poi il racconto continua con il positivo incontrato, le persone sensibili delle associazioni di aiuto contro violenza, un graduato di polizia che capisce e chiede scusa a nome dello stato. Il narrare è sereno, ma non scompare del tutto la piega amara della voce, delle parole. Poi, l’epilogo, che non è tale, verrà col processo dopo sei anni di sofferenza. Ma non ci sarà processo, perché nel frattempo il persecutore è morto. Tutto derubricato quindi? Finito? No, perché la vittima per fortuna è viva, ma deve ricostruirsi, inglobare la violenza subita in una visione positiva di se stessa, terapie per riaprirsi alla speranza, al rapporto con gli altri.
Si può essere commossi e calmi nella voce e trasmettere, proprio attraverso la calma, il carico di dolore in atto e quello trascorso. Questo insegna, fa riflettere, rende lampante l’inadeguatezza delle parole di legge e dei comportamenti che esse generano. Non si tratta solo di sentirsi in colpa in quanto genere maschile. A che serve la colpa se non è accompagnata dal suo superamento? Bisogna essere consapevoli, e questo riguarda tutti, capire che la violenza è tra noi e che, se non la vogliamo, bisogna, non solo emettere leggi, ma fare in modo che essa non sia accolta, analizzata, resa comportamento, giustificata, relativizzata, messa in conto come danno collaterale. Non c’è nessuna guerra in atto tra i sessi, c’è solo una questione di rapporti ed eguaglianza che dev’essere modificata nella cultura, nella percezione. A partire dalla mia cultura, dal mio intendere la presenza femminile ovunque nella società.
seconda variazione:
La ragazza ha meno di vent’anni. Stringe tra le dita un mazzetto di mimosa molto sciupato. Eppure se potesse liscerebbe gli steli, gonfierebbe i fiori sino a renderli turgidi come appena colti. Lo ripara dal sole con la mano mentre cammina veloce. Potrebbe metterlo nello zainetto, ma si sciuperebbe ancora di più. Rivolge i fiori verso il basso, cerca una fontana per bagnarli e poi ogni tanto li rialza per controllare se si riprendono. Di certo li ha ricevuti da una persona per lei importante. Così ha collegato la giornata di festa che la riguarda con un atto di affetto. Forse d’amore.
Si vive anche di simboli e di gentilezza, almeno per una giornata. Ci penso poco a questo. Mi ha sempre infastidito l’insistenza avida dei fiorai, l’attenzione pelosa del donare obbligato dal conformismo che si chiude in un giorno. E al pari m’ infastidisce l’ignoranza liberatoria delle pizzerie, dei night a spettacolo invertito nel genere. Anche la risata grassa e ricca di doppi sensi mi dispiace perché ad essa corrisponde quella maschile. Mi sembra di mettere assieme la parte bassa della libertà. Eppure anche in questo c’è un passo avanti, una liberazione d’accatto ch’è poco o nulla, ma è sempre meglio del bigottismo precedente.
Un fiore, anche virtuale, tutto l’anno per ripristinare la mimosa sciupata. Ogni giorno, la predisposizione a dare gesti di cura. Anche un abbraccio può servire. Un abbraccio lungo, caldo e silenzioso. Ricco di sottointesi e appena colto dall’albero del bene reciproco.
terza variazione:
Li ho visti l’altra sera in televisione, ripresi e commentati con la levità empatica dei conduttori che mette in luce, non l’immagine di rapina del fotoreporter, ma una quotidianità assurda, sofferente. Sono le donne e i bambini della rotta balcanica. Passano la giornata in fila per un panino e una bottiglietta d’acqua, attendono che qualcuno possa passare. Inermi tra gli inermi. Donne avvolte in lunghi abiti neri oppure con gonne corte colorate, che stanno in attesa e altre arrivano. Si sistemano in tende fragili, estive. Tutti nella stessa condizione, pur venendo da diverse esperienze di rapporti familiari, di vita e di prospettive.
