Mi prende, a volte, la tentazione di tornare ai libri miei che tappezzano le pareti attorno. Alla musica che paziente attende d’essere ascoltata. Alla mia scrittura senza fretta, agli inchiostri, ai pennini e alla carta buona. A volte mi prende la necessità di prendermi tutto il tempo possibile, di stare in silenzio, di lasciare che il dentro e il fuori si parlino, e tutto si allacci e scorra. E’ la necessità di tirare il fiato, sentire l’aria che riempie, il buon sapore degli odori, i rumori di ciò che sta attorno. Così scorro con gli occhi i luoghi che conosco. Penso che ho bisogno di piccole, poche cose: le aromatiche sul terrazzo, qualche fiore che procede per suo conto, il cibo semplice. E gli occhi tornano sui libri, tanti libri, più di quanti mai leggerò, per tenere aperta la vita e la speranza, il futuro e il passato intrecciati. Ho la fortuna (e a volte è vincolo a capire) d’ una grande memoria che ricorda ciò che la rete della vita ha tenuto e messo assieme, ciò che è stato e non è stato. E in questa piccola pace sento l’equilibrio di quello che si raccoglie attorno e dentro me con rinnovato ordine: la passione, il tumulto, il rifiuto, l’amore. Il futuro e il tedio che con piccoli dispetti si confrontano. E penso allora che è tempo di tornare, ma non ancora tempo di chiudere le porte al mondo.
Un lettino riposto in un angolo, i muri gialli, l’aria che muove pochi panni stesi. Le terrazze sono vuote di sole, nessuna pelle attende di abbronzarsi, pochi passi frettolosi scaricano gli stendini. Pochi rumori di faccende e torna il silenzio delle case verso i cortili, si chiudono le finestre delle stanze da letto lontane dal traffico del corso. Facciate che non mostrano, che non devono mostrare. La filosofia zen stabilisce che una parte dell’opera dell’uomo non debba essere finita perché la perfezione è riservata alla divinità. I muratori di pianura mica lo sapevano, e neppure gli architetti, solo che gli pareva inutile abbellire ciò che non era visto da tutti. Così le facciate si mostrano sul corso, mentre qui ogni spazio ha un suo posto, una funzionalità che ha trovato stabilità nel tempo. Si sono radunate piante, montati condizionatori, scavati nuovi camini, chiuse verande, segnati i muri di nuove telefoniche comodità. Ciascuno per suo conto. E in questi lati nascosti è più esposta l’intimità del vivere segreto.
A volte bisognerebbe tranquillizzare i vicini. Fargli sentire che non siamo troppo strani. Basta una parola consueta, un augurio, un bacio. Poi chiudere la porta e ritornare a sé, perché è il caso che ha portato ad abitare le stesse scale, mettere muri e rastrelliere per bici in comune. Una osservazione sulla pioggia che stanotte batteva furiosa sul tetto, un sorriso perché è iniziato l’anno, e sarà buono, ma noi siamo gli stessi. Poi chiudere la porta e ritornare a sé. Ci sono sempre tante parole che non si riescono a comunicare. Meglio, disorienterebbero inutilmente, hanno altre orecchie che possono ascoltare. Le vite si osservano con occhi diversi, a volte neanche tanto diversi quando una dirimpettaia aveva sempre caldo e non si curava molto delle tende.
C’è chi fa l’entomologo e classifica, si stupisce, cerca di capire il meccanismo, trovare regole. Chi invece scivola correndo sulle superfici, si orienta sui sorrisi e sulle fronti aggrottate, ma dimentica tutto in un girare di sguardo. C’è chi assorbe e non s’accontenta, tace perché ha misura del dire e se parlasse sarebbe irrefrenabile come la pioggia di stanotte e allora ascolta, cerca di capire e se non accade mette da parte, capirà. C’è chi cerca d’essere specchio di ciò che osserva, accontenta, mima, dice le parole che si vogliono sentire, ostenta simpatia. Poi va oltre e riflette altre parole, altri volti, altri pensieri. C’è chi non si cura, a malapena saluta e prosegue la sua corsa, qualche volta si stupisce di non essere compreso. Molti mescolano tutto e distribuiscono un po’ di privato, un po’ di confidenza, un po’ di superficialità, un po’ di pettegolezzo. Che oggi non si chiama più così, ma gossip e sembra sia meglio e più allegro di prima, senza togliere quella soddisfazione di mostrare qualche intimità altrui. In fondo è l’antidoto quasi permesso alla riservatezza ufficiale delle vite, al pudore che non è quello naturale dei sentimenti, ma quello inculcato dei corpi.
Mah, che vuoi che ti dica, raccontami di te che mi sfuggono le parole comuni, dimmi. Se davvero mi interessassi vorrei vedere la tua anima, scavare assieme a te per capire se nella fatica ci incontriamo. Capire come mangi, bevi, sogni, quali sono le tue abitudini, dove ti rifugi quando ridi o hai paura. E invece è meglio parlare del tempo, del tetto e del colore che si scrosta sulle scale, dei cani che stanotte erano inquieti perché altrimenti vorresti sapere di me ed io non ho voglia di spiegare.
Allora accontentiamoci dei sorrisi fugaci, mettiamo assieme quello che si può, stringiamo legami dolci di partecipazione. Rassicuriamo, scambiandoci piccoli doni di cibo e tenendo per noi il mondo che viviamo davvero, fatto di parole difficili da dire, giudizi taglienti, convinzioni più forti. Viviamo il caso, che c’ha condotti assieme, con un sorriso, che vale, rasserena e poco costa.
