‘900

Con la morte di Fidel Castro, finisce il novecento perché ci è nato. I millennials non l’hanno nemmeno assaggiato questo secolo breve e lunghissimo. Sono finite le ideologie, non tutte, è rimasto il capitalismo. Sono finite le passioni pubbliche, collettive, annegate in piccole pozzanghere di soggettività. È emersa la solitudine, il dominio della tecnologia, l’eclissi della conoscenza. La politica rimane sempre più nuda e si inchina alla finanza, ai poteri forti e senza nome.

Un oceano di parole investe ciascuno di noi, connessi, non si sa a cosa e a chi. Sempre più virtuali e disperati in cerca di fisicità che durino, che abbiano un senso si è prigionieri del presente. E il nuovo stranamente soccombe davanti al vecchio che comunque un’ impressione di solidità l’aveva. Il sogno era coniugare le libertà individuali con quelle collettive, fare della terra un mondo di possibilità e portare la serenità nella politica. È questo il dio che è fallito: il pensiero di un destino collettivamente positivo e individualmente felice.

Con Fidel Castro finisce la generazione del ’68, finiscono le battaglie per le libertà altrui, subentra la consapevolezza che le proprie sono precarie quanto mai, che il mondo si avvia verso una stagione fatta di contrapposizioni e di muri. Colpito a morte il romanticismo finisce con le sue deviazioni sanguinarie; un acuto si è levato nel teatro, è stata cantata un’ elegia dell’uomo, del primato dell’ideale, della libertà, ma la platea era vuota. Che faremo senza passioni, se i cuori non batteranno più forte resterà solo la commiserazione. In fondo il ‘900 è stato il secolo delle grandi vittorie dei piccoli contro i giganti, è stato il secolo di Stalingrado, del Piave, della battaglia d’Inghilterra, dei pacifismi e delle suffragette, dei maquis e dei partigiani. È stato il secolo degli anarchici a Barcellona, della resistenza a Praga e a Budapest, delle disselciate strade di Parigi. Un resistere e riprendere fino alla vittoria spinti da cosa, se non da un ideale collettivo, sbagliato, crudele, ma forte e saldamente poggiato sull’idea che il futuro migliore e di tutti, era possibile. La lunga battaglia di Fidel Castro esemplificava questa vittoria dei molti, del popolo, contro la dittatura. Non era forse romantica la vita del Che, quella dei descamisados che finito il compito in patria, andavano in Bolivia o in Angola a portare un progetto di liberazione?

Molte idee erano sbagliate, ma i dittatori del ‘900 non sarebbero stati sconfitti se quelle idee non avessero tenuto. In fondo le dittature erano anch’esse figlie di quel secolo che compiva la glorificazione della borghesia, del capitale e della tecnologia applicata alla guerra. Nascevano dal connubio tra una visione dello stato e dei popoli che prometteva benessere e ordine, terra e sangue, ma usando l’arma della conquista, portando la differenza e la superiorità degli uni rispetto agli altri nel dna del potere e facendone una volontà di potenza. Il ‘900 ha contenuto i contrari, le idee si sono espanse sino a entrare in conflitto con le coscienze. Spesso, hanno vinto le seconde producendo nuove idee, nuove provocazioni. Quando gli assiomi delle ideologie penetravano davvero nelle menti, si generavano gli anticorpi e altre passioni accompagnavano la distruzione dei paradigmi delle prime. È accaduto ovunque, dalla politica alla scienza, dall’economia ai diritti individuali, dalle libertà formali a quelle concrete. Poi il secolo si è affievolito, la libertà ha cessato di infiammare i cuori sostituita dal benessere, le grandi scoperte sono diventate meno decisive della tecnologia, la stessa ragione si è relativizzata ammettendo come prassi l’ossimoro.

