la montagnola dei papaveri

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Ci piaceva molto che sui mucchi di terra, residui di scavi dimenticati, oltre ai giochi nostri, fiorissero le erbe selvatiche e i papaveri tenaci.

Quando eravamo stanchi di guerre, lo stendersi sudati, a guardare il cielo, era soffice e fresco,

e tra rumori d’insetti e voci lontane, nell’aria, e nelle nostre bocche, si sentiva il profumo dei succhi dell’erba strappata.

Vedi quella nuvola è un dirigibile, no e’ un maiale.

E azzuffandoci un poco, e facendo la pace, arrivava la sera nei nostri occhi pieni d’azzurro.

bisogni

Bisogno di silenzio, di chiarezza di pensieri senza suono, bisogno di presbiopia e di particolari, di finti eccessi da far diventar normali.

Bisogno di dire con certezza cos’è per me l’amore, bisogno degli amici che non hanno già le soluzioni.

Bisogno di naufraghi con cui dividere vino e cibo che non si deve raccontare, di ragionamenti senza schemi e pregiudizi.

Bisogno di strade che parlino, di case che non tolgano l’aria, di complessità quiete, di dimostrazioni fulminee e semplicità eterne.

Bisogno di settimane che finiscono il venerdì sera, di negozi chiusi la domenica, di osterie compiacenti, di polpette recenti, di chiacchiere senza tempo.

Bisogno di tempo circolare che torna ed è amico, di leggerezza e riflessione, di strade nuove che diventano certe camminando.

Bisogno di te, di ciò che pensi, delle parole che ti fanno sorridere, dei giochi per finta, del tuo cascarci sempre.

Bisogno di chiarezza, di gesti gratuiti, di non avere ragione, di parlare aspettando una risposta.

Bisogno di attendere senza pena, di godere di ciò che ci viene donato, di lasciare che ciascuno sia come gli viene.

Bisogno di camminare nel caldo e nella luce, di guardare dalla finestra la notte, le stelle e luna.

Bisogno di sentirti e ascoltarti, del silenzio che parla, del buon giorno la mattina.

Bisogno di sapere che si corre solo per gioia, di guardare il grande e il particolare, di godere del tempo che trascorre.

Bisogno di me, di te, di tutti, senz’ansia e con dolcezza, perché così si vive e ho bisogno d’impararlo.

prendila così

Prendila così questa notte che non luccica abbastanza,

metti le labbra sulle parole che scivolano via,

pare difficile ricordare, 

eppure siamo noi nelle nostre imprecise coincidenze:

attimi, e poi calore sovrapposto, e scia, pulviscolo,

atomi di te nell’aria, odore, 

senso.

Prendila così questa notte che addensa le stelle,

tieni il silenzio sulle labbra,

stropiccialo e ascolta la tua lingua:

è tela, tela di tempo, trama,

occhi che si chiudono, sentire d’allora, malinconia,

amaro e dolce,

assieme,

dolce,

ecco.

Adesso respirami e racconta, ciò che non è stato,

quel preciso essere che poi non è avvenuto.

Convincimi che il futuro bluffava allora

ma non ha tolto nulla,

nulla d’importante per stringerti ora,

 a me, qui adesso, come fosse davvero nuovo il tempo. 

posti davanti al mare : Miramare

Dalle alte finestre a ovest, verso Venezia, scende il sole, e si riflette sul mare.

In trasparenza si scorgono i visitatori nelle stanze. S’aggirano, è la parola giusta quando si guarda e non si sente.

Nei giardini, digradanti verso il castello, il glicine comincia a riempire vista e aria. E i platani, piegati a pergola, mettono nuove foglie.

Verde nuovo, grigio, azzurro, bianco  e blu d’acqua: è il mare, che si frange appena sotto, sui resti di falesie antiche, sventrate dall’uomo.

Tornando da Trieste, mi fermavo in questo equilibrio di tristezza ed esplosione del vivere, ad attendere il tramonto.

Qui tutto finiva e tutto ricominciava.

Di primavera.

Incessante.

far finta di essere sani

Questo è un luogo particolare. Chi ci viene per scrivere, chi per leggere, chi per vantarsi, chi per chiedere aiuto. 15 anni fa neppure c’erano questi luoghi e le persone facevano lo stesso tutte queste cose. spesso con un contatto fisico. Pare sia meno necessario e la tecnologia ha creato un luogo di solitudini dove mettiamo in fila i bit cercando di farli assomigliare alla vita, a quella che abbiamo, a quella che vorremmo avere. Come se la realtà fosse eccessiva e avesse bisogno d’una valvola di sfogo: c’è chi sta meglio e chi sta peggio, ma qui non conta basta far finta di essere sani. 

