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Informazioni su willyco

mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente. Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo. Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.

distratto, indovino

Non ho più strumenti d’analisi del presente. Quelli della mia formazione scientifica sono arrugginiti, inattuali, difficili da usare dopo tanto tempo e comunque mi lascerebbero vaste pozze di buio. Mi resta la letteratura e la poesia, un poco l’immagine fotografica per analizzare la realtà, come io sono in essa. Consequenzialità determineranno il futuro, sempre più ricco di mistero come s’usa nei tempi in cui correnti e flussi di fatti s’incontrano e si mischiano
Ciò che adopero, distratto indovino, sarebbe sufficiente per un analista ma per un dilettante di auto analisi è il regno del pressapoco e del dubbio. Non disprezzo nessuno dei due, ben conosco il loro limite, eppure contengono molta più verità della manipolazione materiale e immateriale in cui, come tutti, sono immerso.

ti parlo della vita sobria

Il cuore degli uomini, dev’essere in continuazione costruito e confermato.

E’ una verità ambivalente, ostica al desiderio di certezze e d’immutabilità che ci percorre. Da essa è inutile trarre subito dinieghi, basti pensare a quanto dei nostri giorni è rete di consuetudine e quanto si misura con tempi che non sono nostri per desiderio e che neppure, forse, vorremmo. Basta guardare quanto di noi è paziente costruzione, per capire che il rifarsi del cuore è un impegno costante e necessario. Ci si rende conto che l’educarsi al sentimento, all’affetto, alla percezione dell’altro, è l’opera nostra di costruzione del sé. Che questa s’affianca all’opera che altri, ben più forti ed arroganti, mettono in campo: la famiglia, la società che c’attornia, le convenienze, le regole, sino ai limiti fisici nostri confrontati con quanto si giudica forte, bello, adeguato. Chi non è bello secondo i parametri altrui dovrà scoprire la propria bellezza e di questa convincere il cuore per evitare l’infelicità. Come pure varrà, per la forza e l’adeguatezza, il mediare con l’esterno il proprio benessere, sottoporlo, anche quando questo sia precario, a una serie infinita di aggiustamenti che ne consentano l’equilibrio. E ciò vale per le conseguenze della ricerca al ben stare, ovvero il benessere economico, oppure quello affettivo, od ancora quello sessuale, ciascuno di questi esigendo un compromesso tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è davvero. E quanto l’essere sia esso stesso un mescolarsi di evidenza e di parti celate, lo sa il cuore che trova in suo punto d’equilibrio nel parlare con sé, mostrandoci ciò che siamo davvero. Superata l’età della sfida, della ribellione senza pensiero di conseguenza, ciò che viene dopo è un’intrecciarsi di forze, di fili che collegano e tengono, ma che se s’ingarbugliano portano verso nuove, intollerabili, prigioni. In questo c’è un dipanare, un pensiero d’ ordine che cerca di plasmare il tempo e darsi priorità, un prima e un dopo, una valenza nelle persone e nelle cose. In questo ordinare interiore c’è molto del fare e dell’educare il proprio cuore. Usare la parola cuore per ciò che sta nel cervello, significa mitigare la lama della razionalità dalla propria insensatezza, il vincolo che ci metterebbe costantemente in decisioni che, proprio per la loro nettezza, prescinderebbero da noi e non sarebbero parte di quella educazione al vivere bene che in fondo fa parte di tutte le aspirazioni e di tutti gli eccessi che comprendano la vita e il vivere. Ma questo cuore, costantemente rifatto e confermato, è quanto di più nostro abbiamo, quanto possiamo mostrarci per riconoscere il nostro tempo e ciò che siamo e da esso partire per riconoscere come abbiamo vissuto e vivremo.

Se un pensiero mi attrae con maggiore forza, è quello che per scelta, semplifica, riporta a sobrietà il ribollire barocco delle vite, l’uso interiore degli aggettivi (ci sono aggettivi interiori che c’illudono, danno la sensazione d’onnipotenza, portano a crederci eterni) che scatenano la meraviglia fugace e la disperdono in infiniti rivoli di senso, tanto che alla fine, d’esso non resta traccia, inghiottito com’è dal predominare delle abitudini e dei condizionamenti, cancellato dalle pulsioni soddisfatte e subito dimenticate, riportato in una perenne eccitazione al fare confuso con l’essere.

La vita sobria è una vita complessa che si scioglie in pensieri forti senza dominio, che si conforma al proprio tempo interiore e c’accompagna in stanze che si liberano di pesi, in archivi virtuali che s’ordinano ed in scelte che quietano.

