spazi

 

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Leggendo tra le parole, gli spazi, scrivono dall’alto verso il basso, scie che colano tra significati, la traccia dei silenzi.

Mi piace pensare che esista una cultura del silenzio che si trasmette e spostando una lettera, una virgola, un punto anche il silenzio si sposti e racconti d’altro. A chi? All’anima che ascolta, forse, e ha bisogno di sentire che altri odono lo stesso silenzio. C’è uno scrivere perfetto privo di significato per l’emozione. Genera un silenzio sgomento, da assenza. Se ci pensiamo, molto attorno, e anche in noi, mira a questa perfezione. Una sorta di libertà dalla tirannia del sentire. Dove riluce la razionalità, il coltello compie il suo dovere, seziona e guarda, finché alla fine si accorge che ciò che osserva gli sta morendo tra le mani.

Forse per questo ho bisogno degli spazi, di anfratti in cui riposare ciò che vuole parlare, convincerlo che sentire è meglio e suggerirgli che il silenzio è la forma somma del sentire. Le parole hanno simmetrie strane, toccano appena quello che sentiamo e come appunti evocano. Il sogno di chi scrive è emozionare, trasferire un contenuto attraverso un mezzo incerto e approssimato, ma terribilmente evocatore. Quello che io sento e trasmetto è diverso da ciò che prova chi mi legge, questa qualità è riservata ai grandi, ma se supero la paura del sentirmi solo in una stanza vuota, la vera paura di tutti gli umani, posso tentare di condividere un silenzio. Ascoltare prima di dire.

Qualche giorno fa mi veniva raccontata una storia, dolorosa e vera. Mi sembrava di capire, tutti abbiamo cose che possiamo sovrapporre e che abbiamo sentito come uniche salvo poi sentirsele raccontare da altri. E quella storia, come tante, era zeppa di parole, prima buone e poi irate, sentimenti scarnificati e portati allo scoperto, mostrati come ferite. Le parole riempivano la paura che tutto si frantumasse davvero e a me sembrava, invece, servisse  silenzio. Poi mi è tornata a mente una canzone, che descrive qualcosa a cui ci si aggrappa quando finisce un sentimento e per resistere si ribalta sull’altro il ricordo come un’arma lenta e sicura. E si dice, si racconta, si minaccia perché ci si sente vilipesi e c’è il bisogno di attribuire una tale definitività a ciò che si è vissuto che possa far impallidire tutto quello che verrà dopo. Si sa che la passione riprenderà, che l’esperienza nuova sembrerà sommergere tutto ciò che c’è stato prima, ma come una maledizione si vorrebbe tornare a mente quando c’è ricordo e silenzio. E il silenzio che non si è stati capaci di usare come lenimento reciproco, di condividere come dolore, poi dovrebbe diventare l’estrema arma di chi si è sentito lasciato. Si pensa che nel silenzio ci sia la nostalgia e il rimpianto.

Io credo che ci siano questi momenti nella vita, ma che siano davvero propri e che ogni silenzio, se non c’è qualcuno con cui condividerlo e scambiarlo, diventi un tratto personale, una ricostruzione infedele del proprio passato che sola ci appartiene. Ma nel vivere quotidiano il silenzio ha altre funzioni, toglie il rumore che sta attorno come primo effetto e ci riporta a noi. Sembra banale, ma per non sentirci soli abbiamo bisogno di rumore, così si confonde il silenzio con la solitudine. Il silenzio invece supera la parola, riporta nel profondo, ci mette davanti non al passato, o almeno non così di frequente, ma a ciò che siamo e potremmo essere, quindi contiene il futuro. Per questo nel condividere un silenzio di parole si può scambiare molto d’altro e le parole sembrano disturbare con la loro imprecisione. Questo dicevo, non creduto a chi mi raccontava la storia, che c’era bisogno di condividere una fine con il silenzio. Ma non ero io il ferito, potevo discettare sul silenzio, mentre le parole scagliate erano ben più lenitive, forse anche aiutavano ad elaborare.