Siamo individui e popolo, ma non attraverso un processo di coscienza, bensì insieme con una prevalenza schiacciante dei primi: una somma di individualità concorrenti. L’umanità è divenuta essa stessa terreno di battaglia per l’individuo, una guerra permanente di tutti contro tutti. Con le passioni che s’assottigliano, anche i sentimenti diventano più precari: oggi ci si infiamma per l’uno, domani per l’altro e non parlo di amori ma di una precarietà del campo in cui si è. L’anomia, troppo spesso evocata nel finire del secolo, ora è parte integrante del processo che tampona l’isolamento con l’illusione del virtuale. Se ho tantissimi followers mi acconcio a loro, li devo tenere e mi adeguo al loro pensiero medio. Esattamente come fa in continuazione la politica e l’economia consultando le tendenze, le attese, le mode, intese come atteggiamento prevalente. All’umanità e ai suoi bisogni collettivi si è sostituito (sinonimato) il mercato, che ci vuole singoli, interagenti con l’oggetto del desiderio, mutevoli per necessità produttive. L’io si esprime nella scelta oggettivata e infatti il successo di mercato è il risultato di una lotta che piega i flussi di pensiero verso le cose. Le passioni hanno a che fare con i bisogni e né le une né gli altri possono essere mai completamente soddisfatti. In fondo è la loro bellezza perché inesausti spingono l’uomo in avanti. I desideri si saturano nella soddisfazione, digeriscono e si trasferiscono verso un nuovo pasto che dev’essere a breve per esigenze di produzione. I corpi perfetti praticano la bulimia del desiderio e non lo mutano in passione, si occupano del puntuale e non del contesto.

Finisce il romanticismo, il ‘900 breve e cruento, finisce un’epoca. E noi come vivremo nell’età senza orizzonte?

Hasta la victoria siempre comandante Fidel. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=Y07FZfHzHrQ

Il tempo ha un suo tempo. 

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Le settimane corrono, è già lunedì sera:  come passa il tempo. Già e come lo facciamo passare? 

È una domanda che mi faccio quando vedo che mi sfugge via, che non sono i giorni o i mesi, ma gli incontri e le persone che restano. 
Di queste settimane di confronti referendari, di incontri di lavoro, di giorni d’agenda fitta, posso dire che sono volate insieme alle incazzature, alle discussioni È rimasta la sensazione crescente che stia avvenendo una rottura importante nella difficile coesione del paese. Lo ricorderemo questo autunno del 2016. Ma questa è una considerazione che colloca avvenimenti in uno scenario possibile.
Il resto si stratifica in una visione quasi atemporale: è il presente in cui viene eletto Trump, e non sappiamo cosa farà ma ci pare nulla di buono e allora sembra sia eletto da chissà quanto tempo e invece non è ancora presidente. Questo è un tempo comune. Pubblico. In cui avvengono cose che ci riguarderanno a lungo e ne possiamo parlare assieme. Sembra che questo sia il tempo della storia che davvero ci riguarda, ma noi non lo sentiamo per davvero. È come vivere fuori casa, va bene anche a lungo, ma poi si ha voglia di tornare.
Nel frattempo agiscono altri tempi personali. Incontriamo una persona importante, vediamo qualcosa che ci scuote dal torpore dell’abitudine e quella data acquista un tempo nostro. a volte condiviso.
Quello è stato un tempo che appartiene a noi, che non si mescola sul resto. Io lo chiamo il tempo dell’eccezione per contrapporlo o affiancarlo al tempo dell’abitudine.
Sul tempo dell’eccezione ci si può esercitare. Basta prendere un foglio A3 e cominciare a segnare gli avvenimenti che ci riguardano e che ricordiamo. Serve un foglio abbastanza grande, non perché gli avvenimenti debbano per forza essere tanti, ma perché a lato si mettono le glosse del ricordo e queste riempiono di piccole note il tempo, lo gonfiano di ricordo. Man mano, ciascuno con una sua cronologia, da sinistra in alto oppure da destra, o dal centro se ci pensiamo il cuore del nostro tempo, le cronologie perdono il senso e diventano l’eccezione, la stratificazione che ora siamo. Il tempo acquisisce una dimensione di rilevanze, di gerarchie. Se il foglio non basta bisogna ricopiare su un A2, ma ancora cambieranno le prospettive nel farlo. Oppure si seleziona chi davvero ha lasciato traccia temporale. Ci si accorge che l’eccezione era una norma meno frequente, che il tempo ha avuto uno scorrere profondo e amico. Non ha sottratto, ma ha sempre aggiunto.
Quello che scorre via è il tempo dell’abitudine, è preordinato, si è già divorata l’attesa. Come in una discesa, acquista velocità, era luglio e tra poco ci saranno le feste, ma cosa è accaduto nel frattempo? Se ci penso, vengono fuori fatti personali, cose archiviate con cura e piene di significato. Cronos non mangia più i suoi figli, ma essi vivono per loro conto e gli lasciano divorare l’abitudine. Rompere le abitudini è un bel modo per affamare il tempo.
E torno all’affermazione iniziale: non ho bisogno di far passare il tempo ma lo devo mettere al mio servizio. Il tempo è uno strumento che vive di vita propria, non necessariamente la mia, mi serve ed è neutro rispetto a me. Se mi riguarda passa veloce, rallenta, s’inverte (quante volte abbiamo fatto cose che appartenevano ad un altro presunto tempo e ne abbiamo poi sorriso oppure ne siamo stati rattristati) oppure, semplicemente è uno dei miei diversi modi di vivere. 
Il tempo ha un suo tempo. 