Il mio rappresentare le vite come poligoni di forze, sempre mutanti in relazione a ciò che improvvisamente diviene importante e tira in una direzione, non è quello che vorrei, perché è un equilibrio che ferma il movimento e trova un compromesso statico in attesa d’una nuova tensione che rimodelli il tutto, ma vorrei piuttosto il conformarsi ad una vibrazione d’onda che percorra il dentro e il fuori, faccia sentire che si è parte dell’universo e di se stessi assieme e che questo vibrare, talvolta, all’unisono, non è solo la felicità, ma la consapevolezza d’essere all’interno d’un mondo al quale ci conformiamo senza subirlo e continuando a crescere. 

Insomma l’uno che prosegue la sua infinita corsa e ricerca che mai non avrà fine ed il tutto che si disvela mostrandosi per pezzetti di scoperta e meraviglia, includendoci e fluttuando assieme a noi.

Non si esaurisce nulla, il processo (il vivere) continua e sapere d’esserne parte rimodella in continuazione il cuore.

parlare di lavoro

Parlare di lavoro oggi quando, pensando fosse altro, ci è mutato tra le mani e ora la capacità di capirlo costringe a rincorrere i dati più che a quello che essi contengono, ci porta a ipotizzare mondi possibili ed economie alternative che per la loro difficoltà diventano di immane difficoltà realizzati va. A questo si aggiunge la crisi climatica e ambientale che le aziende non hanno capito e non capiscono, ma essa muta il lavoro e la sua condizione oltre che la vita comune.
Deaglio analizza da tempo il lavoro com’è e dice che bisogna partire da come esso è diventato oggi e su questo esercitare una comprensione e una guida che lo muti o almeno ne attenui gli effetti più impattanti in termini di precarietà.
Ad esempio se la competenza diventa rapidamente obsoleta bisogna avere percorsi pagati di formazione continua che siano a carico di chi lucra su queste forme di innovazione e quest’ultima dovrebbe diventare una componente del ciclo lavorativo.
Portare il sostegno a chi perde il lavoro non verso la pensione ma verso un nuovo lavoro dovrebbe essere la caratteristica assistenziale di questo mercato mutato che non si basa più sul lavoro fisso e la competenza acquisita. Mutare in questo modo il mercato tra domanda e offerta di lavoro non può prescindere dalla constatazione che gran parte di esso è ormai concentrato nei servizi e che la manifattura in Italia produce un quarto del PIL.
Tutto questo e molto d’altro giustificherebbe una comprensione della situazione e un intervento da parte dello Stato che progetti un nuovo futuro e non lo subisca. Difficile che lo faccia un solo Stato con successo, diventa più semplice se questo è un problema europeo.
Quello di cui si parla senza soluzioni è che il lavoro, anche quando c’è, spesso non è sufficiente nella sua retribuzione per assicurare una esistenza libera e decorosa. Questa esistenza tutelata solo a parole dalla Costituzione e di fatto negata, anche ora, dai governi, avviene solo per una parte dei lavoratori e segmenta chi è attivo nella popolazione tra chi ha troppo (minoranza) e chi ha troppo poco.
Troppo o poco, in a una società che impone livelli di consumo insostenibili e funzionali a una produzione globalizzata, è che comunque retribuisce troppo poco gran parte del lavoro che impiega. Una via d’uscita sarebbe quella di aumentare costantemente il valore di ciò che si produce attraverso la ricerca e l’innovazione, ma questo è il settore in cui l’Italia spende meno. Altra consapevolezza da acquisire sarebbe quella che il lavoro senza limite a cui viene soggetto chi ha un contratto precario e non solo, isola ulteriormente la persona dal contesto lavorativo e sociale, non diviene parte di un gruppo che produce qualcosa di cui sentirsi protagonista ma è solo un fornitore senza identità collettiva. Questa parcellizzazione della persona che segue le tante altre presenti nella società della realtà digitale, impedisce una crescita comune. Si guarda il PIL ovvero quanti beni e servizi vengono prodotti ma non la società che li produce e così una nazione di schiavi potrebbe avere un pil elevato ma nessun diritto per chi lo ha prodotto. Ebbene una nazione di schiavi ha ancora la possibilità di un senso collettivo dell’identità derivante da una funzione, può socializzare l’ingiustizia e il sopruso e ribellarsi, una nazione di individui in competizione tra loro, con retribuzioni al limite della sopravvivenza non percepisce più l’ingiustizia come fatto collettivo, anzi la ingloba nella percezione normale della realtà. Questo è il campo in cui un nuovo umanesimo socialista dovrebbe esercitarsi.

