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Informazioni su willyco

mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente. Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo. Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.

divagare verso sera

Ho letto a lungo. La luce ha tagliato la stanza, mi ha raggiunto, avvolto, abbandonato. Cercava curiosa le cose. Sembrava riflettere sul loro ordine perché si soffermava sulle pile di libri, sulle riviste, sugli oggetti messi in attesa. Ha percorso tre pareti prima di assumere una gradazione pensosa. Le nubi assorbivano il tramonto. In questa stagione rifulge di rossi e aranciati prima di scivolare verso le tonalità del blu. Già si vedono le stelle e l’impero della luce traccia le linee dei monti, attende la notte. Seguendo la luce, lo sguardo si è alzato dalla pagina, e sollevato dalla distrazione dal testo si è sentito libero. A volte il bello della scrittura, la sua precisione nello scavare e nel descrivere le altrui emozioni genera fatica e chiede di poter fare propria la bellezza e la bravura, ma prende, coinvolge profondamente, affatica. Così ho visto le piante aromatiche sul balcone. Ciascuna di esse aveva la difficoltà dell’estate, la lontananza dalla serra che le ha partorite. Le loro foglie sono poca cosa rispetto all’opulenza del sottobosco, i prati  stanno riprendendo il sopravvento sulla terra rasata, mentre il fieno dell’ultimo taglio non è ancora nei fienili. Fiori ed erbe trovano equilibri, succhiano con decisione la vita, esondano nel sottobosco, gareggiando con miriadi di felci ed erbe da ombra e fiori e orchidee selvatiche. Le mie aromatiche si accontentano di una vita modesta in attesa di nuovi spazi e fanno il loro lavoro, con dedizione e umiltà pensosa. Dialogano con la luce e l’acqua, con il mio sguardo, chiedono comprensione per la fatica di vivere e regalare profumo. Però sono amiche della notte e i loro sogni sono nel profumo che si fa più intenso mentre il buio avvolge la stanza e le cose. La notte cancella l’ordine e il senso, fa emergere altre guide per i pensieri di chi ancora non ha sonno.

E il riposo è lasciar scorrere nuove regole, togliere barriere e prima di dormire alzare gli occhi al cielo per cercare la luna. La stessa che in questa notte, molti anni fa, veniva toccata per la prima volta da un uomo. Impieghiamo troppo tempo a lasciarci cambiare dai fatti, l’uomo non è diventato migliore da allora e ancor oggi un libro può spostare più a lungo il pensiero di un’impresa. Così le vite, nel loro mistero, racchiudono più desideri e sogni di quanti ne contenga l’orgoglio e la tecnologia che diventa storia.

disinteresse

non nobis

Le mie, le tue, erano spesso virtù ineguali,
lasciate all’estro che pescava dal profondo,
e di tanta oscurità il colore ne soffriva,
il voler essere cangiante era prigione:
parlavamo d’altro eppure eravamo incredibilmente prossimi e vicini.
Chi s’intendeva di magie avrebbe conosciuto l’assonanza,
non noi, così aperti e chiusi,
non noi che donavamo senza risparmio e conto.
Eppure di quella necessità d’essere riluceva l’assenza,
il grido acuto che non aveva parole,
non ancora,
o forse mai.
Nell’occasione ripetevamo l’io, la necessità, il bisogno,
mentre da tutto il vero urgeva il noi,
l’allacciarsi nell’assoluto, e ancora il noi.

l’ultima pioggia d’agosto

Verrà l’ultima pioggia d’agosto, asciugherà l’aria, schiaccerà rivoli di polvere nel ferro grigio dei tombini, dalle pareti delle case solleverà l’odore di calcina mescolandolo con l’acuto ozono dei fulmini vicini.

Verrà l’ultima pioggia d’agosto, scriverà sulla sabbia con lettere cerchiate, consumerà i castelli dei bambini che il mare aveva risparmiato, mostrerà infinite bolle nelle pozzanghere ai rifugiati sotto i cornicioni.

Verrà l’ultima pioggia d’agosto per confondere il caldo dei telegiornali, toglierà ai giorni il ripetere attonito dei mattini, farà scordare l’abbraccio dell’estate, porterà il desiderio dell’azzurro oltre nubi gonfie di grigio, attiverà speranze di fresco, ricaccerà gli alpinisti nei rifugi.

Verrà l’ultima pioggia d’agosto a promettere frescure serali e sole ardito il giorno, verrà a raccontarci l’estate, la breve malinconia dei distacchi, appiccicherà gli occhi e le magliette sulla pelle, farà sorridere i ragazzi e i vecchi, spazzerà le menti dai pensieri grevi di calura.