appunti

Nenia cromatica

Pastoreau ha scritto un nuovo libro, l’ha dedicato al rosso. Dopo il blu e il nero, prosegue il viaggio di questo esperto di storia dei colori. Ha un solo difetto e un grande fascino: il suo editore italiano lo pubblica a prezzi davvero elevati. La qualità c’è tutta ma non sono libri da grande diffusione ed è un peccato. Il fascino è legato al tema del colore, una piccola passione meditativa. Ho imparato a conoscere Pastoreau attraverso “i colori del nostro tempo”. La sua scrittura è spesso sorprendente, le osservazioni puntuali, mai scontate, il tratto semplice, indagatore e minuzioso. Per coetaneità lo immagino diversissimo eppure affine. Da luoghi diversi abbiamo attraversato lo stesso lasso di tempo ricco di simmetrie, di notizie comuni. È partito dall’indagare simboli, anche quelli araldici, e mi sono chiesto com’è iniziato quel suo interesse, perché erano cose che mi piacevano molto nella mia adolescenza dissennata. Ma lui lo ha fatto benissimo, con metodo e discernimento, per me era una oscura spinta a confrontare, capire, a usare inutilmente (così dicevano i miei insegnanti) il mio tempo. Poi le cose vanno altrove, però le curiosità rimangono, come le tracce delle passioni che sono ferite mai ben curate.

Cosa c’è di più minuzioso di un colore? Non abbiamo nomi sufficienti per descrivere le variazioni di una radiazione elettromagnetica che supera gli occhi, mette in moto emozioni, organi, inquietudini, rilassatezze, spinge all’azione o la deprime, cambia l’umore. E chissà quant’altro muove un colore in quei circuiti che si alimentano di ricordi archetipici, sensazioni, bisogni.

Oggi se chiedi una preferenza, pare che il colore più usato nelle risposte sia il blu. Siamo nell’era del blu che fa distinto e poi è compassato il giusto. Non passa di moda nonostante gli attacchi dei colori pastello, dei laccati, degli elettrici. Però così le donne non si vestono più di rosso e a me spiace, perché un umore che grida di sé diventa sommesso. Cambiano i tempi e i colori. Anche le rivoluzioni hanno lasciato il rosso, sono diventate arancioni, verdi, amaranto, e non ci siamo accorti a tempo che l’effetto non era lo stesso. Disattenti come al solito.

Mi piacerebbe che i pensieri avessero colore, che ci fosse un personale dizionario colorato delle sensazioni, con cui poter comporre cantilene e canzoni, quartetti e sinfonie. Scambiare colori con parole appropriate, giuste nell’intensità, delicate nella comunicazioni. Mischiare il colore nel conversare. Avere piccoli haikù che siano la nenia cromatica del sonno, dell’approfondire, dell’iniziare a leggere, del sedersi e guardare. Del muoversi e camminare. Qual’è il colore base del camminare per me stamattina ? E con quello andare.

Questa serie di pensieri/appunti, proseguirà. Ci sono dei temi che mi sollecitano, ma sono miei e chissà in che ordine. Se volete contribuire, lo spazio è aperto:

Decimare.

Ridurre il numero di componenti, delle cose.

Qui tutto si rinnova i cicli si completano.

