a noi buon anno


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Noi che non siam nuovi ma abbiamo molto di nuovo,
noi che sbagliamo e lo sappiamo ma non potremmo fare altrimenti,
noi che reggiamo il moccolo a noi stessi e ci sorprendiamo a ridere,
noi che il nostro futuro ce l’abbiamo tutto e non facciamo sconti al bello,
noi che conosciamo la nostra ignoranza e non facciamo finta sia cultura,
noi che teniamo strette poche cose che non diciamo mai,
noi che viviamo di sogni e ci imbrattiamo di realtà,
noi che abbiamo il culo allenato ai calci eppure ogni volta fanno male,
noi che ci sembriamo strani solo quando vediamo che gli altri si meravigliano,                                          noi che esitiamo su un aggettivo assoluto perché per noi non lo diremmo mai,
noi che solo ai saldi ci fanno gli sconti e non siamo neanche convinti di aver fatto un affare,
noi che quando amiamo voliamo con una paura boia che qualcosa ci abbatta,
noi che prediligiamo l’inutile, viviamo di canzoni e poesia e dobbiamo far finta d’essere altro,
noi che ogni anno è un numero e basta una parola, una carezza, un abbraccio per riscoprirci incredibilmente giovani,
noi che salutiamo e chiediamo come stai, volendolo saper davvero,
noi che siamo dispersi, che ci riconosciamo, che quando ci siamo capiti è per sempre,
noi che da soli non siamo mai soli.
Noi, a tutti noi buon anno.

P.S. E chi ha voglia prosegua perché mica ci esauriamo con così poco.

a torpigna è natale

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A Torpigna è Natale, come ovunque. Ieri sera le commesse della coop avevano fretta ben prima che chiudesse il supermercato. Il pranzo da preparare per il giorno dopo, la cena che deve pur essere speciale, occupava i pensieri e qualche parola scambiata tra scaffali e casse. Avevano quei copricapi che dovrebbero far sorridere i clienti, cornini rossi da renna, palline tintinnanti, il pesciarolo col berretto rosso bordato di finta pelliccia bianca. Il supermercato ormai era vuoto di persone, finiti i cotechini, i capitoni, le orate e le spigole. C’erano ancora montagne di panettoni fantasiosi solo nei ripieni, ma la scelta era  caduta su quelli tradizionali, con i pandori d’ordinanza che, infatti, latitavano negli scaffali. Segno che la fantasia ha sempre lo stesso sapore nell’industria dolciaria e poi sanno tutti che tra due giorni saranno disponibili le novità a sconti inusitati. Siamo assuefatti, come i tossici, fin da bambini, il dolce non è più rarità e gioia, casomai capriccio, occasione di compagnia, se va bene, ma poi scompare dal ricordo. Il panettone un tempo era con i canditi e l’uvetta, non come dicono ora: tradizionale senza canditi. Scorza di cedro e arancia candita e uvetta di Smirne. E forse era l’unica cosa che s’imparava sul panettone oltre al sapore di Natale. Forse.
Le strade attorno a via di Torpignattara non hanno luci, i festoni con l’I ❤pigna sono riservati al tratto tra l’acquedotto e l’angolo della Casilina, ma nelle strade parallele i negozi sono gli stessi: quelli dei pochi romani e quelli bangla. C’è qualche festone ma come ha detto la cinese del negozio dove trovi tutto o quasi: domani, siamo apelti melza giolnata. Domani era oggi, Natale. In questo mescolarsi di attese diverse, di popoli e abitudini differenti, Natale ha significati molteplici e quelli che sono arrivati da poco e da lontano, lo interpretano con lo stesso distacco interessato del vero padrone dei mondi, cioè l’economia. E sono proprio loro, quelli arrivati da dove il Natale era una festa d’altri che  ora vendono molti addobbi e regali, ma è solo business che domani verrà offerto a prezzo scontato.