Verrà l’ultima pioggia d’agosto a distruggere il profumo dei capelli e della pelle arroventata, fermerà le bici nei garage, nasconderà i bikini in vestiti di cotone, libererà la spiaggia dall’odore delle creme, chiuderà gli ombrelloni in file piene d’attese.

Verrà l’ultima pioggia d’agosto a liberare le notti al sonno, mostrerà la città fuori stagione, solleverà telefonini per raccogliere stupori, colorerà i tuoi occhi e neppure t’accorgerai che il mio sguardo sotto la pioggia bagna la pelle.

difficile e predittivo l’inizio

nel labirinto

Mi piacciono i quaderni grossi di pagine bianche, prendere la penna e scrivere, è un atto di libertà che devo a me, solo a me. Cosa condividiamo anche con chi ci è amico ? Le fatiche? La quotidianità? Oppure a volte sono le riflessioni che ci hanno fatto capire chi siamo ora rispetto a un allora che aveva altre ansie, incompletezza, rossori diffusi, richieste urgenti, voglia di vivere. Ciò che neppure si capiva sembrava indifferibile e urgente. Inseguire le notti, i giorni, i luoghi, gli affetti, l’amore che coagulava imperioso e spavaldo, lasciandomi attonito di tanta bellezza. Eppure erano anni pieni di asperità, mai facili, a cui sarebbero segui anni altrettanto complicati. I fallimenti sono una buona occasione per cominciare qualcosa di nuovo con la consapevolezza di ciò che è stato e invece spesso sono una coazione a ripetere. Allora c’era del buono anche nel processo non solo nei fatti e perché non si guarda bene cosa ci corrisponde in quel mettere assieme azioni in un determinato ordine, seguendo conoscenza e desiderio, perché in quella sequenza si trova un noi che si cela nel profondo e scrive sempre tra le righe dei diari. I conti con il passato si abrogano non si chiudono perché dentro di noi troveremo sempre un adesso figlio di quell’allora.
Mi è stato detto che devo amarmi come sono, nessuno mai riflette sul fatto che noi siamo amati o amiamo per scelta emotiva, per affinità interiore. Allora penso che amare se stessi non sia quel processo amoroso che conosciamo verso o da altri, ma sia qualcosa di diverso e personale. Amarsi significa scendere nel profondo, capire qualcosa, risalire e poi cercare di assomigliarsi sapendo che c’è molto da scoprire e che non si finirà mai. A questo dovrebbe servire il comunicare, a superare l’apparenza e il dovuto per dire e fidarsi di chi riceve il messaggio. Ciò che scrivo è parte di me ora, come lo sono stati innunumeri foglietti, appunti, folgoranti intuizioni. Una scia di carta e inchiostro, di emozioni provate e tutte apparentemente perdute, ma per vie recondito e parziali, parte di me ora. Conservo molto e quando rileggo riconosco che la strada fatta è stata uno scavare nell’essenza delle domande, che all’osso, le parole sono immagini criptate e depositi di senso. Abbiamo codici comuni traballante ed equivoci, così ho capito che ascolto volentieri gli altri, che le vite si svolgono e si assomigliano, che l’intuizione è fallace, che non finisce mai di stupire ma che è ciò che si capisce e la leggerezza che contano. La leggerezza è sapere cosa conta e vivere tutto quello che ci viene dato o scegliamo di cercare. La leggerezza è il proprio tempo che viene lasciato scivolare via perché ce n’è ancora e poi ancora. Penso abbia a che fare con la meditazione che porta all’innocenza, la leggerezza, so che fa star bene, che a volte si crea, ma spesso è un desiderio che si esprime in altro modo. Penso anche che la leggerezza genera stupore dell’altro, delle cose, dei particolari che contengono ciò che si cela alla distrazione. Penso che ci sia un dire che si capisce e rispetta chi ascolta, che la comunicazione sia questo e altro. Seguo il filo del pensiero e già la parola si sofferma, guarda e vorrebbe ascoltare, è nel labirinto senza Arianna per uscire deve volare. Ha bisogno di liberarsi della tristezza e del non fatto, dello stesso raccontare con un fine. E se è libera, ascolta e vola e dentro genera pace.