Non credo che oggi abbiano distribuito mimosa nel campo, sarebbero bastati i panini con un minor tempo d’attesa. Chissà se per loro prima esisteva un otto marzo, comunque non ci pensano ora. Non loro, non i tre milioni di profughi in Turchia, in maggioranza donne e bambini. Non il milione e mezzo stipato in Libano (ma forse quelli stanno meglio che con Erdogan). Non gli oltre 350.000 somali in un unico campo di tende a Dadaab in Kenia. Non l’indeterminato numero alle soglie del Sahara o sulle coste libiche. In maggioranza sono donne e bambini che attendono e mostrano la nostra vergogna.
Qui il genere scompare: quante donne che festeggiano l’otto marzo pensano che l’esodo dev’essere un problema che si risolve in occidente? Penso alle donne perché gli uomini su questo hanno gesti sbrigativi, considerano che i danni collaterali fanno parte della realtà. Poi si sa, che i maschi se la cavano, anche quando emigrano. Anche nel morire se la cavano, ma le donne come fanno a tenere a bada la paura e il dolore per i propri figli, per sé, per i compagni? Come in questi giorni in Calabria, chi penserà a loro, a ciò che hanno patito sino al viaggio estremo. Chi piangerà i loro figli, i familiari, loro stesse, ormai prive di vite sono state oggetto di discussione mentre serviva soccorso, umanità. Le sopravvissute ricostruiranno le culture, i nuclei di relazione, l’amore, anche se non viene loro permesso di avere un futuro. La mia amica danese mi dice che in Danimarca non si festeggia l’otto marzo perché i diritti delle donne sono una cosa normale. Ma per chi valgono i diritti basilari? Quelli semplici, da cultura laica o religiosa: accoglienza, rispetto, eguaglianza, sono riservati a chi ha cittadinanza e basta. Si è parlato molto a lungo di radici culturali da inserire nella costituzione europea. Questi diritti erano ricompresi, a partire dalle presunte radici cristiane. Che fine hanno fatto alla prova dei fatti? Sparito tutto. Forse anche per questo l’otto marzo non è proprio solo una festa commerciale.
entrocrazia
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Trionfa il prevalere dell’entropia come orizzonte dell’uomo, luogo del massimo disordine e per questo perdonabile a prezzo di soggezione assoluta, Sempre più difficile e rara è la fatica eroica del togliersi la colpa di non rispondere a qualcuno o qualcosa che ha semplicemente usato il potere come autorità e la parola come verità. Tra questi estremi siamo noi, immagine di un tempo e di una società che pure qualche valore doveva averlo in sé, avendo come soggetto l’uomo. Le ideologie, le guerre, i regimi, tutto ciò che è fallito, è scomparso con il dio che si era imposto un noi senza compromessi. Alle idee di eguaglianza e solidarietà è stato negato il perdono e con esso si è negata la speranza perché ciò che le ha sostituite non è stato meno terribile ma era vuoto e ha lasciato l’uomo solo e in balia di forze che mai potrà controllare.
Il passato conteneva sogni e convinzioni che giravano per l’umanità da qualche migliaio d’anni, possibile che tutti si siano sbagliati, che non ci sia stato modo di ridurre l’ansia del possesso a qualcosa di compatibile con la vita?
Oggi, anche nelle contraddizioni assolute, tutto ciò che cambia è buono, o almeno preferibile all’ordine che fissava diritti inalienabili, che riportava all’equilibrio del mondo, la presenza umana. Cose private del loro senso intaccano le libertà, vengono scambiate con privilegi da scartare subito. Il merito è il sollevarsi dell’uno, non della specie mentre dovrebbe essere il contrario e l’insieme è sostituito dall’alta opinione personale che dice che io sono al centro del mio destino e il resto viene di conseguenza, quindi eticamente e moralmente oltre il bene e il male che sono concetti collettivi.
Così anche le cose impalpabili, però assai concrete come l’amore, la serenità e il giusto rispetto dell’altro vengono piegate dal pensiero entropico, dove tutto passa e si trasforma. Diventa disordine incanalato entro rigide pareti d’ordine dove la libertà e il diritto di ciascuno sono moneta di scambio e come in un’arena i gladiatori si affrontano per chi li guarda indifferente dagli spalti. Apparentemente tutto è eguale, tutto si svolge secondo le regole che sono scritte nelle leggi, nelle costituzioni, ma perché allora, cresce la fatica di vivere, perché la diseguaglianza dilaga e toglie speranza consumando gli anni, perché non si vede il vicino che ha la stessa sofferenza e bisogno?
