lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

prima del temporale

Mangiavo piccoli dolcetti al cacao: cocoa short bread cookie. Fernet e caffè. Nel corso passavano ragazze con vestiti estivi corti e leggeri. Parlavano fitte, ridevano spesso. Qualcuna gesticolava e si toccava il corpo: stava raccontando qualcosa di sé. Gli uomini si fermavano tra una boccata e la successiva. Anche loro ridevano spesso, ma era una risata meno leggera, pesante di sottointesi.

Il mio sigaro era di dolce Kentucky, poco invecchiato. Lasciava un fumo denso e aroma nell’aria. Lo seguivo con lo sguardo e mi pareva un bel momento.

Appena oltre le case, con i balconi pieni di gerani rossi, s’annidava il rumore di chi andava di fretta. La città era nata dal gioco di un gigante che tirando linee dritte e curve, infine, aveva tracciato una spirale ed io ero al centro di quel dipanarsi di luoghi, ma anche sulla retta del corso. E lì ho visto staccarsi le ore nell’aria che non voleva cedere al temporale. Era così limpida e piena di tanti piccoli suoni tiepidi conosciuti, che si bastava. Tutto si accordava nell’attesa di qualcosa. Ho pensato. E tutti, quelli seduti e quelli che passavano, sapevano cosa sarebbe accaduto, ma lo stesso erano attenti anche se ostentavano una distratta noncuranza. Forse per questo, o per aggrapparsi a qualcosa di ben noto, il cigolio degli ingranaggi del campanile, sollevò ironici commenti. E qui ci starebbe un eppure, ma tra il rumore secco delle chicchere nel secchiaio del bar, risuonò alto un evviva! con quel tono squillante che hanno i tenori di coro. Si brindava al momento, alla presenza, a chi pagava, forse anche ai seni della barista. Qualunque fosse il motivo si sciolse un arcano maggiore, mentre cadevano le prime gocce di tiepida pioggia.

coraggio

C’è più coraggio in un riconoscimento di insufficienza e quindi nel ripiegare sulle posizioni più sicure, oppure nel tener testa, combattere oltre quello che si pensava e non recedere? Ognuno ha una sua risposta e vale sempre in quella vita che non è solo battaglia e tanto meno eroica. Penso alla vita quotidiana, alla difficoltà di fare il proprio lavoro oltre il minimo lecito, alla necessità di dire se si ama o meno una persona, al mettersi contro chi aggredisce portando idee trite e ritrite e magari approfitta del consenso intorno. Penso anche che il coraggio sia una scuola, ovvero che non valga il teorema di don Abbondio che chi non ha coraggio naturalmente, non se lo può dare. Se si viene educati al coraggio di dire ciò che si pensa, al tenere fede alle promesse, se si ha l’educazione a non compiacere ma a dire la verità, sopratutto nei sentimenti, non si è più felici, ma di sicuro più forti e coraggiosi.

Perché val più chi fugge, chi è un tartufo, chi accondiscende, chi si mimetizza, chi non dice la verità? Bisognerebbe rispondere a questa domanda perché il coraggioso alla fine sembra un visionario, un illuso, spesso un imbecille che non bada al suo tornaconto e allora se è così perché il coraggio non viene derubricato dalle azioni possibili e semplicemente si fugge. Si fugge tutti, da ogni difficoltà, da ogni impegno, da ogni fatica senza pensare che ci sarà qualcun altro che la farà al nostro posto. Perché dovrebbe essere normale un mondo in cui è normale che qualcuno si sacrifichi al nostro posto? Un bel mondo di ignavi, dove ciascuno pensa a sé e se c’è bisogno si sta zitti perché aiutare, fare ciò che non è richiesto è comunque una forma di coraggio. È questo che si vuole? Bisogna pensarci perché su questa strada siamo avviati da tempo e i coraggiosi vengono trattati da imbecilli.