Ciascuno ha una sua via e una sua paura per il silenzio, e dal poco che capisco, mi pare che esso contenga molto di me e dell’altro con cui condivido. Per questo cerco gli spazi nel discorso e vorrei capire ciò che davvero mi si vorrebbe dire, cosa si agita e cosa spinge verso di me. 

 

la rava e la fava

Mattinata colma e calma. Si comincia con una riunione senza odg. I presenti attendono e sono solo. Imprecare contro chi latita non serve, usare il mestiere, puntare sul tre. Il tre è magico, rassicura. Tre punti: stato delle cose, necessità e prospettive, obbiettivi. Arriva la “spalla” è pessimista, lo prenderei a calci sugli stinchi. Mi propongo di cucire le proposte con il motivare, essere realisti, porre mete raggiungibili. Ostento determinazione e fiducia: non ho alternative e quindi deve andare bene. In un’ora si chiude. Saluto e schizzo via verso un appuntamento. Ho 15 minuti per attraversare la città. Ne impiego 20 e sono in anticipo, miracoli dello spazio tempo, aspetto in cortile. Mi piace aspettare, serve per pensare ad altro e sono talmente tante le cose che si possono fare aspettando…

Nell’aria c’è un profumino di salsa al pomodoro. E’ la seconda volta che capito da queste parti all’ora di pranzo e sento lo stesso profumo. immagino pastasciutte generose, canottiere e calzoni corti, il mezzo bicchiere di vino e il pisolo breve dopo pranzo. Fa caldo, c’è un sole sfolgorante e doveva piovere.

L’incontro dura 5 minuti e riattraverso la città. Il bello delle città medie è che tutto è vicino, magari ci si impiega un’ora per il traffico, ma è vicino. Mentalmente attiguo.

La mattinata continua verso il pomeriggio. Centro studi: dopodomani c’è il convegno. Devo ancora iniziare a ragionare sulla mia relazione. Potrei parlare del nulla: non so nulla, sono un esperto. Cerco di raccogliere le idee su un lavoro precedente, tra miriadi di contrattempi e decisioni da prendere. Bisogna sostituire l’addetto alle riprese, ispezionare la sala. Fatto tutto per telefono. Che meraviglia il telefono quando serve a risolvere. E che dannazione quando dall’altra parte rimandano le decisioni. Manca il ministro, non si sa se verrà qualcuno in sua vece, anche l’assessore manda un sostituto. Già, forse veniva solo perché c’era il ministro. Il rischio è che si squaglino tutti.  Allontanare il negativo, calma, le cose si risolvono. Sembra un cubo di Rubik, si mescolano le relazioni e i colori, speriamo resti un cubo. Le certezze sono rimandate al pomeriggio. Mi viene in mete Garcia Lorca e le fatali 5 della sera. Non accade nulla alle 5 della sera, solo in Spagna ci sono le rese dei conti, qui al più pensano all’aperitivo.

E’ strano che il tempo in cui dovremmo fare altro di urgente si accorci, che qualche impiccio nuovo e non rinviabile si sovrapponga. Rinvio la relazione, qualcosa inventerò, mi alzerò presto domattina. Mi sembra d’essere tornato a scuola quando il presto alla mattina metteva a posto la coscienza sull’orlo della paura. Domattina non ci sono per nessuno. Forse, dipende. Quel che è certo è che qualcosa mercoledì bisognerà dire. Magari che sia consequenziale, nuovo e magari con qualche spruzzo di intelligenza: una cosa impossibile. Resta l’insalata di rava e fava, invocare la narrazione, alludere, lasciar intuire. Sì ma qualche idea domattina dovrà uscire.

Calma e gesso che le settimane passano e pure i convegni. 

il ricordo sentimentale

Il ricordo sentimentale, ciò che sono stato e ciò che sono, in fondo, oscilla su quanto siamo stati amati e se era adeguato quell’amore. Oscilla per tacitare un bisogno che non è mai muto e poi per scoprire noi in quell’amore d’altri, fatto di tentativi, intuizioni, sbagli, ricerca dell’altro e d’altro. Il ricordo oscilla su questo e trascura il resto, si spinge sino all’orlo dell’abisso della consapevolezza, ne saggia la vertigine e si ritrae, pauroso di sé, del proprio bisogno e dell’inermità  che questo include.