Nel migliore dei mondi possibili la punta del rifiuto fa un male nuovo e l’abbandono è un lago nero in cui vengono lasciate naufragare le vite.
dove inizia l’umano?
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Cos’è moralmente un assassinio? Mi spiego meglio, se scientemente si lascia che una persona muoia, se non si presta aiuto potendolo, se si ritiene che la vita possa essere affidata alla clemenza del caso, se si assente a una politica o alle norme di legge che implicano la morte come probabile, come si può definire moralmente questo modo di pensare, di distogliere lo sguardo?
Questo è il momento di chiederci dove inizia l’umano nelle nostre società, dove i principi, ciò che sembra contraddistinguere questa epoca, non siano solo parole e contenitori vuoti di sentire.
Lo misuriamo nella difficoltà del cambiamento verso il meglio nelle nostre piccole società fintamente libere, e vediamo che non dipende solo dalla volontà di poche persone, ma ha la necessità di trovare un denominatore comune che ne giustifichi la fatica. Cioè essere contro ha dei costi fisici ed è una fatica rispetto al conformismo che assente, non ascolta, si volta dall’altra parte. Partiamo dal fatto che esistono certamente diversi modi di vedere la realtà, che il giusto è un concetto con una discreta relatività e che in un’epoca post ideologica forse dovrebbe essere più praticabile, almeno dialetticamente, ma che invece scivolano verso il pensiero unico. Ciò che troviamo di assoluto in una fotografia, in un testo magari diffuso attraverso questi mezzi immateriali, ha però una forza che supera la barriera dell’indifferenza. Il dolore delle donne e dei bambini, il sangue degli innocenti, i morti sulla spiaggia o tra le rovine, la narrazione delle infinite angherie che uomini infliggono ad altri uomini riesce a colpire per poco tempo le menti. E forse per pochi minuti subentra il sospetto che il mondo in cui viviamo abbia un’ingiustizia diffusa e profonda. Così quando guardiamo il lavoro senza speranza di riscatto di persone immerse nel fango, quando vediamo le città che affastellano catapecchie in cui si ammassano persone, quando si sente il racconto del cammino di fuga dalla fame, dalle persecuzioni di uomini che portano con sé bimbi e donne che sarebbero solo cose se rimanessero dove sono nati, qualcosa in molti si muove. Per poco ma si capisce che questo mondo che viene distrutto per mero profitto, ha in sé qualcosa di profondamente ingiusto. Il povero, il perseguitato, l’annegato, la violentata, l’ucciso dovrebbero maledire, raccontare del loro dolore e rendere tutti responsabili perché indifferenti. E forse lo fanno, forse questa maledizione rende ciechi e inani, guasta il mondo e la vita, rende vana la bellezza, impedisce di cambiare e porta alla distruzione. Non voglio pensarlo, voglio pensare che la somma delle ingiustizie ne generi la coscienza, che il dolore non sia sprecato, disperso occultato, che ogni amore, ogni benessere, ogni tranquillità debba considerarlo per restare tale. Voglio pensare questo perché quella parola: maledetti, non aleggi dove viviamo e neppure altrove, altrimenti non ci sarebbe nessun cambiamento e per le nostre città, nazioni, continenti non ci sarebbe speranza, perché l’indifferenza è il peggiore dei contagi e non ha cura.
omeostasi
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“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità”
Romain Gary
L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.
Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.
Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.
Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.
L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.
La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.
salvare qualcosa
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Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più. Annie Ernaux
A volte il peso dei ricordi è puro e leggero come fieno. Ha profumo d’erba tostata, accoglie e avvolge ridendo. Come la sapesse lunga e prendesse un poco in giro perché alle domande vere non si risponde mai. Al più si ironizza e poi si passa ad altro.