il sostenibile peso del divagare

È un cono panciuto, soddisfatto anticipatore di una forma alla Norman Foster (30 St. Mary Axe, London), solo molto più piccolo e meno fallicamente evocativo. Ha più di 250 anni, certamente fatto a mano con notevole, perduta, precisione. Probabilmente passato con un tornio ad acqua per lisciarne la superficie dopo la fusione ad anima persa. È almeno del ‘700 e veneziano. È un peso da stadera, non piccolo come un suo fratello tondo e ottocentesco. A fatica sta nel cavo della mano, e pesa: la cera persa è stata sostituita da un’anima di piombo che lo rende inaspettatamente consistente. Segno, quest’ultimo, che era destinato a una stadera per pesi notevoli. Sulla superficie d’ottone brunito ci sono i segni dei verificatori del peso, il leone di San Marco e forse il marchio del balanzėr. La Repubblica non aveva pietà per i truffatori e i falsari e, al contrario di quanto accade ora, il commercio aveva bisogno di un potere che gli desse certezza non il contrario. Ci provavano a frodare, ma se presi, la pena era severa. Non ci sono tracce di verifiche ulteriori, austriache o sabaude, e forse da un uso pubblico è passato ad uno domestico. Onorato servizio prima di perdere funzione. Non per sua responsabilità immagino, forse cedette il piatto della stadera, più debole e suscettibile d’essere venduto al peso d’ottone, oppure l’asta incisa fu soppiantata dall’arrivo di Napoleone e dal suo sistema metrico. Sono per questa tesi, e per una sua graduale uscita di mercato. Pur essendoci tracce di once e libbre nel dialetto di casa, una bilancia doveva misurare chili ed etti dopo il passaggio dei franzosi. E mi i piace credere che abbia fatto parte dello sconquasso, che sia stata questa invasione che lo mise in disuso e che per fortuna e dimenticanza sia giunto sino a me. All’inizio, dopo averlo scoperto, l’ho pensato fermacarte. Peso e forma aiutavano, ma in questa casa di carte non vola più nulla e lui scompariva nello scrittoio sepolto tra cose meno nobili e troppo ciarliere. Stava per suo conto, corrucciato di non essere riconosciuto, insomma non era al suo posto, e non è stato contento finché dopo vario peregrinare non è arrivato sulla credenza, prima col fratello tondo e ottocentesco, poi da solo.
Vicino alla sfera ha una sua forte personalità e il colore si avvicina a quello del legno su cui poggia con propri lampi di lucentezza quando il sole lo colpisce. È presente senz’essere tronfio, eppure di cose ne ha viste. L’ho immaginato al mercato di Rialto che pesava verdura e frutta di sant’Erasmo, o pesce di mare di Chioggia, ancora vivo, oppure carne che veniva dalle mandrie portate dall’Ongaria dopo un viaggio di settimane. La sera appesa la stadera per il gancio, penzolava alla fine dell’asta in attesa del giorno seguente per riprendere un lavoro fatto di maestria nell’equilibrio, perché la truffa non era tanto nel peso ma nella velocità con cui questo sull’asta si muoveva per segnare un equilibrio inesistente e vantaggioso. Era un tutt’uno col braccio e la mente del commerciante che doveva dare la sensazione del giusto, rubando sul peso.
L’ho pensato a Rialto o in un campo veneziano per il suo essere poco sensibile al salso, per quell’anello a losanga sbozzato a lima e levigato dall’uso. Particolari che lo retrodatano e lo portano nella bottega di un balanzer come quelle che c’erano fino a pochi anni fa al limite del ghetto a Padova o sulla riva vicino alla Misericordia a Venezia. Sono testimoniate dalla difficoltà di fare fori netti, di lavorare metallo di fusione con attrezzi piccoli. Se non a Rialto lo penserei in piazza delle Erbe, sotto il Salone, a Padova, oppure in mezzo ai colli da dove viene la mia famiglia, che era pur sempre di commercianti, anche se poi sciamati e incuranti delle cose. Lo penso in un luogo in cui si mescolano nobili e plebei, costretti dal piacere del cibo e dalla necessità di vederlo, uniti nell’usare il giudizio per valutarlo, nel tenere a conto l’andamento del prezzo e quindi del tempo politico e delle stagioni. Il mio peso è stato testimone muto di un evolvere d’epoca che noi collochiamo in un tempo remoto, ma che nasce meno di una decina di generazioni fa.

Antonio era figlio di Giovan Battista che era figlio di Antonio che a sua volta era figlio di Giovan Battista e così via a risalire nei secoli.

E lui, il peso di stadera, rappresentava la fortuna o la difficoltà di vivere. Il suo lavorare, il suo cercare un equilibrio, il suo muoversi veloce certificava l’onesta o meno del suo padrone.