il racconto unifica i ricordi

Ognuno di noi ha ricordi differenti degli stessi fatti, concatena cause ed effetti sulla base di tesi più che di domande. Forse dipenderà dalle opinioni che si consolidano anche sotto la spinta del pensiero dei media che vorrebbe diventare pensiero comune. E questo pensiero procede per assoluti. Abbiamo vissuto fatti comuni ma ciascuno di noi era diverso e spesso sono le nostre ragioni a prevalere nel giudizio.
Si tende all’elegia di ciò che si è maturato prima di un’epoca senza ideali e con il sé come riferimento. Delle piccole miserie si toglie traccia: disperse all’aria dopo aver ben battuto i tappeti sotto cui erano state messe.
Siamo ottimisti o pessimisti e la realtà è indifferente a ciò che pensiamo, se non per quanto ci riguarda e così nascono i nostri ricordi. Forse per questo servono gli storici e un uso confacente a noi del presente e del futuro. La narrazione è altra cosa e non fa neppure bene, perché il racconto politico sociale unifica i ricordi, fa un fascio delle vite, le sterilizza di ciò che hanno provato e fanno prevalere il più forte, non la verità o la ragione.

la notte regala animali sapienti

La notte regala animali sapienti,
accovacciati nel buio, respirano piano,
ascoltano
il calore della terra, l’umore che sale dall’erba,
il colore sciolto nell’ombra.
Dall’alto sono aggregati di timore,
senso del limite,
e un brivido sconosciuto che avvolge l’ignoto,
La mente interroga gli occhi,
sente il passato svolgendo gomitoli di filo d’argento e nodi d’ambra,
vuole risposte mentre guarda le stelle,
e non riflette, d’istinto è la fuga ciò che l’attrae,
ma qualcosa si forma, sembra, par di conoscere,
l’odorato è l’occhio notturno e mentre cala il fresco dal cielo,
la terra e le cose tracciano mappe di profumi,
si riconosce l’assenzio selvatico, il timo, l’umore dell’acqua,
gli alberi, le resine, i fiori ormai sfatti,
le erbe mischiate, il legno tagliato,
un cigolio che spande il sapore di sangue e di ferro.
Nella notte lo spirito s’acqueta
e le parole si formano libere con la durezza levigata del ricordo,
compitare il senso è confondersi nel buio,
gli occhi spalancati bevono frammenti di luce e odori,
mentre lontano, ma appena oltre la mura,
rumore di vite, d’altri passati, emozioni e paure intrise di gioia,
dicono senza dire,
perché solo la disperazione di non essere
uguali e differenti,
il cuore riempie di timore.

estivo salmo laico

Libera i nostri occhi dal calzino bianco nella scarpa nera, dai sandali col fantasmino, dai calzoncini al ginocchio e dalle loro gambe bianchicce e magre.

Suggerisci agli spiriti estivi la libertà della noncuranza elegante che allieta l’anima e il suo trasparire.

Fa che i corpi siano liberi dove possono rifulgere e stiano bene negli abiti che li accompagnano tra gli altri, senza voler loro dimostrare nulla.

Lascia che i colori riposino nel pantone, che gli abiti lascino guardare i visi, che la bellezza trovi se stessa senza voler assomigliare a chi non è.

Difendici dai pois e dai quadri scozzesi messi nei posti sbagliati dai cervelli dei corpi indifesi.

Tieni a bada i forti colori nelle città che si sciolgono al calore delle nuove torride estati e portali in vacanza verso il mare.

Fa che i cappelli siano sbarazzini e sobri, che esaltino i visi, portando la loro luce a chi li guarda.

Fa che non incontriamo persone in costume da bagno nei sentieri di montagna come non incontreremmo bagnanti con scarponi in spiaggia.

Difendi l’estate dei nostri corpi dal cattivo gusto e toglici dal suscitar ridicolo in chi ci vede.

Fa che siamo uomini di scarso giudizio e di grande tolleranza, che gli occhi siano allegri come i pensieri, che il sorriso accompagni ogni sguardo, il silenzio ciò che non si condivide e l’ironia il dir di sé.

Il tempo muta gli uomini e ciò che essi fanno, il sole abbronza la pelle, scolora le cose, decompone la plastica, accartoccia la carta e ciò che essa contiene, rende inutile ciò che prima era importante alla vanità mentre esalta l’ombra e il vento fresco di una finestra che parla con un’altra in tramontana. Rendici consapevoli che ciò che cambia il mondo in peggio deve suscitare ripulsa e non supina accettazione.