Quanto sono amato e quanto mi corrisponde questo amore? Le vite si disegnano su questa consapevolezza/ricordo, spesso l’adeguano e la mutano in costruzione d’intelligenza che trasfigura la realtà per adattarsi l’amore e la sua misura. Vale la considerazione soddisfatta del conquistatore/trice, il sono stato tanto amato, a sanare il ricordo di qualcosa che manca? Oppure vale l’ adeguarsi che considera possibile l’adeguabilità dell’amore e se ne fa ragione? Oppure è ancora l’inquietudine che vince e diviene speranza/attesa che qualcuno scovi quella parte di noi di cui abbiamo il sentore ma non sappiamo cos’è, che trasformi la cura in sostanza di sicurezza, che tolga definitivamente la paura di non essere amati.

E questa attesa ha risposta quotidiana che scaccia il pensiero oppure si sofferma, si interroga e misura? E ancora, alla fine emerge una ragione, un relativo e si cerca il molto in ciò che si ha oppure ci si chiude nell’accontentarsi? E’ il ricordo sentimentale che trasfonde sul presente, misura la soddisfazione del vivere, si interroga, si risponde, a volte muta direzione, riprende l’attesa. 

pioggia d’agosto

Cerco nella pioggia di questa notte un segno. Questa, della ricerca dei piccoli segni che dicano ciò che già sappiamo, è arte da indovini da bar, fonte di parole inutili sul finire di stagione, pronte a stupirsi d’un caldo improvviso, di un mare ancora pieno di persone, dei vestiti che restano vaporosi come i pensieri inutili sul tempo. Si cerca il fine della stagione, quasi non si sapesse quello che alla lunga verrà, e che in questo mese indeciso, comunque qualcosa è passato. Conosciamo il ripetersi, attendiamo ciò che ci piace con leggera malinconia per il passato, sempre inadatti alla sorpresa del nuovo. Eppure tra le righe dei pensieri questo fa capolino, si attende che qualcosa ci sorprenda, raddrizzi le facili previsioni, ci porti oltre le gioie che già fanno parte delle abitudini.

Guardo il tempo, seguo le temperature, in realtà non cerco la fine di qualcosa ma un mutare d’aria. E’ alle spalle un anno e so che non è vero, che il tempo non si misura in anni ma in stagioni. E che neppure si misura, ma si guarda nel suo ripetersi mai uguale partecipando a ciò che viene. Essere nel tempo e fuori d’esso, nel nuovo e in ciò che si ricorda: indago i motivi del qui e ora. Così nel dormiveglia di quiete, sfavillano i pensieri e ascolto la pioggia sul tetto.

Domattina il sole si farà strada tra le nubi, puntiamo sui Rokes, va … 🙂

31.7.13

L’ultimo giorno di luglio era caldo e palindromo e qui l’osservazione si poteva fermare. Però era rimasta quella leggera soddisfazione che procura il notare la particolarità delle cose. Che spazio esiste tra una favilla d’attenzione intelligente (da intelligere, senz’altra connotazione di misura) e la gestione dell’eccezione, del meraviglioso del vivere? Ovvero ci si può meravigliare spesso e impunemente?

Con la ricerca dell’utile e del sapido, si declassano i gradi intermedi, le piccole gioie e così si banalizza tutto ciò che non è comunicabile facilmente, che esige aggettivi sfumati, relegandolo ad intima sensazione di soddisfazione. Insomma questo modo prevalente di vivere non ammette la comunicazione di ciò che si fonda sul rapporto tra sé e ciò che si sente tra gli estremi, tra ciò che resta personale e non diventa collettivo perché non risponde ad alcuno dei parametri di utilità  e sapidità del sentire.