Questo quartiere dagli anni ’20 ha iniziato ad accumulare abitudini e tradizioni differenti. Ai romani si sono aggiunti quelli che arrivavano da altre regioni e non avevano posto nei quartieri del centro. Già da allora Natale si festeggiava in modi differenti con lo stesso significato. Anche nell’emigrazione interna italiana, i gruppi hanno mantenuto i riti e i modi di casa, nel cibo anzitutto ma anche nel dare significati alla festa perché se è vero che in Italia anche gli atei sono sempre un po’ cattolici, i cattolici sono sempre un po’ pagani di ritorno. Analfabeti gli uni e gli altri in uno spirituale che ha bisogno di concretezza e che deve sovrapporre i simboli a ciò che conosce, la famiglia in questo caso. E la famiglia in Italia era uguale ma anche diversa, poi dagli anni ’70 ha iniziato a mutare e non si è più fermata così che ora procede per aggregazioni, per somma di affetti ma è altra cosa da prima.
Qui a Torpigna di famiglie ce ne sono moltissime e diverse, nella mattina di Natale alcune percorrono le strade parallele che confluiscono verso i binari del trenino, con i figli al seguito. Nei marciapiedi insozzati dall’incuria di tantissime omissioni (perché devo tenere pulito se non lo fanno gli altri?) seguono percorsi verso case di nonni e genitori. Il panettone al dito medio, la bottiglia impugnata, la borsa di plastica, robusta e capiente, con i regali. Qui si è fatta l’Italia che non riuscì a Cavour e Garibaldi. In fondo gli italiani li hanno costruiti le trincee e i patimenti di due guerre mondiali, l’emigrazione, il fascismo e la resistenza. Naturale che Roma, assieme a Milano è un po’ Torino fosse la sintesi di questo processo, mentre il resto restava sempre un po’ per suo conto, geloso più di ciò che non era più piuttosto che di quello che era rimasto: il dialetto, la cultura, i significati.
In questi palazzoni che mescolano abitanti di molte provenienze, si legge la stratificazione di un secolo. Su un palazzo, nello stemma vuoto di simboli, c’è scritto: anno VII, dell’era fascista naturalmente che poi era non fu, ma chissà nel ’29 cosa si pensava del Natale. Di sicuro la chiesona immensa e vuota di ieri sera, non c’era ancora, però non mancavano quelli che sembravano punti fermi e poi si sono rivelati fragili. C’era la famiglia, perché era quella di prima e uno se la porta addosso anche quando è solo. C’era il Natale e il panettone come adesso, chi poteva faceva il presepe.

Adesso lo fa chi vuole non per possibilità: i negozi cinesi e bengalesi vendono festoni e statuine, per loro è merce che adesso producono a casa e vendono qui. Percorrendo la strada verso il centro islamico c’è una vita diversa rispetto a quella del corso di torpignattara, negozietti di frutta e verdura strana aperti fino a mezzanotte, persone sedute sui talloni, macchine parcheggiate e cacche di cane. Poi le case che custodiscono indifferentemente gli uomini e le loro storie. Natale è una storia che parla con loro diversamente, Natale è un giorno, Natale è un’ipocrisia, Natale è il momento di fermarsi e di capire. Dentro le case ci si accoglie e ci si stringe, poi ciascuno ha un motivo che rende importante o indifferente il gesto. Sta a noi, e noi, significa tutti, dare un senso agli abbracci.
Fuori di un balcone due babbi Natale si arrampicano più per entrare e salvarsi che per portare qualcosa che non sia loro stessi, e in mezzo, tra ficus e yucche, una bandiera italiana, è un tentativo di dire qualcosa che conta.
Natale a torpigna è il mondo e ciò che conta è il cuore. È sempre il cuore.

il senso del pudore felice

 

Come si parla della felicità?

Difficile dire quella non obbligata, quella che fa festa quando vuole. Difficile perché ogni verità vorrebbe un’esattezza di parole, che invece si perdono tra gli ovvero e nell’inutile spiegare. La felicità non si spiega, c’è e sprizza incontenibile. E quando la si chiude  deperisce, diventa altro perché mentre esige il pudore non tollera d’essere recintata. Esistono molte felicità e anche quelle che, volendo appiccicarle d’aggettivi, si definirebbero semplici non sono mai modeste. In fondo la felicità assomiglia al sole che anzitutto illumina, poi ha altri effetti.

Non credo esista una seria scienza della felicità, esisterà forse quella del benessere, se esistesse cambierebbe gli uomini e il mondo, insomma la felicità si accetta e non si spiega, ha sue vie, tempi spesso incongrui, e non di rado importuna chi non la possiede. Però esiste nonostante il mondo che si fa scuro e più terribile. Esiste in una dimensione personale, che si condivide con pudore e con chi è più vicino. Esiste a tratti, poi sembra rintanarsi, ma esiste. La felicità collettiva è una liberazione da qualcosa di terribile, oppure è una speranza talmente forte che rischiara le notti e i giorni, ma è eccezionale. Quella comune, personale cammina sulla superficie e guarda il profondo, come un ragno d’acqua.