Accumulate: accumulare accumulare accumulare smaltire smaltire smaltire

Gli spietati baustelle

Beethoven fantasia corale

Elgar sinfonia n.1

Benvenuti in tempi interessanti

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=oEWDuwojzlE

30 settembre 2016

Amica mia cara,

ho messo l’inchiostro mocha nella stilografica, dismettendo il nero che da troppo tempo tempo rendeva i pensieri più netti sulla carta. Li pensavo dubbiosi e aperti, i pensieri, e loro con quel nero diventavano senza alternative, tanto che alla fine mi sentivo chiuso dalla mia stessa logica. Privato del dubbio. Così ho tolto il nero e sostituito anche le tende estive con queste più chiare che ora si gonfiano di luce. Sul mio tavolo, sempre troppo ingombro di sollecitazioni, di malie, di carte e ritagli, di penne, matite, c’è ora una luce calda che fa risaltare le possibilità del disordine. Interiore ed esteriore, come ai bei tempi. Però attorno vedo le cose in fila, consequenziali, e per quanto capisco, vorrei scriverti del loro stato. Mettere dei punti fermi in questo fluire dove tutto è relativo e il seguente annulla ciò che l’ha appena preceduto. Non è il panta rei eracliteo, quello che ci attornia, è un percorso di singulti, un film tagliato a pezzettini e rimontato, dove la ricerca del senso, alla fine, ci lascia disorientati e un po’ più soli. Non l’avevamo previsto, vero? Non io almeno e neppure tu, anzi ci pareva che tutto dovesse aprirsi, includere, essere più libero e crescere nel nuovo, invece nessuna di queste attese si è avverata, e ci troviamo stanchi e pieni di dubbi. Su di noi, anzitutto, mentre ci sono avversari agguerriti che sfondano il fronte delle certezze, che conformano nuove abitudini, che irridono e rendono ridicoli gli sforzi per tenere assieme, discutere, riflettere. Ricordi? A noi sembrava che questa fosse un’educazione permanente, un modo per andare avanti tutti assieme. Ora non importa chi è avanti e chi indietro e così emerge un disagio sterile, senza analisi né cura, un confronto di infelicità che trovano consolazione in chi sta peggio.

Mi chiedo quante categorie, quanti punti fermi siano rimasti di ciò che abbiamo vissuto. I tuoi anni ti sono molto più amici dei miei, ma non ci si badava poi tanto allora e la tua vita è stata un affermare la diversità, la necessità di essere te stessa. È una parte grande della tua bellezza, del fascino che porti con te, ma credo che anche tu avverta che ora è più difficile essere se stessi. Adesso è più complicato appartenere a uno di quei gruppi tumultuosi che piacevano ad entrambi, dove la discussione durava fino a tarda ora, irta di logica e avvolta di passione.

Dove farla questa discussione, adesso ?

Dopo le riunioni, inzuppati di fumo, uscivamo e sotto qualche luce e balcone si continuava finché non c’era la protesta o il catino d’acqua di chi andava a lavorare presto e ridendo si tornava a casa. Anche noi andavamo presto al lavoro, ma quel tempo ci sembrava irripetibile e prezioso. Ci pareva di essere nel mondo, di contribuire a cambiarlo.

La distinzione era quella di Eco, tra apocalittici e integrati, adesso è tra digitali e analogici. Credo di essere irrimediabilmente analogico, di ragionare sempre per alternative con una pluralità di possibilità. Hai mai pensato a come cambiano i ricordi tra l’analogico e il digitale? Il nostro ricordo interagisce sempre con il presente, ne è modificato. Anche la scelta dei ricordi emerge da un sentire o da domande apparentemente scollegate. Il digitale, invece, è un processo logico, si sa cosa si cerca. E lo si trova nella sua incontrovertibilità, nella precisione delle parole e delle immagini che riportano date e minutaggi, persino il luogo diviene certo, e tutto ci mette soggezione con la sua definitività. Forse per questo lo accumuliamo, perché sembra un punto fermo e ci parebbe di cancellare ciò che siamo stati, ma alla fine di tutto quel documentare non si sa che farsene e lo si sente un giudice severo e sterile più che un amico che cresce con noi e ci modifica. Insomma è inutile come una cattiveria. E così accade in molto d’altro che un tempo faceva parte dell’universo del pressapoco ed ora è così preciso. A noi pareva ed era già molto, le cose si precisavano strada facendo, spesso mai del tutto, ma una direzione c’era.

Cosa ci sta accadendo amica cara, perché siamo così soli, contrapposti, insicuri e senza l’idea di dove vogliamo andare? Mi ripugna e respinge, sia il pessimismo che livella tutto in un male già vissuto e l’ottimismo forzato che non guarda la realtà, il disagio, la sofferenza. Credo che i cinici siano un po’ vigliacchi, per non soffrire si ritagliano uno spazio da cui osservare la sofferenza altrui e si congratulano con se stessi di esserne fuori. Anestetizzati, non aiutano nessuno, perché la sofferenza deve fare il suo corso. È la vita, dicono. Ma anche gli ottimisti forzati hanno una caratteristica che non me li fa sopportare, sono infingardi e perseguono la cecità selettiva. Confondono la loro attesa con la possibilità reale e sono divoratori di presente. Lo mangiano senza ritegno sottraendo agli altri il futuro. Propongono il proprio modello come assoluto e dissipano le possibilità di essere assieme perché chiunque non la pensi come loro viene escluso dal migliore dei mondi possibili. Il loro. E non hanno dubbi.