Ma allora per chi si ribella e non accetta questa necessità fisica ed economica di superlativi, può essere dato un mondo che contempli l’inutile meraviglia? Forse no, ma la vita individuale, quella sì, può essere scissa dalla tirannia dell’utile, e portata a godere di cose poco usuali. Gustare la bellezza di un pasto di fichi e pane fresco, il profumo del caffè fatto con cura, il vino buono senza etichetta, la frescura dell’acqua e il suo non sapore, una carezza che resta, un abbraccio lungo, un bacio che ascolta.

Chi ha digiunato per necessità conosce l’esaltazione dei sapori quando lentamente si torna al cibo, la meraviglia del poco che sprigiona sensazioni, l’avvertire le particelle di sapore nei sensi acuiti. Tutto questo viene ucciso dalla quantità, dalla varietà eccessiva. Quanti paragoni con i sentimenti e il sentire, con lo sbocconcellare senza fretta, ascoltando… 

bisogni

Abbiamo bisogno di antidoti alla solitudine. Non quella liberamente cercata, ma quella che è paura del disamore, di non essere adeguati, di non farcela.

Per tenere segreti abbiamo bisogno di comunicazione, di mani accoglienti in cui depositare i dubbi e le incertezze.

Per raccoglierci dentro di noi abbiamo bisogno di silenzio e la certezza che, quando servirà, tornerà la parola che capisce. E così cerchiamo con chi condividere. A volte in modo spasmodico, a volte con fiducia in ciò che incontreremo, spesso con apprensione, perché ciò che ci corrisponde davvero è prezioso e la paura di perderlo è grande: tornerebbe la solitudine senza luce.

Siamo così permeabili alle nostre semplici paure che le dobbiamo complicare. Per non aver paura anche di esse.  Così abbiamo bisogno di speranza, di oggettivarla e di metterla nel nostro firmamento, di avere una luce che rassicuri, solo così siamo forti ( o almeno ci pare) per essere soli quando lo desideriamo.

era del cartaceo

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Oggi ci sono i nativi digitali, io appartengo al cartaceo, era sporca d’inchiostro, inchiodata alla dimensione delle pagine. Meglio l’A4 per scrivere, ma più o meno, senza sottilizzare, ché già il formato americano è troppo lungo. Meglio la carta pesantuccia, facciamo oltre i 90 g/mq. Facciamo, ma in realtà è un piacere scrivere ovunque: sulle buste in verticale, sul verso di fogli stampati, sullo spazio bianco lasciato dai sintetici adulatori dei comunicati, sui fogli A4 piegati per lungo, a metà. E chissà in quanti altri luoghi si può scrivere, tenendo una penna con tre dita e senza percuotere una tastiera con sette, otto. Eppure sia un pennino o una sfera (preferisco il primo o almeno l’inchiostro liquido) ad accarezzare la carta, tirare file lunghe di caratteri, riconoscersi, nelle volute, nel taglio delle t, nella chiusura delle vocali, nel cancellare (bello riconoscere il proprio modo di cancellare, ché in questo si coglie dove è svoltato il pensiero, tornato indietro, c’è la traccia della scelta barrata nella parola oppure il diniego a leggere, che si vergogna di ciò che era sfuggito. Dove leggi questo nei nativi digitali?), in tutto questo c’è il procedere spinto dalla forza incoercibile di un pensiero, da una voglia che si somma, che trabocca, che prende per mano. Eh, già, per mano. Controllare i muscoli della mano, del braccio, la pressione è diversa, segue le emozioni, si vede. Non potrei con una tastiera, dovrei descrivere ciò che è impalpabile e che vale per me, per la mia sensibilità, per il peso dei miei pensieri. Non potrei per me che ammiro i calligrafi cinesi e giapponesi, che scorro un testo cercando il carattere di chi l’ha scritto. Oltre, dentro, tra il testo. Già, il testo. Vanno bene i testi a stampa per tutti, per quegli schizzi di endorfine e adrenalina che provocò l’emozione dello scrivere e che ci tornano addosso, ma leggere un testo scritto a mano è qualcosa che supera il limite della pudicizia, espone la nudità perché mostra una nascita.