Si può davvero comunicare la nascita di un amore? Si può raccontare per poi scoprire che ogni parola è insufficiente, o sbagliata, si può dire ma resta il senso che qualcosa manchi all’appello, e così spesso la felicità diventa muta. A volte la felicità teme che nel dirsi essa si rovini, o peggio che susciti invidia, o sofferenza in chi non la possiede, in chi ne è stato privato. E ancor più si tace allora, e il pudore la mette in qualche gesto gratuito, in una parola, in un sorriso incongruo a chi non sa. Però contagia pur senza esser detta, per questo dovremmo lasciar entrare ogni sorriso, non fare domande, accogliere ciò che viene e permettere che agisca in noi. La felicità circola come la tristezza, noi le ospitiamo entrambe, solo che la seconda ha molte più parole e spesso non permette alla prima di traboccare e riempire i vuoti.

Non vi auguro di essere giulivi, vi auguro di essere talvolta felici, di credere che si possa star bene. Vi auguro che in questi giorni ci siano tempi per voi e per chi vi è vicino. Vi auguro l’attesa che si compie e la sua meraviglia. Insomma siate felici quanto più potete e non curatevi di dirlo, si vedrà.

chi abita il corpo?

Una macula infinitesima. Un’imperfezione della retina dovuta al troppo uso. Così è nata una piccola moschetta inesistente, che raramente vola nell’angolo del campo visivo.

Come un fantasma, si prende l’attenzione inquieta, del vedere e poi perdere nozione. Accade anche quando ci si guarda dentro e per un attimo, un solo attimo, tutto diventa chiaro, salvo poi perdersi e sparire nei piccoli gorghi di cui è costellato il mare al limite del cosciente. Tornerà, sia la moschetta che la percezione assoluta. E il pensiero assieme agli occhi torna sulla pagina. 

Quando ci sarà la tecnologia necessaria, quel puntino che vola sarà un pixel bruciato: anche adesso con 7 si può cambiare il sensore, se è in garanzia…

Importante è la misura che il nostro corpo ci propone.

La sera ci si propone di perdere cinque chili. Perché?

Abbiamo parlato con chi abita il corpo?

Già, chi abita il corpo sembra sia solo il cervello, anzi neppure quello ma quel pizzico di coscienza che va spesso per i fatti suoi. Di sicuro lo fa quando si dorme, ma spesso anche da svegli. E invece, di tutto quello che sta sotto la cute ci si occupa come di un inquilino moroso, quando dà segni d’insofferenza per lo stato della casa.

Facciamo un conto: ho un sacco di organi collegati, una macchina piena di display e di segnali, un sistema simpatico (ma molto indipendente) che governa gran parte delle cose e il tutto abita dentro di me in silenzio. Forse perché non parlo mai con nessuno. Mi occupo della coscienza, raramente del sauro che alberga al buio nel profondo, ma a tutto questo sommesso sferragliare non concedo il bene della mia comunicazione. Non alle 206 ossa che esigerebbero un dialogo singolo e neppure alle 68 articolazioni. Eppure c’è stato un momento in cui ho scoperto che esistevano, è stato con una caduta importante e la riabilitazione. Per due mesi si svolgeva un rito molto fiducioso, nudo, steso, pancia sotto, avvertivo che le mani che stavano estraendo risposte da muscoli e articolazioni riaggiustate stavano parlando con qualcosa che avevo sempre trascurato. Non era un massaggio piacevole, era un dialogo tra parti che riemergevano. Alcune mi sembravano risentite di essere state chiamate dopo tanta trascuratezza, altre più docili, si prestavano a funzioni nuove. In quei mesi, mi promisi di riprendere il discorso, poi le cose andarono diversamente. Subentrò nuovamente la violenza con cui si chiede a noi stessi e a chi ci abita, di fare le cose.

Però mi ero convinto che, come per la coscienza, per la fantasia, l’acume e la memoria, ci fossero altri con cui stare in compagnia. Chieder loro come stanno, ma soprattutto cosa vogliono. Nei miei dialoghi con i coabitanti capivo che il linguaggio era essenziale, che c’era bisogno di calma reciproca e che soprattutto era un dialogo a due. Per questo – pensavo- ci si stende, si chiudono gli occhi e si ascolta. E anche se all’inizio non sembra arrivare nulla, ma in realtà poi ci sono segnali, piccole richieste. Capivo che i miei compagni erano modesti e alacri, che facevano tutto quello che potevano e anche più, ma se dovevo perdere cinque chili dovevo parlare con loro. Cioè non bastava togliere, bisognava aggiungere, dare, fornire un significato: cosa vuoi che interessi al fegato la mia bellezza, eppure senza la sua collaborazione la superficie soffre, dentro nasce un putiferio, i suoi amici si rivoltano, quindi dovrei discutere con lui non della bellezza ma di un nuovo equilibrio. Quello che è strano è che si parla con soggetti enormemente tolleranti, flessibili, che si adattano e si conformano purché gli venga fornita una ragione valida.