Noi forse di dubbi ne avevamo troppi, tu sai di che parlo: troppe domande, troppo preoccuparsi per gli altri, per i compagni e per quelli che non lo erano. Eravamo davvero un’entità collettiva con pensieri, destini, desideri e bisogni singolari, ma assieme. Adesso il dubbio è stato spazzato via e ci pensa la realtà a fare giustizia. Come la fa lei, senza guardare in faccia nessuno.

Tempo fa avevo aperto un blog, essilio, in cui pensavo di raccontare le mie crescenti difficoltà all’interno del mio partito che sentivo mi sfuggiva e non rappresentare più l’area di pensiero, di attesa di futuro in cui, assieme a molti altri, mi ero formato. Vedevo questa emorragia silenziosa di passioni che si spegnevano, di ideali che diventavano un peso e un errore se confrontati ai risultati. Sentivo che il futuro per cui mi avevo lottato era caduto sotto l’orizzonte e la vita mia, spesa tra lotte sindacali, politiche, l’impegno amministrativo, il lavoro e le sue scelte sembrava se non sbagliata, inutile. Mi sono fermato dopo pochi post, perché mi sono accorto che facevo parlare l’amarezza e non l’analisi, che quello che scrivevo diventava il diario di una sconfitta personale e collettiva e che questa percezione era meglio lasciarla scrivere ai fatti, ai gesti, sennò ci sarebbe stato il livore e questo non me lo potevo, e volevo, permettere.

Però le cose mutano, amica mia, è passato un anno e tutto sembra così distante anche se in fondo i mutamenti li abbiamo davanti, non a consuntivo. Riprenderò a scrivere di politica, di posizioni mie, perché la politica è sentimento se riguarda il rapporto tra noi e gli altri; che non sono altri ma persone. Riprenderò a scrivere di sentimenti, di realtà come la vedo e quindi di dubbi. Mi manca molto la vicinanza, l’amore che sgorga dalle cose, gli occhi che si illuminano, la voglia di abbracciare e il silenzio che l’accompagna per condividere a fondo l’esserci. Mi manca questa dimensione che è parte di un condividere e che non possiamo riservare all’eccezione troppo spesso fatta di negatività, di disastri. Mi manca proprio il condividere, la parola, gli occhi che sorridono, l’ironia e la voce che tace in un silenzio che ancora dice. Mi manca, dico, ma intanto ci sei, e c’è la vita, ci sono le idee e noi, assieme a tanta stanchezza, indomiti. Ci sarà modo per dircele queste parole, e per me, di fare esercizio d’ironia per stemperare ciò che sembra troppo grande, ma so che ti piace ricevere lettere, meglio se scritte a mano, così ti scrivo. 

È il romanticismo che ci ha fregato, amica mia, o forse è stata la nostra grande risorsa. Comunque sia, è bello aver vissuto e vivere così.

Con un abbraccio che duri quanto serve e un attimo di più.

willy

http://https://www.youtube.com/watch?v=_1A980UCdc4

un dialogo per capello

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Lei non immagina di avere tutto il tempo che le serve? 

Siamo in piedi, la mano ancora stretta nell’accomiatarsi, la luce alle sue spalle. 

No, credo di no. 

Strizza un poco gli occhi, mi mette a fuoco, vorrebbe capire dove vado a parare, ma sorrido. Il sorriso nasconde le intenzioni. A volte.

Vede, ha già dei rimpianti.

Curviamo entrambi le spalle, c’è un effetto specchio che costringe ad imitare inconsciamente chi si ha di fronte, solo che riesce meno bene ed è un accondiscendere. Credo faccia parte del comunicare.

Crede di averli solo lei i rimpianti?

Bella mossa, la parità mette soggezione, annulla il piccolo vantaggio dell’aver detto per primi e rende orizzontale il dialogo. Quante volte cerchiamo un maestro, un tutore, un appoggio sicuro e per questo dimentichiamo che esso, al pari di noi, è soggetto agli umori, ha tristezze, sentimenti, forse passioni che possono evolvere nel corso della giornata. Quante volte parliamo con un’icona pensando che essa sia ciò che rappresenta e non una persona. 

No, certo. Ma alla fine ciascuno si tiene i suoi, li considera così importanti che quelli degli altri sono di serie b. 