Il calligrafo si ferma, si bea, si perde nel carattere e come per il lessicografo, seziona dentro di sé per farlo, taglia il resto, mostra il particolare, sembra trascurare la storia, mentre si ferma su chi scrisse e scrive, e legge negli spessori, nelle distanze, l’umore, l’arte veritiera ed esigente dello scrivere. Arte, perché propria e senza veli che non siano i propri, ma spesso oltre questi trasuda e non c’è tecnologia che freni, si sovrapponga, insegni e guidi, ma solo qualcosa che estrae, espone ciò che risiedeva in fondo ad un’anima. E sarà riconosciuto da molti come propria cosa, quel descrivere, oppure così dissimile da essere unico, e importa poco se l’una o l’altra condizione si verificherà: qualche sintonia, in qualche luogo, sancirà la magia di un incontro senza fisicità, solo sensazione comune.

Ci fu un tempo in cui questo non c’era e ci sarà un tempo -lo è già questo- in cui sarà diverso. La tecnologia rende differenti, cambia l’uomo, e ciò che c’era prima diviene obsoleto come l’abilità per farlo, ma le idee e il modo di produrle, resta. Cambiano solo i limiti in cui tutto questo avviene. Così chi usa la propria calligrafia si bea un poco dell’abilità inutile che possiede, come facevano i suoi nonni che sapevano convenientemente scrivere ciò che serviva e raccontavano a voce ciò si poteva narrare con una abilità che faceva sembrare sempre nuovo e attuale ciò che già si sapeva. Storie vere, senza caratteri scritti, che sospendevano il fiato o facevano esplodere il sollievo e quel raccontare gli bastava perché era pieno di segni, di sospensioni, di voce che mutava, che sarebbe stato impossibile mettere nei fogli, nei caratteri, nelle pagine da leggere faticosamente. Ci fu un predominio dell’oralità, poi venne la scrittura, ma coesisterono entrambe a lungo, oggi è più difficile.

Sono un nativo cartaceo, molto inchiostrato, e il mondo è già digitale, insomma una curiosità antropologica tra poco. Mi sembra strano non sentirmi fuori posto, continuare a provare il piacere sensuale di scrivere con una penna, tener da conto questa condizione come una diversità che conta, considerare che ciò che scrivo ora su una tastiera, è qui a fianco e ha i suoi caratteri allineati sulla carta. Mi sembra lo strano che provoca la meraviglia, non la paura d’essere superato, ma lo stupore di vedere come procede il mondo e cosa perde per strada. C’è la tirannia dell’utile come possono sopravvivere le abilità manuali? Però in questo angolo di passato mi trovo bene, e mi avvicino a cose e persone per me un tempo inimmaginabili, al calligrafo cinese o giapponese che ammiro nel suo dipingere, alle parole che perdono senso se non sono scavate nei caratteri, al riconoscere i propri simili in ciò che lasciano come tracce, al fermarsi con curiosità davanti a una pagina scritta a mano. Mi basta e avanza.

le rigidità del passato

Al Mart di Rovereto c’è una mostra di Adalberto Libera sulla città ideale. La vedrò, e farò i conti con me, ancora una volta. Come mi accade con Strauss o Wagner, oppure con Leni Riefensthal o Casorati. E qui mi fermo perché i nomi diventano troppi e il disagio aumenta. E’ la contrapposizione tra un giudizio negativo assoluto sulla ideologia e sulla prassi del fascismo o del nazismo e la sua capacità di produrre e inglobare arte, capacità intellettuali forti. Come se il male non avesse la possibilità di generare il bello. Il discorso non è facile, in fondo la distruzione dell’intelligenza assieme alla cultura dei popoli vinti è costante nella storia dell’umanità, perché non dovremmo farlo anche noi in una damnazio memorie che elimini dalle menti tutto ciò che è stato? Eppure si sente che di quel bello nato in un periodo disgraziato saremmo amputati, che mancherebbe qualcosa nel nostro pensare. forse un modo è quello di ricordare ciò che avvenne e insieme riconoscere la capacità dell’uomo di essere anche altro, di avere in sé la contraddizione che lo porta verso il superamento del negativo che pure contiene. Pensieri quasi giulivi sulla capacità rigeneratrice del bene, del giusto, ma anche riconoscimento che nell’uomo c’è tutto, il bene e il male  e che far prevalere il primo è un processo continuo, fatica e impegno.