Serve una ragione valida e un discorso che ascolti. Poi anche i desideri saranno esauditi, le passioni introjettate ed esaltate, e non sarà un discorso tra macchine ma tra soggetti.

Chi abita il corpo? È una domanda rara, ma se si pone è una continua scoperta.  Basta qualche minuto al giorno, non per placare un urlo, ma per ascoltare chi c’è. Anche se tutto funziona lo stesso, si fa movimento, si mangia con attenzione o si eccede in allegria. Senza un obbiettivo che oltrepassi la curiosità di capire, di collegare, solo per  accogliere il corpo come i pensieri. E partendo dall’ignoranza, che è la migliore condizione, ascoltare e dialogare. Pensando che solo noi possiamo fare questa esperienza ed è un peccato vivere senza farla.

artisti di provincia


Mi chiedevo perché la propria necessità di autorappresentazione debba passare per la diminuzio o la banalizzazione degli altri? Perché ci sia una necessità di dare una scala di valori che collochi le proprie passioni in testa e con esse noi senza trarre ispirazione o misura da chi ci è vicino e se c’è qualcuno che ne ha altre e magari gode di una notorietà che travalica i confini angusti della provincia, sia necessario ricollocarlo in una dimensione che non faccia ombra?
Conoscere gli autori, i romanzieri, i poeti, i musicisti che abitano nella stessa città, magari vicino a casa, incontrarli nei luoghi in cui sono persone, porta una sensazione strana di normalità e insieme di voglia di conoscere di più, di capire cosa c’è oltre la soglia del normale chiacchierare. Dietro la carta di un libro o le note che trasfigurano le sensazioni ci sono persone che hanno vite normali. Ad esempio del poeta e romanziere avevo letto sue cose, poi l’avevo conosciuto in altra veste. Magari un po’ neghittosa e cosciente di sé e del suo lavoro plurimo di autore, insegnante, organizzatore culturale, ma c’era talento in lui.
E conoscevo anche gli altri che autori non erano e i loro commenti a mezza bocca quando parlavano degli artisti senza ammirazione, come se una passione o un talento fossero cose da poco. Bizzarrie che davano notorietà immeritate e il nostro o altri venivano descritti come tipi singolari. E più che sottolinearne la capacità di occuparsi, per vivere, di più cose importanti, dal loro non vivere solo di scrittura o arte, traevano lo spunto per sminuire la portata letteraria o artistica con frasi come: si, scrive poesie e anche qualche romanzo, oppure dipinge o fa musica però …
Come se fosse da tutti scrivere decentemente, imbastire qualche buon verso, trovare una trama efficace e riempirla di dialoghi e pensieri decenti. O ancora scrivere una partitura, sbozzare un cirmolo o un marmo, dipingere una tela e che queste capacità fossero di per sé poco utili in quanto non producevano ricchezze immediate.
Incontrando al bar, gli uni e gli altri, ascoltavo evitando di parlare di letteratura, di arte, portando il silenzio verso il vino o mescolando accuratamente il caffè. Mi disturbava la facilità con cui si liquidava quella che, anche fosse stata solo una passione, era un tratto distintivo, gratuito, importante. Certo c’era non poco narcisismo, ma non era lo stesso dei banalizzatori, piccoli capitani d’impresa, gestori di cariche pubbliche, esperti d’intrighi. Loro che non avrebbero mai lasciato traccia salvo quella della cronaca, anche giudiziaria, o la presenza storica negli elenchi infiniti di amministratori comunali o camerali. Tracce politiche di per sé poco rilevanti, qualche unghiata e poi lo stanco ricordo di pochi sodali più che opere suscettibili di generale approvazione. Di voi non resterà nulla, mi veniva da dirgli, e col finto sussiego con cui ascoltate gli autori al più circondandoli di una altrettanto finta considerazione, oppure rendendoli oggetto di qualche interessata richiesta, non diventate più grandi o potenti, ché quelli davvero grandi il genio, anche se transitorio, lo riconoscono. E se allo scultore, al musicista che avevano un quarto d’ora e un occhio di bue sul palco, si doveva attenzione, in fondo poi si cercava d’adoperarli per un po’ di lustro salvo poi metterli nei percorsi normali loro che tutto erano fuorché normali.

