controluce

Sono quasi le nove di sera, la vetrina è buia. È una bottega piccola, con poche cose, alcune curiose, altre belle, tutte di gusto e a prezzi convenienti. Nel fondo della stanzetta, c’è una macchina da cucire e una lampada accesa: una donna con i capelli raccolti ha un’aureola di luce, mentre cuce un vestito rosso. Il controluce tiene il viso in ombra e manda riflessi sui vetri soffiati, sui piccoli tappeti appesi, sugli orecchini e le collane di oro rosso.

Si accorge che la osservo, mi invita ad entrare. Le dico il motivo dell’insistenza dello sguardo e sorride: anche mia madre era sarta, mi dice. E così mi commuovo perché è la memoria di un altro viso in controluce a mischiare il tempo. Perché nel cucire c’era una cura che vorrei raccontarle e invece la voce accenna, si rompe. Invecchiando i ricordi, a volte, diventano prepotenti e dolci e allora troppo resta dentro travolto dall’emozione. Credo sia perché c’è uno scontro d’ amore: quello di allora e quello di adesso e sembra che il nostro cuore sia troppo piccolo per contenere entrambi.

La saluto e le dico che tornerò, mi sorride. E così basta.

attese

L’attenzione è per i colori, e lo sguardo scivola distratto sui volti perplessi, un po’ attoniti d’attesa, sulle mani che consultano cellulari, sui sorrisi accennati per qualche parola che evoca segreti. Cerco il bianco che non c’è, forse è solo per le abitazioni di classe. Penso. Per il minimalismo che testimonia le nostre incertezze su cosa sia davvero da tenere, per cui ci resta solo il pulito e lo confondiamo con l’essenziale. Oppure il bianco è per gli ambulatori, per i camici che dovrebbero dirci che siamo sani. Il bianco latteo e riflettente che assorbe colore e sguardo, dovrebbe rassicurarci sulle sue capacità riassuntive di benessere, ma in fondo è solo un succedaneo della purezza e della luce. Qui non hanno avuto dubbi, il bianco che trovo si limita al soffitto. Negli uffici pubblici è il marrone in tutte le sue declinazioni ad imperare nel variare di bruni che ricordano la ruvida tonaca dei frati, un perenne autunno degli spiriti prima che delle leggi. Chissà che fine hanno fatto tutti gli altri colori nell’immaginario degli architetti pubblici…

Così penso, mentre da una porta finto noce esce, inopinatamente, un viso, un tempo conosciuto, a cui fatico a dare subito un nome.

E inizia un’attenzione non richiesta, non voluta, imbarazzante. Si ricorda di me, e lo dice scovando con fatica nei ricordi, poi sciorina particolari che non riconosco, si corregge, sorride e mi stringe ripetutamente la mano. Evoca trascorsi miei, importanze che non ci sono mai state o che forse non ho percepito appieno. Insomma mi sento anche un po’ imbecille. Poi rientra in quella porta fasulla, che ora mi pare fastidiosa, e mi raccomanda. Non ho chiesto nulla, avrò detto quattro parole in tutto, arrossisco, mi devo schermire, difendere. Sorrido alla signora che mi sta a fianco, rinuncio subito a una priorità che non c’è. Quasi mi devo giustificare perché rispetto le regole e mi dà fastidio. 

(quante volte accade, penso) 

Dico: Mi piace aspettare, fare i conti col tempo, non lasciare che questo mi vinca attraverso la fretta: sono così pochi i momenti di quiete…

Mi valuta perplesso e mi stringe ancora la mano. Non capisce e ammicca, il che significa che in fondo la so lunga… Alla fine, oltre all’imbarazzo, ho ceduto anche il mio posto, quello che mi spettava.