Lei mi diceva di stendermi e si sedeva alle mie spalle, guardavo le vetrine colme di oggetti portati dai bisognosi di comprensione. Guardavo i libri di teoria e di clinica, in italiano e in tedesco e lo sguardo cercava un punto di cesura tra l’essere lì e insieme altrove. Un punto dove si potevano chiudere gli occhi e lasciar fluire le parole. Ha mai osservato che ciascuno di noi parla con una lingua appresa di ciò che sarebbe solo sentire e non avrebbe nome.
Quando usiamo il silenzio per capire o anche non dire, tutto resta dentro e non finisce in un cestino da cui il sistema operativo si incarica di cancellare il contenuto, ma continua a parlare con altri modi e lingue. Quanto di tutto questo è parte di quel non sapere la risposta. Lasciare un traccia di sé fa trasparire il giudizio sul poco che è costato molto. Lei dovrebbe lavorare su questo, dottore, ma come gestisce i silenzi senza premessa, senza il racconto che si blocca dopo aver aperto una storia?
Il cambiamento come possibilità a qualsiasi età della vita, anzi proposto come antidoto alla noia del vivere, alla sua ripetitività è nella riflessione della nostra epoca. Un antidoto all’insoddisfazione, una pezza messa sull’abito mentale che elimina l’infelicità come condizione generatrice di passioni e promette una felicità di diverso colore. Leggo sempre più frequentemente libri che aggiustano la noia e il sé, con l’autocoscienza e il cambiamento, ma attorno la gabbia resta eguale ed è uno sbattere contro il vetro questo mutare senza ricerca di un senso comune. Ho letto una frase illuminante sulla poesia, come ciò che rende illuminato e fuori dal tempo il presente. Una verità improvvisa e disvelata che diviene esperienza. Credo sia questo il mutare che genera passioni e ci porta fuori dai luoghi comuni accumulati come visione di noi stessi e del mondo. Necessariamente noia e prevedibilità perché sappiamo come va a finire. Ecco in cosa dovrebbe esserci una cesura che riclassifica e riordina i sensi e il percepire, il passato e il suo ricordo, come la fine di un amore per un noi che si è consumato e un nuovo amore di sé e degli altri.
Dirsi che dei giorni inanellati senza grazia non è rimasto nulla ed ora tocca ai nuovi.
Lei ascolta me che mi ascolto e in questo dire percepisco la limitatezza delle parole, la loro necessità e il loro limite se da esse non scaturisce passione e vita.
chi è quell’uomo che m’assomiglia
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Posted on willyco.blog 24 gennaio 2016
È giusto si sappia che trattenere la rabbia costa fatica, che restare calmi consuma quantità immani d’energia.
È giusto si sappia che nessuna rinuncia è a basso costo, che la notte o il primo mattino ci sarà un risveglio che porterà il pensiero lì, proprio su quella rinuncia, e farà star male.
È giusto si sappia che per costruire una vita come la vorremmo serve non meno energia che per accendere una stella, ma anche per quello straccio di vita che abbiamo realizzato con fatica serve altrettanta energia e se questa ha un sentimento, è meglio ricordare che è stata irrorata di un amore inverosimile. Senza misura, proprio come quello degli dei. Quelli del nostro olimpo, perché gli altri dei hanno tutti misura e limite.
Se qualcuno l’avesse raccontato, magari insegnato, quando ancora capivo a malapena, non avrei creduto. Non mi sarebbe parsa una grande impresa vivere, ne avrei visto l’eroicità, non la consuetudine, non le incrostazioni, gli obblighi. Avrei protestato la mia libertà facile, la limpidezza di poche idee che non avevano contrasto apparente, non mi sarei fermato sulle contraddizioni, anzi le avrei sciolte con la lieta spensieratezza e coscienza d’ Alessandro: con un colpo netto anche il nodo di Gordio giaceva risolto. E invece poi quelle contraddizioni si sono rivelate la vera essenza di ciò che stava dentro, quello che protestava la sua umanità vilipesa dalle costrizioni, da idee ricevute e stantie, dalle consuetudini.
Allora è giusto si sappia che non è nel distruggere se stessi ma è nell’assomigliarsi la fatica. Che il comporre equilibri esige un’infinita dolce pazienza, un’energia che ordina ad una stella d’accendersi nel cuore e nel pensiero. Che questo è tutto quello che a volte si potrà offrire e quasi mai verrà compreso.