dicembre


Il latte d’inverno sapeva di fieno e mangime (dove sapere è un conoscere arcaico che non ha bisogno di conoscenza), di acqua fredda versata negli abbeveratoi di zinco. Sapeva del profumo tostato dell’erba, dei fiori seccati e fermentati tra il fieno, sapeva del peso delle balle impilate nei fienili, del caldo degli umori vegetali che imbevevano l’aria e la paglia. Sapeva di chiuso, di muggiti tra stalli divisi da sbarre, sapeva di oscurità che veniva da piccole finestre con i vetri appannati. Sapeva di aliti sovrapposti, di catene che scorrevano, di mungiture meccaniche, di getti d’acqua in pressione, di grate lavate che raccoglievano deiezioni e strame di paglia. Sapeva di stalla chiusa al tramonto, di aria ferma, di rumori ovattati che cingevano attorno. Insomma era la somma dei sapori che cambiavano la densità e rendevano quel latte consono con la stagione fatta di riserve accumulate, di libertà limitate e finestre accostate.
E anche il formaggio prendeva altro sapore, diventava più grasso e denso e oscurava il profumo lieve di prato, la leggerezza di quello estivo.
Forse mancava l’aria, che pure c’era tutt’attorno, forse mancava la sua limpidezza, la stilettata di gelo che prendeva appena il sole calava, forse tutto questo non si poteva sentire e dipingere se non si vedeva o respirava e le mucche erano al chiuso, tra loro, ad attendere che passasse la chiusa stagione.
Era la giusta fase di ciò che dormiva, che s’acquattava in attesa avvolgendosi in morbide aderenze di membra. Era il momento delle digestioni difficili anche per gli umani, dei soffitti interessanti, della scoperta delle crepe e delle ragnatele. A partire dal cibo semplice che originava dal latte, dalle carni insaccate, dai sughi, dalla farina grossa fatta cuocere, mescolandola a lungo in acqua e sale e poi stesa fumante; a partire dai discorsi divaganti, sulla neve che tardava,  sul freddo che cercava confronti e li perdeva, tutto confluiva nei segnali della povertà che cresceva attorno, negli uomini, nei discorsi e nelle cose. Come se tutto invecchiasse d’inverno e non nelle altre stagioni, e guardare avanti, aspettando, corrispondesse al considerare ciò ch’era passato: un aruspicare che mostrava. A questo dava stura quello stendersi e pensare, quel rimuginare che metteva le caselle nel loro presunto ordine. E l’orizzonte s’accorciava, diventava breve mentre dilagavano i tramonti, sino a comprendere ciò che s’era sbagliato o fatto giusto. Che in fondo, salvo pochissimi casi, non era così diverso far l’uno o l’altro, né questa scelta generava di per sé eccellenza perenne. Importava aver vissuto e aver voglia di vivere, non comunque, e neppure a qualsiasi costo, ma seguendo una traccia e deviando da essa.
E tanto più i discorsi con le persone ch’ erano parte d’una consuetudine s’ impoverivano di contenuti, rintanandosi nella mal celata noia, e nella voglia di finire in un silenzio, tanto più la selezione diventava severa. Lo scegliere era essenziale per riconoscersi nelle idee, nelle parole dell’altro. Per dare un senso alla fatica del rompere il caldo abbraccio del silenzio. Questo era il discrimine vero, ossia chi poteva accompagnarci oltre l’inverno e chi restava in esso, indifferente alla stagione. Ed era il prescelto o i prescelti, chi poteva essere con noi nella stessa vita e nel suo farsi. Mica cosa da poco perché li si giocava la solitudine e noi non eravamo costretti a masticare senza voglia, a ruminare fieno disseccato, a stare in compagnia per forza. E se le passioni d’inverno diventavano più grevi, ciò che le muoveva attendeva di rilucere nel vivo del confronto.
Serviva capire e meditare, scendere nelle cose, e in sé, con gli occhi un po’ imbambolati di chi scopre l’altro lato del consueto, magari a partire da una crepa, da una discontinuità mai vista nel soffitto e nella propria vita.

riassunto

Rimettere in ordine ciò che si è scritto, discernere quello che resta da quello che era transitorio e trovarsi davanti a una consapevolezzae ad una determinazione. Questo scrivere è stato un diario non autorizzato dalla razionalità, una sequenza interminabile di stati d’animo, di percezioni, di sguardi e di emozioni. È stato l’apocrifo racconto d’una vita nel suo farsi e contemporaneamente rifrangersi. Come accade a tutti penso. Le urgenze, l’ascolto, il raccontarsi d’altri vissuto come emozione e lasciato frammischiarsi al proprio. Chi ha la pazienza curiosa dell’ascoltare capisce cosa sia un interesse determinato, focalizzato negli occhi dell’altro, indagato nei moti, nella scelta delle parole.
Trovare e condividere la consonanza, ovvero la capacità di essere veri dove l’apparenza e le sue finzioni non sono richieste.
Parlare di sé e parlare d’altro, in ordine inverso, nell’audacia onnipotente del passare dal particolare al generale. Di molte cose avverto il limite (ecco il biografismo) ma mai degli abbracci, anche di quelli dati a chi ha tradito. C’è un’ accettazione inerme nell’abbraccio che purifica il passato e il futuro. È una terapia che rimescola le carte, ci riconfigura ma dopo, molto dopo. Accade anche nell’ascolto che deve abbandonare la facilità del giudizio e affidarsi allo stupore dell’altro da sé. L’abbraccio e l’ascolto sono un far proprio che lascia integra la libertà. Anche del tradire.
E che dire degli abbracci mancati? Dell’ascolto negato?
Qui, rileggendo, il pensiero si vela di scuro, porta il rimpianto di una possibilità negata, coinvolge l’esame di una scelta che poi magari si relativizza in giustificazioni oppure si assolutizza nell’assenza della perdita.
Beati quelli che rimuovono, oppure beati quelli che sanno abbracciare e se lo tengono per sempre quell’abbraccio.