Mi merito l’attesa, me la godo e la traccia di rossore che sento la confino nel sole di questo primo giorno di settembre, giallo e arancio che colora volti e pareti e che è altro. Che vuol essere altro.

http://https://www.youtube.com/watch?v=N3aBh9ExYEE

abitiamo in linde città

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Abitiamo in linde città
che diventano gialle al tramonto
e la luce tranquilla racchiude parole,
giochi amorosi
nell’ombra bisbigli,
Abitiamo in piazze ampie
e spesso pulite,
con persone che camminano piano,
e ragazzi che rincorrono
di sorrisi si colma l’aria
assieme ai tristi pensieri:
piccoli moscerini di tempo.
Abitiamo in ordinate città
e il tempo scorre in ogni dove, perplesso,
gli occhi guardano
ogni tanto si soffermano:
ragazze di fine estate,
pelle d’ambra che mette a posto la gonna
solleva il seno e
aggiusta i capelli.
Forse per questo la fortuna l’assisterà
e con lei noi
che abitiamo in linde città.

ma davvero dev’essere così

Quello che mi riga l’auto con un chiodo forse si diverte?
Quello che rompe le luci di posizione e non lascia un biglietto è un buon cittadino?
Quello che sistematicamente ruba dalla mia cassetta Pagina 99 e se gli riesce, pure Internazionale, è un vicino riformista che sbaglia?
Quello che lascia il sacchetto della spazzatura davanti al cassonetto perché gli fa schifo alzare il coperchio è un igienista?
Se volete continuo in questa quotidianità che ho appena sperimentato rientrando a casa,  che è parte di un rispetto carente per il vicino, e che genera un sentire che ci allontana facendoci guardare con sospetto gli altri.
Mentre meditavo su questi piccoli gesti di disprezzo, il signore del Ghana che porta la spesa all’auto delle donne anziane, che aiuta a far manovra in parcheggio e lo tiene pulito, mi ha salutato e sorriso, non voglio dire nulla, ma il suo sorriso mi ha fatto bene.

l’ultima settimana di agosto

L’ultima settimana di agosto mutava l’umore, la spiaggia si svuotava degli amici di scorribande; anche la casa dove soggiornavamo, vedeva partire famiglie e ragazzi. Arrivavano gli inquilini di settembre. Anziani (così mi pareva allora) che amavano alzarsi presto, fare lunghe passeggiate per prendere l’aria e lo jodio, tendenzialmente nervosi per le nostre urla soffocate, per le piccole corse nei corridoi: persino lo scalpiccio sembrava dar fastidio. Per niente simpatici, sin dai convenevoli iniziali, con le caramella alla menta e le osservazioni sulla nostra crescita. Quando arrivavano loro era finita, subentrava un senso di straniamento verso il luogo e la vacanza stessa. Avvertivo lo scivolare ineluttabile dei giorni verso il ritorno e uno strano desiderio dei giochi di casa, come se la vacanza mi avesse colmato di tutto ciò che poteva dare ed ora stancamente, si ripetesse senza convinzione. C’era il mare, i bagni infiniti di richiami, il sole un po’ meno caldo, la sabbia che non scottava più come a fine luglio. E le ombre erano più lunghe, le sere meno luminose per cui tornare per cena metteva una leggera malinconia. Era un attendere qualcosa che non preannunciava nulla di esaltante, ma piuttosto un sentirsi svuotare senza potersi opporre. Meglio tornare. Sapevamo che ci sarebbe stato il rito dei libri nuovi da ricoprire, dei quaderni, del profumo d’inchiostro e del legno di cedro delle matite, tutto da sniffare nella cartoleria vicina a casa. E si sarebbero riallacciati i legami con gli amici di città, racconti di vacanze da infiorettare di avventure e qualche piccola scorribanda per saggiare le vecchie complicità. L’abbronzatura si sarebbe lentamente dissolta in un cedere alle lenzuola strati di pelle bruna. Diventavo scurissimo, c’era solo la traccia del costumino che spiccava e neppure quella era bianca perché, per scherzo, facevamo i naturisti tra le dune. Poi tutto sarebbe stato archiviato nel ricordo: estate del … e si sarebbe sovrapposto, salvo gli eventi eccezionali, alle altre estati.