È ora di concludere, le mani si lasciano, rimetto lo zainetto ed esco nel buio elettrico delle scale. Scendendo penso che se si guardano le vite, ciò che è accaduto in esse, tutto assieme, con le loro difficoltà e le scelte obbligate, ciò che si vede è un pastrocchio. Un’accozzaglia di colori senza capo né coda, al più gradevole alla vista ma difficile da trattare senza sporcarsi l’umore. Penso che il tempo è ciò che ci differenzia davanti alle cose, che cogliere l’attimo è diverso dal meditarci su, ma non vale solo per il singolo gesto: è qualcosa che si prolunga in avanti e indietro.

È vero, io penso che ci sia tutto il tempo necessario e che ci sia pure un bonus per perdere tempo.  E lui non lo pensa.

Penso che l’importante ci riguardi, ma che esso si ridimensioni a seconda di ciò che facciamo o siamo. Per chi è innamorato il tempo dello stare assieme non basta mai e invece per chi attende, il tempo è sempre troppo, ma non è questo che intendo, è il far accadere le cose che mi interessa e per queste il tempo sembra dentro di noi finché vogliamo davvero che accadano, poi sfuma. Forse il rimpianto è la somma di tutti quei tempi sfumati, di quei tempi stati che non si possono ricreare più. Il πάντα ῥεῖ di Eraclito portato dentro di noi che guardiamo la somma di ciò che è stato e poteva essere.

È un cartone di uova rovesciato sul pavimento: i colori si mescolano, il malanno è fatto, bisogna pulire, ma per un momento guardiamo ciò che si è creato. È privo di senso eppure ha una sua identità. Se il pavimento è sufficientemente colorato, persino una gradevolezza. Se fosse su una tela appesa si cercherebbe un senso al suo interno. E invece quella mescolanza di ragioni un senso non ce l’ha, è stata e ciò che si può attendere, oltre a pulire, è che alla prossima occasione un senso venga dato, un positivo per noi si attui. Per questo penso ci sia tempo.

http://https://www.youtube.com/watch?v=LgY3WdGhfX0

scritture e segni

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Una narrazione epica di eventi e giornate così comuni e apparentemente banali che solo la luce del vederle dal di dentro, riscatta.
Un mescolarsi tra pensieri subitanei, riflessioni ancora indecise, ingressi inconsulti d’altri pensieri, sollecitazioni apparentemente distanti e contaminanti. Tutto poi torna ancora sul singolo evento per leggerlo nella meccanica, scomporlo e ricomporlo scarnificato in simbolo: ecco la fisiologia dell’ideogramma.
Così la giornata, lo scorrere diventa immagine, calligrafia e si snoda, inanellandosi, dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra, incontro a ciò che viene ed è già, a suo modo, avvenuto. Incomprensibile solo per un niente, quello che manca per afferrare il senso, ma è lì, ad un passo, sulla punta d’uno scatto di comprensione, d’ intelligenza. 
Essere sacerdoti d’un definitivo che di continuo si compie e non è mai apparenza, ma approssimazione del vero più profondo.
Ecco il senso del bianco, del riempirlo di segni, del guardare -e guardarsi- stupiti e complici.

spine irritative

D’autunno e in primavera il rapporto tra apparato digerente e cuore si fa più stretto e il primo può attivare delle “spine irritative” che innescano altre disfunzioni. Meglio proteggere.

Così ha detto: spine irritative.

Me le sono figurate lunghe, acuminate come quelle dell’albero di Giuda o di certi cespugli apparentemente inestricabili e invivibili e che invece sono albergo condiviso di rettili, uccelli, piccoli animali da sottosuolo. Mi sono ricordato di mio padre che nelle stagioni di passaggio sentiva acutizzare l’ulcera, regalo di guerra, e mangiava poco, piegava la bocca per il dolore e taceva più del solito. Queste due parole, quasi ossimori, perché la spina non solo irrita ma fa male, conducevano al pensiero che siamo noi a portare dentro le cause, e a contenerle assieme agli effetti. E, pensavo, che ciò accade ovunque ci sia un rapporto in noi, di piacere e dolore, anche nei sentimenti, anche negli amori che pur quando passano, poi i ricordi riacutizzano. Come le stagioni di passaggio che, indecise sul da farsi, intanto cominciano a mettere in discussione equilibri, propongono svolte ancora indeterminate, scuotono tra euforie e depressioni il quieto vivere deciso. Le stagioni del dubbio e della relazione non possono che produrre malesseri irritativi, mi dicevo.