Fa che lasciamo tracce leggere con le nostre parole, perché esse, come alito, se profumano di menta e di fresco, rendono più bella la vicinanza e dolce il comunicare.

accompagnando il tempo

Accompagnando il tempo,
ho appreso del vetro la nascosta natura,
il suo prefigurare la vita,
indifferente al distratto sguardo,
forte nell’essere, dapprima, liquida e splendente,
poi cristallo che piano muta verso l’opaca luce.
Così il secolo feroce che non finisce, rovista nelle vite immemori,
mostra bagliori che non si ripetono
e domanda, chiede,
con impetuosa insistenza di non esser solo testimoni.
Fragile e duro, sono, nel tener racchiusa
la piccola consapevolezza d’essere,
d’esser stato altro e di voler essere futuro. E alzo lo sguardo alla realtà,
al presagire inutile
capendo che nella fragile paura
s’annida il coraggio del vivere e lo sperare trasparente.

la tua estate

L’estate la desideravi negli acquazzoni di giugno, la trovavi nell’odore di cloro dell’acqua della piscina, nella sera quando i muri emettevano calore e ci si sedeva sugli scalini di fresca trachite, a parlare di ciò che mancava nelle nostre vite. L’estate era nei pranzi che facevi da solo, nelle scatolette di tonno con salsa e piselli, nel loro pessimo sapore di unto e di latta, nella fame che s’era accumulata in una infinita nuotata. L’estate era l’ombra dei portici alle quattro del pomeriggio, era l’alito di muffa e di fresco che veniva dalle grate delle cantine, era suonare un campanello per cercare qualcuno che era già andato via.

L’estate ti prendeva a tradimento, sembrava che fosse lenta ed era un fulmine di caldo, ti faceva domande a cui non sapevi rispondere. I giorni correvano pregni di sudore, desiderando il buio, le camminate nella notte, le sedie di legno dei bar già chiusi, da solo o in compagnia, ad attendere qualcosa che doveva farsi esatto, una scia nel cielo, un segno, un presagio. Era estate e non s’era sentito il suo passo lento, il vestito leggero, il profumo di pelle sudata, la sequenza d’ombre e sole che spingeva verso i muri sotto i portici.

Sarebbe arrivato agosto, il mare, la pelle ancora più scura, esposta, nuda nel giorno e nella notte, il salso che si screpolava, che tirava e poi prudeva, i giorni già più corti, pieni d’una luce che non finiva mai, con la sabbia tra le dita, poi nelle lenzuola di lino fresco, e un prendere a calci il tempo per gettarlo innanzi, oltre una duna, un casotto, una pianta arsa e feroce di spini, un richiamo a cui non badare.
Il giorno iniziava presto, il sonno scioglieva nella notte e nel fresco la stanchezza, poi c’era il profumo del caffè, la luce che premeva sugli scuri accostati. Sentivi il suo richiamo ad uscire nel profumo del sole, violento, possessivo, privo di pudore. Il sentiero tra le dune già scottava, attendevano giochi ormai adulti, e presto la sabbia ricopriva la pelle, c’era l’urgenza del mare, anch’esso gioco e indiscreta bellezza, le corse, il gettarsi nell’acqua, il riemergere con gli occhi pieni d’acqua e di luce.


La città paziente, attendeva i ritorni. Scompariva dal ricordo, lo sapeva. Si consolava con il brivido delle lucertole che uscivano dalle crepe degli intonaci roventi, guardava con gli occhi dei vecchi dietro le imposte accostate, il giorno che scorreva nel sudore dei pochi rimasti. La sera le rondini davano spettacolo, pochi le vedevano attendendo il cielo della notte per uscire, poi una spuma fresca, una fetta di anguria, i semi sputati, rimandando il riposo difficile nelle case. La città strascicava il tempo, lo offriva lento a chi era rimasto, sapeva distrarre gli amanti tra schiocchi di vecchi mobili e lo scorrere d’aria delle finestre “in corrente”.


Tu, assieme agli altri, i lontani, saresti tornato con l’estate non ancora finita, le piazze si sarebbero di nuovo riempite la sera e i portici cercati per l’ombra nei pomeriggi infuocati. Avevi storie da raccontare, pensieri nuovi da fare, silenzi da imparare, la notte veniva prima ed era più fresca. Odori e profumi si mescolavano, andavi a letto sempre tardi, l’estate non finiva mai.