il giorno dopo

Se qualcuno mi ha letto sa per cosa ho votato. Serenamente e con convinzione. Non ero tra quelli che votavano no e speravano vincesse il sì, proprio volevo che la Costituzione non fosse cambiata in questo modo. Dovrei pentirmene? Essere triste perché la mia convinzione ha vinto? Non lo sono. Mi preoccupo della situazione politica da molto tempo, non è una novità sapere che il partitismo italiano si è trasformato in altro da quello che c’era al momento del varo della Costituzione. Sono anche conscio della scarsa qualità della classe dirigente italiana, che produce troppe leggi, di poca qualità. Ci sono cerchi ristretti di potere, è stato fatto l’elogio delle oligarchie da Scalfari, ma il metodo di selezione di esse è più la conformità che l’indipendenza dei singoli. Manca un progetto generale che riguardi il futuro collettivo e sembra che il problema stia nella governabilità. No, il problema sta nella gestione del potere e nella risposta che il governo e il parlamento danno ai problemi reali e urgenti. Questo è il prodotto del leaderismo e del piegare i partiti, luogo di discussione di sintesi, ad esso. I partiti dei leader si sono staccati dalle periferie del Paese. Tutte. E queste ricambiano  con una avversione crescente per la politica. Ma i partiti non riformano se stessi, non riformano la gestione del potere che appare smaccatamente sbilanciata verso chi più conta. No, piuttosto chiedono all’elettorato di modificarsi, di cedere quel poco di controllo che ancora possiede. E qui scatta la reazione. Poi le componenti che essa contiene sono differenti, bisogna tener conto che in politica non esistono i vuoti e non esistono azioni prive di una reazione, per cui in un voto che ha un oggetto preciso confluiscono componenti emozionali importanti. Per questo è sempre delicato sollevare emozioni che non si sa bene come controllare. È il caso dell’antipolitica generata dal dileggio nei confronti della casta di cui solo gli altri fanno parte, oppure la personalizzazione di un processo collettivo di formazione delle leggi, che portano sempre a reazioni diverse dall’oggetto su cui si decide.

Oggi ho visto molti commenti sul risultato referendario, ne ho ascoltati tantissimi, poco si parlava dell’oggetto del referendum e del fatto che la Costituzione non muta e del perché non muta. Si parlava dell’incertezza politica, dei riflessi economici del voto, del discorso del premier sulla sconfitta, del partito democratico, delle cattive compagnie di quelli del no, ecc. ecc.
Ci sono quelli che hanno votato sì ma l’hanno fatto per altri motivi che ora recriminano con quelli del no, non ascrivibili alla destra o al m5s. Gli dicono che sono irresponsabili, che non dovevano votare sul quesito referendario ma sul fatto che Renzi si dimetteva. Nessuno del sì, che abbia detto sinora che forse il metodo per riformare la costituzione era sbagliato, che i professoroni forse non erano tutti deficienti, che i gufi magari non erano veloci ma un po’ più saggi visti i risultati, che c’è un modo alternativo al fare politica mettendo alla porta i tuoi compagni di strada se non la pensano come te.
Nessuno che abbia detto che per fare una modifica importante della Costituzione forse serve uno schieramento ampio e non una maggioranza variabile (a dire il vero l’aveva detto anche Renzi in fase costitutiva del Pd, in riferimento alla riforma Prodi sul titolo V, tanto che era stato inserito nella carta dei valori costitutiva del Pd), nessuno che dica bisogna ricucire lo strappo di 7 mesi di campagna elettorale violenta e divisiva, per avere un futuro comune.
Nessuno che si chieda perché Berlusconi, quando la sua riforma costituzionale non dissimile da questa fu bocciata da un referendum, non abbia sentito la necessità di dimettersi. Forse che gli interessi del Paese erano più presenti a Berlusconi? Non credo, però nessuno dice che aver caratterizzato così tanto una campagna referendaria corrispondeva anche a un giudizio non nel merito ma personale. Ecco, io credo che lo statista, soprattutto di sinistra debba avere più a cuore il futuro del Paese che non quello proprio. Soprattutto se è segretario del partito che ha una schiacciante maggioranza alla camera e una possibile maggioranza in senato.
Ho ascoltato il discorso del premier stanotte e non ho sentito un ripensamento di fronte all’esito, ho sentito i ringraziamenti a quelli che hanno condiviso la sua battaglia e il silenzio sui cittadini che hanno pensato altrimenti. Ma un capo di governo con una maggioranza in parlamento rappresenta tutta la nazione, non solo una parte e questo fa lo statista a differenza del presidente pro tempore.
Credo che siamo davanti a una scelta tra chi pensa in modo differente dalla destra e dal m5s, ovvero si riconosce ciò che è avvenuto e cerca di capirne le ragioni e chi invece resta nel suo recriminare. Posso capire che si debba elaborare una sconfitta, ma non è attaccando l’avversario di un giorno che questa diviene una vittoria, anzi il problema è proprio quello di superare la bocciatura cercando nuove soluzioni. Vedremo se sarà così. Non c’è nessun sogno infranto, ma una realtà da gestire e un Paese diviso.