L’equilibrio, il peso, la misura, in sintesi la metafora del giudicare sé e gli altri; la vita come la si interpreta, insomma. Ma non esiste una morale, né una conclusione, le cose hanno il significato che attribuiamo a loro, racchiudono ciò che noi vogliamo vedere. E così io vedo Rialto, sento le voci che magnificano la merce, il dialetto, i litigi, gli sfottò, le parole perse verso sera quando c’è un bilancio della giornata, il peso dell’ultima pesata che non si può prevedere e il trarre giudizio sul giorno e una speranza su quello a venire. Ma dipende da ciò che io vedo e sento e immagino, un altro vedrebbe un conoide, lo prenderebbe in mano, chiederebbe cos’è, commenterebbe il peso e neppure vedrebbe quei punzoni sulla superficie. Al più direbbe: però… E lo poserebbe sulla credenza.

un vino non si racconta

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Un vino non si racconta, si beve, lo si fa proprio, lo si distribuisce in tutti i centri di sapidità posseduti. Come ogni piacere. È strano dirlo ma vale anche per l’astenersi che opera per differenza, ossia si appaga d’altro e lo confronta dicendone il non bisogno. Perché il piacere resti intatto non si può raccontare, è come per l’opera d’arte; chi la concepì, la visse, si fece travolgere dal farla, non è sovrapponibile a nessuno degli spettatori che, al più, possono essere coinvolti dall’inventiva, dall’originalità ma col fatto solo di farla propria la contaminano di sé. Non accade, forse, anche in poesia quando si cerca l’universalità del tema sotto le parole mentre il poeta parla dell’emozione propria, del sentire unico che gli appartiene e che nello sforzo di diventare universale modifica chi lo legge? Se noi usciamo intatti da un vino buono, da un cibo mai provato, da un’opera d’arte che ci parla profondamente, se non siamo cambiati dall’esperienza, ma abbiamo solo aggiunto un numero all’elenco del fatto, del provato, del vissuto, ben poco dell’unicità ci ha raggiunto. E quando invece questo essere mutati dall’emozione nostra, sottolineo nostra, accade, sono gli atti successivi, la vita che non s’accontenta più del precedente a stabilire la differenza e l’unicità di ciò che si è provato. Per questo il vino non si racconta, i romanzi e le poesie si leggono, le opere d’arte si guardano e si fanno entrare. Le gioie non si raccontano perché sennò s’assomigliano e chi vorrebbe davvero assomigliare nel gioire ?

Agosto

Scorre questo tempo tra piccole, nuove abitudini, rumori inconsueti, pensieri senza contesto. Anche i sogni sono differenti. Ogni volta che si cambia letto accade, come  fossero le cose l’unione tra diverse vite, e cambiandole mutassero le une e le altre. I giorni dell’ozio sono una fantasia dei poeti, la mente è sempre altrove, una passione, un desiderio, comunque tolgono dal contesto mutato, c’è un perseguire l’equilibrio, la corsa, lo stare ansante dopo di essa, il vivere come ricerca d’essere se stessi e quindi altro.

Tempo di vacanza, refoli di tempo differente, anche se siamo noi a dargli senso, egli per suo conto appena ci bada: quello che gli serve per manifestare la propria esistenza e il suo imperio.

 

cosa c’è di nuovo?

Tenere bene a mente questi nomi: Germania, Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia, Olanda, sono gli stati che diranno se si potrà trattare con la Grecia. Quelli che hanno più sovranità degli altri. Tenere a mente anche questi quattro nomi: Germania, Olanda, Estonia, Finlandia: sono quelli che devono approvare l’accordo nei loro parlamenti. Questi hanno ancora più sovranità. Voi pensate che un’Europa che umilia una Nazione e non ha nessun processo di unione dei popoli in corso abbia un futuro? In queste trattative non c’è stata una parola sulle miserabili condizioni del popolo prigioniero del debito, non una considerazione su chi si è arricchito, non un pensiero che considerasse sia le banche salvate che le aziende fallite, nulla sul lavoro perduto, sulla diseguaglianza cresciuta, sulla povertà acquisita.
Questa non è la mia Europa, non è quella di Spinelli, ma neppure quella di Adenauer e Schumann. Non è l’Europa dei socialisti e neppure dei democristiani che avevano conosciuto la guerra e la necessità del rispetto comune e della pace, Non è l’Europa che mette assieme ed esclude la volontà di potenza, questa è altra cosa e m’ interessa poco.
Non c’è nulla di nuovo e non s’è  imparato nulla, non siamo più vicini, siamo prigionieri. E ciò che accade non promette nulla di buono perché ogni gesto verrà ricordato, ogni umiliazione tornerà a galla. E c’è un corollario in ciò che è accaduto: chi crea un debito pubblico ha una responsabilità che non è solo politica, ma personale. L’ha già fatto l’Islanda. È una cosa nuova, ci pensi chi governa: il popolo può chiedere conto, non solo la finanza internazionale.