Di quella settimana conclusiva sento ancora il suo sospendersi e mutare, come fosse un attimo senza tempo prima di una picchiata verso qualcosa che semplicemente pareva ed era dovuto. E lì ho appreso il gusto difficile del mutare che abbiamo dentro e che si manifesta quando non è ancora definito il cambiamento. Potrei dire che era l’attesa che prendeva fisionomia, che pian piano acquistava modalità d’esperienza e diventava parte di me. Ma non avevo ancora a disposizione la pazienza, il gusto dell’attendere lento, e questo farsi era così confuso e dolce che semplicemente mi ascoltavo crescere. E vivere. Ma questo l’avrei capito poi.

http://https://www.youtube.com/watch?v=7loEBieHyaI

la scelta

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La confusione che m’inquieta, rassicura quelli a cui la racconto. Le piccole infelicità, se dette, incontrano cenni d’assenso. E pure l’inquietudine, il sentimento della propria differenza, trovano estimatori e complici. Anche le sensazioni che superano la barriera dell’attimo trovano condivisione. Tutto questo rassicura dalla solitudine, ma non dall’essere monadi che semplicemente s’assomigliano e di rado s’incontrano. E c’è una verifica che come disciplina ci si può imporre: il raccontare le transitorie felicità, la misura delle pienezze nel loro colmare.  Dire tra righe ciò che non si può rappresentare e lasciarlo a chi intuisce che non siamo davvero soli ovunque e sempre, perché la scelta non ha sottigliezze: o tentare, infinitamente tentare oppure disperare.

cose

Allo spirito delle cose chiediamo d’orientare i passi,

verso giorni col tempo che rallenta,

e vogliamo desideri da incrociare con rossore,

sogni che si svegliano, 

improvvisi batticuore,

attese e incontri attesi,

insomma ciò che viene

purché bella sia la storia del nostro amato amore.

E, nel dir di noi, la vogliamo così intensa 

che per sempre incrini poi la voce,

anche quando le cose torneranno ad essere sol cose.

Perché le cose parlano

se qualcosa hanno da dire,

e chiedono di noi, indiscrete,

e spingono, con immemore dolcezza,

nei desideri che coincidono con gli amori

ma tacciono al loro spegnersi,

addolorate e complici.

del dare confidenza

In questo percorso virtuale (ma cos’è virtuale se ci si racconta davvero?) attorno ai lati in penombra trovo che il dire sia una opportunità e un limite. E’ una condizione innata, quella della propensione al fidarsi, al lasciar entrare, ma fino a che punto questa positività resta tale? L’ospite poco sensibile urta la suscettibilità, non si fa domande, scambia la confidenza con il permesso assoluto, l’arbitrio dell’essere.

La giusta distanza è un mestiere difficile; proprio per ridurla. Un tempo le regole aiutavano, il lei iniziale, la creanza distinguevano la discrezione e la imponevano come tratto dei rapporti. Eppure ci si diceva molto, forse più di adesso. Tutto formale? No, la distanza iniziale, il ritegno, faceva da crivello e aiutava a distinguere ciò che era importante da ciò che non lo era.

Dare confidenza porta ad attendere e in quest’epoca in cui tutto sembra immediato mentre il vero tarda anche l’attesa non ha più soddisfazione. Però chi bussa ad una porta accende un’attesa. La confidenza dovrebbe maneggiare le attese, lasciare che essere cadano oppure si rendano più esplicite. Dire e lasciarsi dire è un’apertura di credito, poi come sarà spesa si vedrà. Dipende dall’educazione, o meglio dalla verità. Ecco, creare le condizioni del dare confidenza o non farlo, è un modo di dire la verità.