28 giugno 1914, a casa…

Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. Il nonno e’ un giovane uomo, ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ha molta vita sulle spalle, come accade al suo tempo, decisioni e indipendenza, tutto presto. Lui e i suoi fratelli sono emigrati pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a gestire la locanda di famiglia, l’appalto dei tabacchi, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati.

Di Sarajevo non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino che ne avrà parlato con la nonna, accennando al fatto di sangue che riguarda un impero vicino, ma senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città, con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Serbia, chissà dov’è. Un Paese di pecorai, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina. Tutto lontano. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può venirne a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta.

Venivano da anni prosperi e felici, erano persone normali e un po’ speciali, avevano coraggio: il futuro sarebbe stato positivo. Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, penso, che si fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare un’attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina oltre il san Michele, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto. Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava, e le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, era con grande tenerezza. Lei, che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.

E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia, ma il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, però non lo sanno e non toglie I sorrisi. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola, grande felicità, in una domenica di giugno di cento nove anni fa.

un paese di vecchi

Diciamo la verità, questi vecchi che bazzicano la politica e le televisioni, non solo hanno stancato ma non sono mai piaciuti. Sono ridicoli quando cercano di fare i giovani, hanno ricette per tutto, ma soprattutto non mollano il potere reale che gestiscono. Ostentano saggezze che i loro gesti contraddicono, raccontano storie che non sono la loro vita, si ammantano di conoscenze che non hanno previsto nulla di quanto accade. Sono pervasivi, occupano i posti nella comunicazione, nella narrazione della politica, non vanno in pensione, casomai fanno finta di farlo e cambiano lavoro togliendo spazio a chi vorrebbe averlo. Ex direttori di giornali ora fanno gli storici, ex giudici sono ministri di giustizia, deputati e senatori, ex imprenditrici fallite dovrebbero rilanciare il fascino italiano, vecchi industriali hanno ricette per governare il paese dopo aver ceduto le loro imprese, tutti sanno tutto e non stanno zitti.

Pensate alla funzione di Vespa e dei tanti sosia da lui generati, in questa realtà così composita, difficile, divisiva, pensate al ruolo che hanno avuto, a come è stata raccontata la realtà del potente di turno, quanto posto gli è stato dato per le sue narrazioni sino a confondere gli spettatori nel percepire il futuro come un apocrifo del presente. Nessuno di questi ha migliorato il paese, non c’è più solidarietà, più senso critico, una percezione equilibrata della realtà.

Il grande imbroglio è cresciuto con gli anni, e ha fatto danni ovunque a partire dalla politica sino a far scordare cosa sia il senso del potere come servizio. Nella sinistra ha cancellato la diversità, l’orgoglio di essere tale, annacquando la sua identità e facendole desiderare di essere ciò che doveva combattere. Il vecchio per restare al potere fa scegliere il nuovo per il nuovo, in specie se disgiunto dalle vite e dai bisogni concreti.


Questo è un paese di vecchi, lo dice la demografia, con pensieri vecchi e amnesie frequenti, che rifiutano di essere tali e di analizzare ciò che accade davvero, dovrebbero essere saggi, donare il sapere accumulato, ma in una società dove vale il singolo, l’io che non si cura del prima e del dopo, i vecchi sono un peso o una minaccia. Chi è forte e ha potere, glorifica se stesso, stipula alleanze senza limiti di età purché funzionali ad eccellere sugli altri, ad usarli finché servono. Questo ha un curioso effetto che genera un’eugenetica surrettizia esercitata in modi diversi a partire dalla solitudine dell’io. Per chi non ha potere, c’è la coscienza di essere parte di un mondo che gli diminuisce la sua comprensibilità e in cui è difficile trovare un ruolo. Chi possiede affetti veri ha la possibilità di sentire l’età come possibilità di un nuovo sconosciuto, se c’è chi si prende cura di lui prosegue una indipendenza di pensiero e azione, trasmette cultura sociale, è tramite per una continuità di valori. Altri, invece, e non sono pochi, vengono travolti da un sistema burocratico che medicalizza la solitudine, diventano incapaci di tenere un ritmo che enfatizza la quantità sulla qualità, si isolano da un mondo di finti giovani e popolato da vecchi abbienti e determinati a fare i propri comodi e dimenticarsi degli altri. Assentono ai vecchi che non si pensano tali per il potere detenuto, diventano inermi, attendono, si lasciano andare rassegnati. Questa è l’eugenetica che viene praticata e non è poco crudele, ma insensata e inutile. Generatrice di anomia e di decadenza sociale.