vanitas vanitatis

la superiorità biologico-temporale del pensionato

Il pensionato è appoggiato sul banco posta e si protende verso il cassiere rassegnato. Terribile nella sua calma inquisitoria, il pensionato, vuole sapere, conoscere, capire. E dietro la coda si allunga. I “giovani”, gli occupati, hanno dischi orari che scadono, appuntamenti che evaporano, sequenze di tempo che saltano come tappi di champagne a capodanno. Soffrono ciascuno per sé, e collettivamente per sguardi e sospiri, consultano orologi inadatti, collegati ad altri tempi che qui corrono troppo. Avete mai osservato come l’orologio, soprattutto nell’uomo rappresenti il suo modo di vedere e di essere nel mondo? Ecco, il mio vicino ha un bellissimo Piaget, non è abituato alla fenomenologia del pensionato, consulta due volte e chiede del direttore. Ci abbandona e scompare negli uffici, seguito da una nuvola di terre di Hermes. Il pensionato è curioso, fa ancora domande e annuisce. Caspita capiscono tutto questi pensionati, tutti laureati alla London school of Economics, ma intanto ho guadagnato un posto, quello del Piaget. Guardo i vicini che allacciano rapporti silenti alla Desmond Morris, comunicano attraverso microgesti di stizza e rassegnazione, meta sorrisi, smorfie coordinate allo scuotimento del capo. Tracciano grafie d’aria, esprimono frette incoercibili con piccole rotazioni di polso, tamburellare di dita su carte, gesti che si polverizzano nei pensieri convulsi.

Il pensionato ruota di un quarto il bacino, sposta verso l’esterno una gamba, un brivido percorre la fila: ha finito. Falsa speranza, era il femoredolente: riappoggia il gomito, si continua.

La fenomenologia del pensionato non prevede che questo si presenti agli sportelli bancari alle 8.35 del mattino, a quell’ora sta facendo colazione, oppure affolla qualche ambulatorio; no, in banco posta va prima di pranzo e si porta il libretto di risparmio ben avvolto in carta di giornale. Così se il pensionato deve aspettare, ha cosa leggere, non noi. Non nobis domine, non siamo adeguati per tutto questo. Il pensionato ha riconquistato il suo tempo, invece, la fila disorientata e disperata che si allunga, che vede defezioni, che teme deiezioni, alza gli occhi al cielo, s’innervosisce, se la prende, scopre che non ha il dominio del tempo ed è destinata al naufragio delle priorità, all’incapacità di relativizzare, al precipitare nelle ultimative urgenze. Vorrebbero tutti occuparsi d’altro dislocando pensieri e coscienza, ma non si riusce, il pensionato ci ha nel pugno del suo tempo.

La posta risparmia personale e coercisce i clienti, la fila è ormai di dieci persone ciascuno con un biglietto numerato: inutile è la posta il nemico. Non il cassiere che vorrebbe scomparire sotto il bancone, ma la posta che non dà il servizio, che si atteggia ad istituzione mentre taglieggia e dispone, dispone di tutto, delle nostre possibilità, dei soldi e, adesso, anche delle nostre vite attraverso il tempo. 

La fila ondeggia e spera, pare che adesso il pensionato abbia finito. Sta contando con attenzione il denaro che gli è stato dato, lo mette nel libretto, avvolge con il giornale ed allunga la mano sotto il vetro che lo separa dall’impiegato. Un brivido percorre la coda, se s’impiglia nella fessura siamo definitivamente fritti, invece con abilità estrae le dita, incurante d’artrosi, ringrazia e si volta.

E ci guarda. Tutti. Stanchi e nervosi, ci guarda con due stupendi occhi azzurri e ci libera, noi prigionieri del suo tempo quantico, della posta, degli appuntamenti, del parcheggio scaduto, della multa probabile, del telefonino brandito come chiave per riordinare la vita, ci libera consegnandoci al nostro destino. E lentamente, ma mi pare di cogliere un lampo di commiserazione, se ne va, lasciandoci alla speranza che improvvisamente il tempo, compresso come una molla, possa farci riconquistare la vita giornaliera perduta.

Il tempo si è ulteriormente accorciato, tutti uccideremmo se qualcuno passasse davanti. Forse ci siamo un po’ stretti per sembrare in meno, ma mi pare d’aver già finito e ho cinque persone davanti.