chissà cosa farà male

Teflon: Ci fu questa grande novità: si poteva cucinare senza grassi, anche senza olio. Bastava non usare forchette e cucchiai e la pentola non si rigava. Così dicevano. Era un’invenzione geniale che Du Pont ha venduto al mondo. È così abbiamo mangiato cibi cotti in pentole di alluminio o di acciaio rivestite di teflon. Per anni, per decenni. Il rivestimento si rigava, poi sembrava consumarsi lentamente e noi mangiavamo verdura e qualche particella di teflon, bistecca o brasato e qualche molecola di teflon. Anche i pomodori al gratin, il fegato alla veneziana, la peperonata, e chissà quant’altro avevano un pochino di teflon. Dipendeva dalla voglia e dalla dieta, e non contava se si era vegetariani, carnivori, vegani o cannibali, un pochino per volta dalla bocca entrava in circolo del teflon. Grave? No, il teflon è inerte o quasi, tiene a bada l’acido solforico, ci fanno le protesi per i trapianti, è sostanzialmente tranquillo fino a 280 gradi centigradi, e allora? E allora perché dovrei avere una protesi diffusa, perché non me l’hanno detto subito? Potevo scegliere se diventare d’alluminio, di acciaio o di teflon, ma non me l’hanno fatto fare, mi hanno solo detto di non strisciare la pentola e così il Politetrafluoroetilene è diventato un pezzo di me, di voi. Non è ben chiaro se nei processi di lavorazione entri qualcosa che può far male in qualche condizione che non conosco, agli uccelli pare faccia male se la pentola si scalda troppo, forse gli uccelli si fanno pentolate di becchime a 300 gradi. Forse. E se comprano pentole cinesi, gli uccelli, a quanto si decompone il presunto teflon?

Pvc: che il pvc fa male lo si sa da tanto, però adesso non me lo scrivono col suo nome. Sulla confezione sta scritto: pellicola trasparente e poi di evitare il contatto con oli e grassi. Anche l’alcol non gli fa bene. I forni deve evitarli, così come i contenitori e i cibi caldi. Già 40 gradi la mettono a rischio questa pellicola. Comunque l’innominata è regolata dal DM 21.3.73  e seguenti modifiche. Che diamine basta andare a leggere… Allora qualunque cosa incarto mi mette un po’ in ansia, quasi quasi comincio a preferire le muffe.

Alluminio: Anche l’alluminio non è proprio inerte. Si commuove facilmente con gli acidi e i grassi sono acidi, cosa combini poi quando entra in giro dentro di noi si sa abbastanza. Anche se ogni tanto gli trovano qualche responsabilità nuova. L’alluminio mi è simpatico, cerco di usarlo bene, di non lasciare nulla  che lo possa corrompere a partire dal sugo di pomodoro, però m’inquieta chi lo  trasforma in padelle e pentole. In Eritrea c’erano delle gran pignatte d’alluminio spesso, molto coreografiche. Era un po’ butterato di puntini neri che, mi dicevano, se ne vanno con le cotture. Restava micro poroso in superficie e sembrava che questa porosità avesse qualche pregio. Ho scoperto quasi subito che derivava dalla bassa temperatura di fusione e la ditta indiana che faceva pentole s chissà che altro usava pezzi di motore in alluminio comprati come materia da riciclare. Pensavo allora, e adesso, che tutta la nostra plastica e metalli e vetro e carta e chissà che altro riciclato ci tornano indietro e non c’è nessuno che verifichi se quello che torna fa bene o fa male. Oppure basta costi poco per giustificare tutto?

Questo mi fa pensare che viviamo nell’ignoranza e che questa è una scelta, che all’inizio ho preso ad esempio qualcosa che teoricamente non fa male per riflettere su ciò che davvero fa male. Perché la conoscenza non rende più sane le nostre vite? Perché qualcuno oltre ad emettere le leggi non ne verifica l’applicazione? Ecco queste sono le domande.

l’infanzia del limite

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Tutto si poteva riassumere nella sensazione di una definitività accessibile. Un assoluto che non aveva bisogno di nome, ma era lì, a disposizione, per essere capito, investigato, fatto proprio. Definitivamente.