Sono spine irritative che producono effetti altrove – pensavo – complessità di gangli nervosi, circuiti, tutto questo meraviglioso gravame di connessioni, interno e interagente con l’esterno, di cui non si può cogliere davvero la causa ma solo l’effetto. Noi siamo quello che mettiamo in noi, ma non è a costo zero, perché siamo davvero molto più coesi e complessi di quanto pensiamo ed è in noi che il battere d’ali lontanissimo provoca uragani incontenibili.

Così pensavo, camminando sotto i vecchi portici che conosco dal mio sempre. E intanto notavo un nuovo finger food nella strada che un tempo portava al monte di pietà. Lì c’era un artigiano che un tempo mostrava il suo lavoro nel farsi, circondato da attrezzi, con una vetrina scura pena di oggetti da cui lo si vedeva lavorare. Ora era arrivato Hopper senza essere Hopper e la vetrina era molto illuminata, con quella luce fredda che consuma poco e non riscalda il cuore , ed esibiva una scritta da fantasia liceale: idem con patate. Burger, würstel e cartocci di patate con salse varie-gate. Così diceva ed era un locale che si giocava l’apparenza dell’anonimato, ostentava colori indecisi come il crema e il marrone, tagliava la lunghezza della stanza con un bancone spoglio. Sembrava che l’unica gloria fosse il luccicare dei forni. Guardavo curioso la solitudine del rosticciere, l’oro fritto che s’ammosciava nella patata in attesa, le pareti che già cominciavano ad invecchiare nel pulviscolo d’olio. E sentivo la consistenza della spina irritativa, quella che volevo raccontare al medico e che non dipendeva dalle stagioni, ma era fatta di un disfarsi dei ricordi, delle parole, del linguaggio, delle abitudini, delle qualità. Confondendo la bulimia con il desiderio della pienezza, del benessere perenne, la quantità diviene spina che lancia segnali al cuore -pensavo- e il degrado non è cambiamento, è indecisione del prendere in mano i destini. Vigliaccherie per interesse, ignavia, e così le passioni si deterioravano in una luce senza sole. Volevo dire al medico del disgusto crescente che prendeva quando si guardava il vuoto senza essere vuoti, volevo narrare la difficoltà di dare nome proprio alle cose, di essere precisi e insieme dubbiosi. Volevo dirgli che scomporre le passioni in coriandoli non ha mai giovato a nessuno. Ma come fare, come dire il disagio che non impedisce di vivere ma lo disorienta?

Spine irritative, dentro, fuori, e acuzia di stagione. In fondo è ottimistico pensare che sia la ciclicità della natura che ci richiama, che basti un gastroprotettore per rompere un legame doloroso e intanto attendere, pazienti, le infinite rinascite che riparano alle vite ammalorate.

Rassicura pensare ci sia sempre una soluzione che non svolta davvero, la possibilità di attenuare il dolore che non guarisce, infine trovare un equilibrio con ciò che vorrebbe scelte e attenzione.

E allora, camminando, pensavo che dovremmo trasformarci in quei piccoli uccelli che vivono tra i rovi e trattano le spine come consigliere e volano e tornano felici, in quei percorsi che solo loro sanno.

Solo loro e nessun altro.

http://https://www.youtube.com/watch?v=0YJ55DWCc-s

del dare confidenza

In questo percorso virtuale (ma cos’è virtuale se ci si racconta davvero?) attorno ai lati in penombra trovo che il dire sia una opportunità e un limite. E’ una condizione innata, quella della propensione al fidarsi, al lasciar entrare, ma fino a che punto questa positività resta tale? L’ospite poco sensibile urta la suscettibilità, non si fa domande, scambia la confidenza con il permesso assoluto, l’arbitrio dell’essere.

La giusta distanza è un mestiere difficile; proprio per ridurla. Un tempo le regole aiutavano, il lei iniziale, la creanza distinguevano la discrezione e la imponevano come tratto dei rapporti. Eppure ci si diceva molto, forse più di adesso. Tutto formale? No, la distanza iniziale, il ritegno, faceva da crivello e aiutava a distinguere ciò che era importante da ciò che non lo era.

Dare confidenza porta ad attendere e in quest’epoca in cui tutto sembra immediato mentre il vero tarda anche l’attesa non ha più soddisfazione. Però chi bussa ad una porta accende un’attesa. La confidenza dovrebbe maneggiare le attese, lasciare che essere cadano oppure si rendano più esplicite. Dire e lasciarsi dire è un’apertura di credito, poi come sarà spesa si vedrà. Dipende dall’educazione, o meglio dalla verità. Ecco, creare le condizioni del dare confidenza o non farlo, è un modo di dire la verità.

notte calda notte

Prima al buio, c’erano luci tenue sul soffitto.