Una ragazza, con una mazzetta di versamenti si precipita dal cassiere, enuncia le operazioni, il cassiere, che non deve più spiegare, chiede a sua volta, manca un codice. La ragazza telefona, cerca, aspetta, è nervosa e in silenzio. Ci guardiamo. Subentra la disperazione, mentre attraverso le finestre, si vede passare il pensionato nel sole.

umano non è mai troppo

7 giugno 2024

Stasera eravamo in piazza più o meno come in quella sera di 40 anni fa, forse 5000. Allora una settimana dopo, i 5000, a Roma, furono più di un milione a seguire i funerali. Stasera nella stessa piazza di allora, non pochi volti sono gli stessi di allora, solo invecchiati. Non c’è più il PCI ma le diverse anime ancora lo sentono. Non tutti erano amici di Berlinguer, in direzione era andato in minoranza, troppo impegnativo, troppo comunista ma il popolo lo capiva e lo amava.

Di quei giorni ricordo molto e ancor più la sensazione che cominciò a crescere a partire dai basta che volevano farlo smettere quando si vide che stava male. Quell’ultimo incitamento a convincere gli indecisi si mescola a alla preoccupazione, poi le notizie, prima frammentarie e nella notte più certe : Berlinguer era in ospedale, operato, ma non era morto. Chissà, forse c’era speranza.

Dal momento, erano le 7 del mattino seguente, in cui iniziai il servizio d’ordine in ospedale fino all’epilogo corsero tre giorni. Tre giorni fatti di visi importanti per la sinistra, entravano Pertini, Pajetta, il Gotha della politica nazionale, i dirigenti. Con grande compostezza, la famiglia.

A noi, che eravamo fuori ad arginare gli intrusi, sembrava d’ essere una membrana osmotica umana tra un dolore che riguardava chi l’aveva conosciuto e vissuto da vicino e gli altri che erano fuori, ad attendere notizie. C’era un gruppo di persone che si rinnovava, ma restava costante, folto e silenzioso. I molti senza potere che forse l’avevano votato, ma l’avevano parimenti vissuto, intuito e sentito come la parte buona del Paese.

Poi ci fu il giorno della morte e l’inizio di un funerale che cominciò a Padova e finì a Roma due giorni dopo. C’era un’acqua battente, quel giorno in città, facevamo cordone, zuppi, con una folla che cresceva, che voleva accompagnarlo. La stessa che per giorni aveva atteso sul piazzale moltiplicata per cento e che diventava fiume, che lo portava verso Roma.

Rischio molto a ricordare con i sentimenti di allora, ma fu quello un momento di consapevolezza per come avrei voluto essere, un sentire che è continuato. E non era solo una questione politica, ma la vita, la responsabilità, la società che ne derivava erano state proposte nelle modalità giuste. Si poteva derogare, far diverso, ma il giusto si sapeva qual’era. Austerità nel vivere e nel consumare, quella di cui oggi non si parla più perché dalle menti si è abrogsta la fame e la povertà altrui. La lotta alla corruzione nella cosa pubblica e nei partiti, che adesso come allora si chiama moralità, i diritti delle donne, la crescita individuale e collettiva basata sulla conoscenza, la difesa dei diritti dei lavoratori e del lavoro, l’eguaglianza, la libertà tra i popoli, la pace e il rifiuto della guerra. Nel discorso all’Eliseo del ’77, c’era un programma sociale per il Paese, per un’Italia diversa e giusta e il PCI perse 4 punti alle elezioni. Non vennero accettati quei principi, quei pensieri lunghi che facevano, e fanno ancora la differenza. Dopo la morte di Berlinguer, tra le cose che furono eliminate presto, ci fu la diversità, e invece in un paese conforme, sempre dalla parte del vincitore, disposto a giustificarlo sempre e comunque, la diversità serviva.

Qualche volta mi chiedono perché ero comunista, come se pensare all’eguaglianza, al diritto dell’uomo di essere pienamente tale, alla solidarietà, alla liberazione dalla schiavitù dei rapporti di subordinazione di genere e di classe siano cose non più necessarie. Con pazienza spiego che non è un’ubbia da giovani, un modo di non riconoscere la realtà, ma proprio il modo di vederla e di pensare cos’è giusto e cosa non lo è. E magari aggiungo che Berlinguer queste cose le mostrava con le parole e con l’esempio. Stasera c’erano anziani e giovani in piazza, c’erano le bandiere della diaspora, almeno 4, perché Berlinguer non era di nessuno e neppure oggi lo è, però quello che diceva, l’esempio che portava nel fare politica, quello è di tutti. Per questo mi piacerebbe che molti giovani lo conoscessero, perché il suo modo d’essere, era il loro, con la visione, l’entusiasmo e la fede nel cambiare che solo i giovani o chi resta tale, possono avere.

“Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La prova per questo obbiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.” Enrico Berlinguer