E chi ha condotto il Paese a una scissione tra il chi è con me e il chi è contro di me, dovrebbe rendersi conto che la grandezza è nell’unire non nel dividere.

che resterà ?

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Che resterà di questo tempo indeciso,

di questi giorni che scavano fossati,

che resterà delle pietre lanciate,

delle amicizie provate,

dei confronti infuocati,

che resterà delle speranze deluse,

degli scenari tracciati?

Rovine, resteranno rovine.

Dal dileggio non emergerà la speranza,

dei toni troppo alti resterà a lungo l’eco,

e chi si è riconosciuto non dimenticherà,

né per convenienza, né per stanchezza.

Di tutto questo c’è un peso crescente,

molti non hanno notato,

da tempo non guardano più,

però qualcuno se n’è stupito, 

altri cercano di pensare sia dovuto,

ma è un peso nel cuore che pulisce il superfluo,

che evidenzia destini sullo sfondo,

mentre trasale ciò in cui si è creduto.

Si è tracciata una riga 

e usato un bastone,

no, non sarà come prima,

e neppure come dopo,

come un tempo s’era sognato.

l’attesa

Gli anziani arrivano in barella con il cappotto e il cappello in testa. Qualcuno con la mascherina verde dell’ossigeno, guarda d’infilata avanti a sé. I volontari delle varie croci colorate spingono, affiancano, rassicurano e consegnano. Gli ammalati sembrano fiduciosi, oltre gli sguardi smarriti c’è la certezza di essere arrivati in un luogo sicuro. Guardare il mondo stesi e in movimento non è usuale, cambia le prospettive. Attorno ci sono gli altri in piedi, c’è confusione ordinata e la solitudine della condizione dell’inermità del male. Poi non ci sono alternative, in un pronto soccorso, si è nelle mani di una struttura che si spera adeguata. Loro hanno una corsia prioritaria, gli altri guardano e aspettano.

Le astanterie sono mantici che inspirano ed espirano sofferenti deambulanti: giovani, donne, bambini, anziani. Un’umanità dolente alle prese con questo nome strano: triage. Forse accettazione non andava bene, molti non capiscono cosa ci sia dietro al nome. Dovrebbero insegnare il significato profondo delle parole che dispongono di noi. Le persone arrivano, dicono cos’hanno a voce troppo alta, ricevono una fascetta da mettere al polso con un numero e delle carte da consegnare. Si siedono in file parallele e guardano uno schermo.

Nella prima astanteria ci sono un sacco di schermi che ti raccontano da quanto tempo stai aspettando. Non c’è il tuo nome, ma un numero e una priorità, affiancati dai minuti che sono passati da quando sei arrivato. Per passare il tempo, uno schermo passa un programma che mostra una famosa serie televisiva sui medici e gli ospedali americani. Una situazione comica: un ospedale che mostra un altro ospedale pieno di ammalati gravi. In questo modo inizia l’attesa di varcare una porta che darà inizio ad un percorso breve di spazio e lungo di tempo.

È così: il tempo perde misura e si sospende, indecifrabile. Ci sono astanterie prima e dopo la porta, la gravità separa le persone nel percorso: ci si rende conto che è meglio attendere. Quelli che aspettano sono i fortunati, che hanno la prospettiva di un rimedio a casa e attendono di tornarvi subito. Per loro questo luogo è la risposta ad un’emergenza che dev’essere ricondotta a domestica normalità.