Hanno steso un telo per terra. Verde con dei fiorellini rossi. Si sono appoggiati al muretto, sotto l’ibisco, e si sono riempiti di baci, di parole (immagino) dolci, di tenerezze e d’oscurità amica. Distesi, forse hanno fatto l’amore nel silenzio del vicolo, tra il verde, protetti dalla luce gialla del lampione.
E mentre salivo, le luci dei piani mostravano il solito granito delle scale, le porte scompagnate, le voci sommesse, le emozioni di chi vive, è stato allora che m’ ha preso una dolcezza profonda che profumava di umano. Perché l’amore circola attorno a noi e ci abbraccia anche se vuole attenzioni disattente, silenzi e teneri occhi. Ed è generoso, l‘amore, mentre ci ricambia la comprensione con gioia di vivere e infinite onde di dolcezza. Così pensavo, abbassando le luci per non disturbare e il vicolo mi sembrava casa e più caro.
Il cielo ha addensato forze nella notte, si sono svolti scontri immani nel buio, energie strattonate, confuse e infine sommate con immane potenza, sinché s’è rotta la trama del cielo. Così è iniziato un diluvio di acqua e di vento, che ha dissolto i sonni leggeri. Nel buio della stanza, il rumore sul tetto era dapprima morbido, poi è cresciuto improvviso, come di pioggia scagliata con rabbia. Il cielo non ha sentimenti, ma c’era molta violenza in tutto ciò, tanto che non soddisfatta, la pioggia, s’è mutata in grandine fitta, a scrosci. Si sentiva la bandiera sul tetto schioccare nel vento, e il rumore secco del ghiaccio faceva quasi male. Ci si rintana nel letto, s’ascolta e sembra non finire, si pensa ai rami spezzati, alle rose spogliate di petali, al gelsomino, ai fiori nuovi e a tutte le piante, che fiduciose hanno mostrato le foglie al cielo. Nel tepore del sonno perduto, si riflette sulla difficoltà della quiete e della bellezza. Così, infine, è scoccato il silenzio. Di colpo. e un’acqua gentile ha cominciato a ruscellare verso la grondaia, come a detergere le piante, il vicolo, le case. E il sonno, che tornava dopo la furia, s’è sciolto nella pace ritrovata, perché l’ira del cielo non ha memoria.
e per chi vuole ascoltarla tutta, Kleiber è sempre una gioia e una scoperta.L’applauso finale è una delle cose più emozionanti che abbia mai sentito alla fine di un pezzo musicale. L’indecisione dopo il silenzio, la paura di rompere una magia con l’applauso, poi l’entusiasmo liberatorio e la sensazione dell’ assoluto che si era udito e non si poteva ripetere. Commovente e unico :
Ho lasciato i vetri al furia di stravento e le gocce: tic, tic, tac, tic, tracciano sentieri d’acqua nel buio. Stanotte, credo, ancora pioverà. L’acqua dai coppi luccicanti correrà verso lo scuro vicolo, in un gorgo sordo di lamiera. E leggerò quel romanzo inutilmente lungo, finché gli occhi passeranno su una frase quattro, cinque volte senza capire. Perché non c’è più niente da capire, solo spegnere e ascoltare la pioggia scivolando nel sonno. C’è un grande equilibrio nell’acqua che scende, una pace del dovuto e se il senso delle cose è ancora da scoprire, la pioggia dice che c’è tempo, lavando l’ansia della fretta.
Non c’è più niente da capire stanotte, solo sentire, ascoltare e talora provare, lasciando che tutto trovi la sua importanza domattina.
La nebbia è scesa improvvisa, ha riempito lo spazio tra le case, adesso fuori è tutto ovattato, la luce piove dall’alto, riflette ovunque, come se venisse seminata da un una mano sapiente. Sembra un film di Kurosawa dove nella nebbia si cerca l’uomo tra gli impulsi e se non lo si trova è perché la nebbia è un contenitore, non un’immagine di noi. Anche ieri notte c’era la nebbia, ma è d’uso da queste parti. Si fermava in pozze discrete ai piedi dei lampioni, illuminava scie d’auto e figure imprecise di passanti. Rade, le une e le altre, avvolgeva e lasciava.
Il tramonto non s’era visto, ma una luce rosata improvvisa aveva investito tutto, riempito ogni spazio, non veniva da ovest, era senza luogo, ovunque, e talmente innaturale che s’ era accompagnata ad un silenzio inatteso. Poi è diventata violacea ed è sfumata, piano nella sera, lasciando un ricordo d’ eccezione, di un gesto senza mano. Per descriverla si poteva usare solo la parola che diceva com’ era venuta: elargita, donata senza appello. E chi la coglieva era stupito, sentiva che non aveva relazione con sé, con i propri meriti o colpe, ma apparteneva al fatto di essere, qui ed ora.
Sono giorni di nebbia, mi piace il suo regalo che porta verso il silenzio, il meditare, restando tra gli altri. Si liberano i sensi quando non c’è molto da vedere fuori, sento profumo di mele conservate in soffitta, di legno scaldato, di carta, d’inchiostro, rumore di pacchetti stropicciati, di passi frettolosi, sensazioni di freddo che si chiude fuori del giaccone, odore di dolce, di pane cotto nel forno. E tutto è più lento e silenzioso, anche la notte arrotonda i suoni, li consegna a chi, insonne, ascolta.
Poi, stamane, il giorno, dapprima è stato limpido nel freddo pungente che ha liberato l’aria dai vapori, ma poi s’è arreso al tepore ed ora accoglie la nebbia. Ed io, l’accolgo e la tengo per sfumare i miei contorni, le punte che fanno male e basta. In fondo, se penso all’anima, penso sia un’ellisse tondeggiante, una nuvola che contengo e mi contiene.