E attorno c’erano piccole cose che tiravano via, urgenze false e fastidiose che volevano rimandare l’accesso a quella soglia di comprensione profonda. Ma a ben guardare, erano loro che acuivano la sensibilità e l’urgenza e rendevano netta la sensazione di scelta: si sarebbe perduto qualcosa di importante eppure sconosciuto oppure lo si sarebbe avuto poi, chissà quando, nonostante quelle forze che volevano posporre, strappar via e portavano il pensiero nella banalità del necessario. E non era forse più necessario il conquistare l’inutile piuttosto che perseguire la facilità beota dell’utile? Tra questi pensieri, intanto, il tempo scorreva e si restringeva, anch’esso preso da una scelta era attento ad un proprio tornaconto, e di fatto s’alleava con l’utile.

Nulla meglio della clessidra rappresenta la lotta e l’estraneità della necessità nel tempo. L’assottigliarsi della sabbia o dell’acqua nell’ampolla superiore, toglie l’idea malsana degli orologi che sembrano avere una riserva inesauribile di circonferenze da percorrere. Tutte uguali, tutte con le stesse distanze d’arco circolare, in fondo tutte prevedibili nel dire quanto manca alla prossima. La clessidra invece, mostra un tempo che, pur costante, diviene più rarefatto e veloce nello scorrer via. Il nostro sguardo e il pensiero lo mette in relazione al volume disponibile di sabbia o acqua che si svuota e così esso dà misura del nostro perenne ritardo rispetto all’assoluto.

Il filo di sabbia o le gocce d’acqua che scendono mostrano che c’è un’indifferenza rispetto al ritardo del nostro fluire, guardiamo a quel volume disponibile di libero arbitrio e il tempo sembra dire: fa ciò che vuoi, ma attento… E se ripieghiamo sull’utile, ne viene un’influenza cupa di scelte mancate o costrette, che ci rende irrimediabilmente in colpa verso ciò che doveva accadere e non è ancora accaduto. Per questo l’avvicinarsi al limite dell’intuizione profonda e il tempo dell’utile acuiscono le sensibilità e rendono definitiva la scelta: possiamo essere, forse, consapevoli di qualcosa mai intuito prima oppure lasciar perdere, rassegnandoci alla necessità. La scoperta, insomma, fa i conti con quel fluire dell’utile che rende precario il superfluo del nuovo e ci consegna al grigio della prevedibilità. Non avventurarsi nel limite ci rende poveri e puntuali, e toglie la differenza che solo nell’esplorazione dell’eccezione ci rende unici.

In questo confine così affascinante e pertanto pericoloso, tra necessità (presunta) e superfluo (utile a sé), si trova l’amore per quella parte incredibile (ciò che è credibile lo conosciamo, è ciò che ci meraviglia che è incredibile e sconosciuto) che ciascuno contiene e mortifica. E insieme ad essa, la libertà del disporre di sé, del non essere prigionieri della necessità, del poter dare consistenza a ciò che nessun altro può capire meglio di noi, perché ci riguarda in senso assoluto, perché questa è una geologica interiore forza che può crescere una montagna, eruttare un vulcano, piegare dolcemente un fiume e prosciugare un mare per ricrearlo altrove. È questa la manifestazione di noi che riconosciamo il chi ci ama e che vede dentro e oltre noi: è l’amore e il sogno che conteniamo, che urge e vuole diventare materia, noi, insomma, che dopo averci compreso non saremo più uguali. Ecco perché nel limite troviamo amore, ecco perché in esso ciò che era ritardo non lo è più e siamo altri da prima. Con altro tempo con cui rapportarci. Non è forse questo il senso del cambiamento che riapre le vite?