Il pronto soccorso, è una struttura con regole coercitive e proprie, quando si entra si consegna il proprio tempo, se ne perde il dominio. In fondo il libero arbitrio e la stessa libertà hanno una relazione profonda con la proprietà del proprio tempo, qui si perde. Quando leggevo asylum ero uno studente di sociologia, allora sembrava possibile che il fuori e il dentro dovessero essere fatti coincidere per preservare l’individuo. Non è accaduto e la gestione quasi militare del servizio e la sua economicità, hanno ripreso il sopravvento con regole ferree. Non a caso si è diffuso il luogo comune del pronto soccorso come una prima linea, ma questo vale per alcuni pazienti, gli altri sono dentro ad un ambulatorione polivalente che funziona giorno e notte e discrimina l’urgenza da ciò che non lo è. Nelle astanterie non si sente la prima linea, c’è un bisogno e la sua risposta che si vorrebbe arrivasse presto. Sarebbe possibile con più personale, invece nasce un tempo asintotico che porta a qualcosa in un punto non noto. Si pensa, pare sarà così, però non c’è più l’esattezza dell’intersezione con un accadere certo in chi attende. Forse per questo si chiamano pazienti.

Rispetto alla prima astanteria, la seconda ha le sedie lungo le pareti, le persone si guardano, spesso telefonano. Quasi tutti parlano a bassa voce, raramente tra persone che non si conoscono. Ci sono i famigliari, oppure persone sole. Quando non parlano, ed è la condizione prevalente, gli sguardi si perdono. Ci sono infortuni sul lavoro, qualche disattenzione grave di casa, extracomunitari, persone in carrozzina, mali di strada. In corridoio passano le urgenze vere, parenti con la borsa seguono la barella, molti sono anziani, sia il ricoverato che chi lo accompagna. Gli sguardi si alzano per un attimo, osservano e poi ciascuno torna nel dolore fisico personale. A volte le voci si riaccendono, entra qualcuno di conosciuto, il silenzio resta nelle teste. Chi accompagna cammina, si siede a fianco, gira attorno ad una situazione inusuale e sostanzialmente priva di poter decidere alcunché.

Una signora è stata morsa dal cane della vicina, ha il braccio avvolto in un canovaccio di cucina. Si vedono i mesi di un anno passato molto tempo fa, i festoni natalizi, magari fu un regalo, adesso filtra un po’ di sangue. Ci saranno guai per la vicina, la denuncia che scatta con la prognosi. Il domestico si mescola con il contingente, con quella vicina la signora dovrà vivere ancora, sembra accomodante, sorride perché è passata la paura. forse resterà solo un brutto ricordo.

Qualcuno tace, altri si lamentano, scorrono le ore e le flebo. È notte fonda e il personale si riduce. Un signore arrivato da poco, ha una grossa borsa da cui estrae cose che guarda e poi rimette dentro. Sembra stia cercando qualcosa a cui attaccarsi, un punto fermo. Non lo trova e rovista fino alla stanchezza. Poi si assopisce. Anche il signore africano col berretto alla Andy Capp e un grosso zaino a fianco, si è assopito. Qualcuno viene dimesso, arriva una coppia di cinesi, lui ha il viso tumefatto e tagliato, si siede e tormenta una bottiglia di plastica mentre parlano tra loro con una velocità impressionante di consonanti e aspirate. Poi improvvisamente tace. È alto, robusto, quando lo chiamano fa fatica ad alzarsi. Intanto una signora è arrivata direttamente in pigiama e carrozzina. Si stanca presto e gira in corridoio. Non si può, la riprendono, lei protesta e continua. Credo sia una conoscenza abituale perché alla fine lasciano perdere.

Nella stanza accanto c’è l’astanteria dei ricoveri per osservazione, suona qualche campanello. C’è lo scalpiccio dell’infermiere e poi si spegne e con esso l’apprensione che generano i segnali in ospedale. È difficile scambiare dolore, forse per questo si parla poco. I parenti fanno pellegrinaggi alle macchinette del caffè e delle merende. Tutti attendono le dimissioni, per raccontare poi, a casa la fatica di queste ore e il male.  

È tutto molto bianco, la luce toglie colore ai volti. Intanto la notte diventa sempre più fonda. Le teste si appoggiano sulle spalle di chi accompagna, quelli soli dormono appoggiati al muro. Il sonno fa scorrere il tempo in attesa che si chiuda l’avventura di un male imprevisto. Credo sia sempre così, tutti i giorni e le notti, forse prima linea è il non cessare mai, l’avere le stesse cose che si ripetono con persone e dolori differenti. L’attesa è una spirale che si guarda dal girone successivo.