Come stai? Benissimo. Ma tu cosa vuoi sapere davvero? Perché c’è l’obbligo a star bene, ad essere sani. E felici. Il resto disturba e non interessa davvero, se non a pochissimi e quelli te lo chiedono con la voce, con gli occhi, con le mani, e lo sanno. Ognuno c’ ha i suoi guai e questo è un buon luogo per raccontarli, sublimarli, capirli. Hai detto poco. Ma la solitudine non se ne va e dopo una sbronza di parole resta la sensazione che il mondo rarèfi, sfugga come aria e bisognerebbe inseguirla quell’aria, vedere dove va. Qui basta far finta d’essere sani.

continuità

Instancabili le rose rifioriscono, nel giardino abbandonato,

spargono petali,

sull’erba che si regola da sé nel crescere,

e sempre in alto cercano, gli alberi, la loro luce ed aria

senza incrociare i rami,

ché, crudeli di pudicizia, seccano le braccia che non amano,

e ancora i frutti s’appendono tra becchi d’uccello e foglie,

per poi rotolare sull’erba

a sciogliersi, nell’abbraccio con la terra:

tutto continua.

Eppure mancano i tuoi passi,

le mani a cogliere, e riordinare le confuse idee di piante e semi,

manca la tua voce che sussurrava ai fiori il crescere,

stanca di fatica, all’inizio della sera.

Le foglie faranno il loro lavoro, prive del tuo raccogliere, 

e la luce, ancora, filtrerà tra gli alberi,

komorebi, pare si dica da qui lontano,

ma tu non lo sapevi, solo ti fermavi

e detergendo il sudore dal viso, assorta, sù guardavi,

nella bellezza della luce verde,

come a recitare in te, una preghiera.

noia

Potendo scegliersi la noia opterei per quella inattiva, possibilmente gestita in solitudine. La noia in compagnia, impegna troppo e soprattutto incattivisce. La noia è priva di oggetto, ma spesso si svolge in luoghi dove di oggetti ve ne sono fin troppi. Gli oggetti non sono un antidoto alla noia. La noia dovrebbe sempre essere un fatto personale, anche quando si è in compagnia. Capirla nell’altro, lasciarlo silenzioso a gestirla. E invece quando ci si annoia, si cerca un diversivo che sotterri il problema. Spesso si cerca di respingere la noia con il rumore, con il gruppo. Non mi piace, aggiunge fatica e fastidio, fabbrica sorrisi e convenevoli privi di verità, diventa un esercizio che sposta dalla noia al malessere. Forse è una mia sensazione, ma nei discorsi, in questi luoghi pieni di persone perennemente in procinto di qualcosa, le parole sono bolle, che lente rimbalzano, spesso si ripetono, finché scoppiano senza lasciar traccia. Neanche una traccia d’umido, meno di una bolla di sapone. Si beve per noia, si mangia per noia, si parla (quasi sempre d’altri) per noia. Ci sono persone che riescono a divertirsi, annoiandosi, a me fa l’effetto contrario, dopo un po’ di questa immersione la spinta verso la porta è inarrestabile, qualsiasi cosa sembra un sollievo, uscire, uscire, aria. Ed uscendo si avverte ancora l’eco d’un saluto: peccato ci si stava divertendo. Se fosse vero sarebbe da grandi, uscire lasciando una punta di assenza, invece è la traccia di quei convenevoli che già annoiavano all’interno. La noia collettiva spinge alla falsità, diventa tutto fasullo perché solo il silenzio è l’ antidoto alla noia di un gruppo che non comunica davvero. L’alternativa è dire ciò che si pensa, senza cattiveria, ma sembra sia disdicevole, ed allora non si fa.  Non c’è via d’uscita, bisogna scegliere con oculatezza, e senza scopo lenitivo, le compagnie, perché il problema della noia in compagnia è che oltre ad annoiarsi, si annoia. Su di me questa violenza masochistica ha un effetto di blocco, si inceppa qualcosa ed i meccanismi del relativo, rallentano, ho la sensazione di annoiare, una specie tossica di noia entra in me, si è chiuso il cerchio, sono diventato causa della mia noia: annoio me stesso. Ecco perché me ne devo andare, non mi sopporto, devo tornare ad una noia solitaria, inattiva, compatibile, da meditazione. Magari prendo sonno.