lasciami stare, va…

Un attentato al Cairo, le trattative segrete tra Europa e Stati Uniti su ciò che mangeremo, berremo, compreremo nei prossimi anni, la coda davanti ai bancomat della Grecia, un vecchio sconsolato che piange seduto a terra, una bambina appena salvata da un gommone che affondava e che stringe un orsacchiotto, un sindaco del nord che vieta le tende dentro una caserma perché non ci devono essere neppure quelle per ricoverare gli immigrati, la cattiveria gratuita di chi ha e che non vuole che altri abbiano qualcosa, gli occhi di una ragazza che fugge dalla Siria e quelli di un novantenne che scappa dallo stesso Paese, la rabbia che circola assieme alla violenza e colpisce gli inermi, i campi di guerra silenti che uccidono ogni giorno ma non fanno notizia, altri 186 corpi trovati a Srebrenica e seppelliti oggi, il Papa che parla della proprietà privata e traccia il limite tra essa e il bisogno, l’IS che progetta stragi e le compie ma trova sempre chi gli compra il petrolio, i morti davanti alle moschee all’ora della preghiera, i poveri che chiedono il necessario, il lusso sfrenato, la folla all’expo che parla di nutrire il pianeta ed è pieno di ristoranti, manovre di armate in nord Europa per mostrare i muscoli, persone che fuggono e che non stanno in piedi, le sofferenze indicibili e mute nel deserto, sulla riva, sulla barca, sotto a un camion, a piedi, una tromba d’aria e un uomo che dice: abbiamo perso tutto ma siamo vivi, la lettera disperata di un suicida, la follia che uccide i vicini, ecc. ecc.

Il mondo delle notizie cataloga e archivia, ma noi dove siamo in tutto questo? Cosa sappiamo di noi, cosa pensiamo del nostro futuro, mentre tutto ci accade attorno e l’inquietudine cresce?

Speriamo e vorremmo, ma cosa davvero perché questo sia il nostro mondo, la nostra realtà, il nostro presente che non s’accontenta e vuole il futuro.

la scia dell’innocenza

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l’unghia, la punta della lingua, trovano sempre il graffio e lo percorrono al limite della sensazione.

Restare sulla riga, lasciare o non lasciare quel piccolo medicamento incongruo?

Per navigare sugli equilibri, come il mare avesse una scia difficile e tranquilla tra le tempeste a lato, basta avere cuore.

E pazienza con le indecisioni.

Finché osare è convinzione e togliere per risanare: l’innocenza sta sotto, in quella pelle appena rosea e nuova.

limes

Non si tratta d’ uno scarto improvviso, d’ un colpo di polso sul volante che sbanda e poi raddrizza, ma d’una lenta deriva verso il ciglio, corretta in continuazione eppure attratta da questo.

Frequentando il limes, lo fanno in molti, si sente l’odore del vuoto, dolce e pungente come l’ozono, che è simmetrico a quel piccolo vuoto interiore dove qualcosa se n’è andato, s’è disperso per aria. E’ accaduto indietro nel tempo, prima, cosìcchè non se ne può sentire il profumo, ora. Si può pensare a com’era, immaginarlo, e lì ci pare d’averne ancora traccia addosso. Ma è andato via qualcosa d’importante, lo sappiamo, come aria da un pneumatico forato che pian piano s’affloscia, e sente sempre più le asperità del correre e della strada e devia dalla veloce linea che si pensava sicuramente tracciata.

Guardando indietro, si trova la ragione, ma essa soccorre poco, è causa di quel piccolo-grande vuoto, non rimedio. E questa consapevolezza crea l’attrazione verso il limes, come a volerne spostare il confine, mantenendo una vita in continuità, solo un poco mutata. In questa percezione d’una estensione del solido sotto i piedi s’immagina che, prima di tornare indietro, ci sia un altro passo per andare avanti (che è invece follia, ma quale contraddizione d’immagini, l’indietro come necessità del procedere) e si possa avere esperienza d’un vuoto maggiore che non impaurisce, perché catatonicamente lo si guarda e se non ci si getta in esso è solo per indifferenza, e per un piccolo, esile, filo rosso che ci racconta di nuovi aspetti di quell’assenza già stata, come se fosse il ricordo ad essere ragione, a farci tornare, e di nuovo andare e dare speranza.  

Tornare è andare innanzi, trovare una ragione forte che non mantenga sul limes, perché lì non è vita, è solo odore di rischio, di emozione per essere vivi.