Erano impronte di finestre,

qualche lampo colorato, forse una tv,

poi ombre rade che passavano,

una voce che seguiva.

Figure geometriche di vita nella calda notte urbana.

Fuori dalle case il mondo s’assottiglia,

bastano due dimensioni,

le ombre parlano per linee, soprattutto ricordano,

a noi, qualcosa che potremmo

o vorremmo essere, altrove,

in un altro calore, nell’estraneo sussurro di un altro buio.

Le notti sono luogo di ombre che si sciolgono, indifese,

e diventano sogni, sudore,

odori conosciuti e nuovi,

e carne,

e parole calde di oscurità accoglienti.

Ci sono verità che amano la notte

e sono senz’ ombre,

precise di geometrico ragionare,

ma questa è solo una calda notte urbana

dove rumori si spengono come fiamma tra dita coraggiose,

e fanno solo una piccola bruciatura prima del buio.

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=vwcyR4Rhh1Q

allure

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Queste strade medievali sono gole di montagna, tengono luce, odori, uomini, tutto stretto e frammisto alle pietre, ai balconi, alle porte, a quel taglio di cielo che sembra sopra, lontanissimo, ma oltre ogni nube, azzurro. E alla fine ci si riconosce, prima che per i volti, per una allure comune che non c’è altrove. Questo è un senso di vicinanza lieve. Cittadina e da borgo, assieme. Sotto il portico d’una casa importante, del ‘500, c’è una delle poche pescherie della città. Già di primissima mattina i banchi di marmo inclinato, si riempiono di pesci che vengono da Chioggia, Porto Levante, Codigoro, Caorle, poi verso le 11, cominciano ad arrostire e friggere, perché il pesce c’è chi lo vuole vivo, o quasi e chi lo vuole cotto. E stamattina l’odore delle sarde, dei calamari, dei totani, delle schie, degli scampi, delle rade e preziose moeche, invadeva la strada. Veniva spinto ad ondate, ben oltre la pescheria, dal movimento delle poche auto, dalle bici, e soprattutto, dai passanti che pareva volessero uscire dal profumo di fritto e però rallentavano annusando. Chissà cosa pensavano le teste che già erano nella zona dell’appetito, della crisi ipoglicemica di tarda mattina. Fame non era, qui non c’è fame, mai, però appetito, quello sì. E salivazione accelerata che ferma i discorsi e rallenta il passo, perché si associa, si pensa al pranzo, a ciò che lo accompagna. E non era finita la festa perché bastava fare pochi passi e il forno, pochi metri più in là, cambiava la mappa del senso, con ondate di profumo di sfilatini croccanti appena sfornati, di paciose pagnotte, di morbide mantovane, teneri ferraresi, e di dolci : crostate quasi casalinghe, con marmellate dense dai colori scuri, spumiglie colorate, fugazze da vino, e ancora, prosciutto appena affettato pronto a finire nella morbida croccantezza di un panino già tagliato. Insomma un insieme che annullava il fritto precedente e confondeva definitivamente l’aria. Ti prendeva per mano e ti accompagnava nella gloria del bar all’angolo dove il caffè cedeva il posto, vista l’ora, all’aperitivo, agli sguardi lunghi delle coppie sedute, alle chiacchiere al banco, ai salatini distratti, al guardare l’orologio per accorgersi che era quasi ora di pranzo.

Questa è l’allure, il fascino che diventa profumo per quei mitocondri che s’annodano da qualche parte del cervello e che rendono un posto, luogo, casa e ricordo. L’inconcepibile essenza che altrove non sarà uguale e che allora, con moderazione, diventerà nostalgia. Leggerissima nostalgia per un ritorno ipotizzato, a volte impossibile, se si è lontani, e che consentirà di non essere mai definitivamente sopraffatti dal presente perché c’è un’allure che è nostalgia di un luogo, di un profumo, di un suono, in cui abbiamo sentito diversamente. Proustianamente felici d’una piccolissima assenza e infelicità.

p.s. in questa strada ci sono nato e quindi la conosco bene. E distinguo il ricordo dall’adesso. L’adesso è ancora questa atmosfera particolare che si realizza con ingredienti nuovi. E questo mi fa un po’ felice di una vitalità che resterà in altri ricordi e appartenenze.

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