Comunque non tutto fu distrutto e di quel periodo razionalista le opere sono lì, inopinatamente astratte, ma vive ed esercitano fascino. L’architettura di Terragni, Pagano, Figini, Pollini e per l’appunto, Libera sono parte del nostro vivere. Classici contemporanei. Basti pensare all’E42, al palazzo dei congressi dell’Eur che, pur nella incompiutezza compiuta dell’expo mai avvenuta del 1942, sono spazio racchiuso, pensiero realizzato e disegnano una concezione dell’uomo e della funzione in linee pulite, nitide. Anche la pulizia del razionalismo, mi pone domande, il nitore e la geometria come si sposavano ( e infatti non era univocamente) con il fascismo? Certo l’ordine, la forza che emana la pietra e il bianco, la linea dritta, il tema della volontà di potenza, sembrano riportare ad un pensiero privo di contraddizioni, ma il pensiero fascista non era così consequenziale, anzi. Mi faccio domande e faccio i conti con questa tentazione di eliminare tutto ciò che accompagnò quegli anni e poi perdo il confronto, guardo, traggo piacere dalla forma e dall’intelligenza e mi restano le domande sul bello e sul bene. 

vite semplici e vite complicate

SAM_0491Il mondo è semplice, i sentimenti sono semplici, noi siamo complicati. Ovvero siamo complicati perché non vogliamo che la semplicità si manifesti, perché siamo combattuti tra ragione e desiderio, perché il compromesso consente un equilibrio e soprattutto rinvia una scelta. Infatti la semplicità esige una disciplina che passa attraverso un scegliere e uno scartare, più che aggiungere. E invece le vite sono additive. Aggiungono complessità. Così sembra dolce il sapore di ciò che si decompone perché lasciato, mentre è amaro il sapore della linfa della scelta.

Cos’è la purezza primigenia se non la semplicità della scelta, anche, e quando, questa passa per il dolore della rinuncia, solo che nella purezza, in realtà non si lascia nulla perché tutto è reversibile, tutto può ricominciare, ma noi abbiamo assunto il tempo cronologico nelle nostre vite dove nulla ricomincia e tutto si somma. Questo vale anche per i sentimenti, naturalmente, dove ciò che viene dopo non è un prima che rivive, ma il perenne, eterno nuovo che riassume per suo conto il precedente. Forse per questo scegliamo le vite complicate, cerchiamo un’innocenza che è rispetto di regole, quando essa in realtà non ne conterebbe alcuna se non il seguire il vivere e il considerare che la colpa ( altro concetto cronologico che si somma) non esiste finché non viene vista e conosciuta da altri. L’innocenza così è semplice perché non ha un prima e un dopo, non complica la vita, si alimenta del presente è ha un futuro totalmente da scrivere, intonso, ma non è possibile perché esiste il controllo sociale e la colpa, così dobbiamo accontentarci. Per tornare all’età dell’innocenza si deve riconoscere un giusto condiviso, la scelta che ci fa vivere nell’approvazione e allora la vita semplice diventa un desiderio tra vite possibili che cercano di complicarsi il minimo necessario.

maggiorenti

Siamo stati giovani assieme più o meno trent’anni fa. Chi da una parte, chi dall’altra. Alcuni, io tra questi, eravamo rossi e magari un po’ lo siam rimasti, gli altri erano altrove. Tutti passati nelle discussioni feroci, tra inimicizie e scontri, dentro e fuori i movimenti giovanili, poi nei partiti. Grandi passioni civili come terreno comune, chi a favore, chi contro. Divorzio, aborto, i diritti e la pace. Come si declinavano allora: in piazza, per qualcuno e contro qualcun altro. Non c’era marmellata di idee, casomai confusione, ma in luoghi distinti e poco comunicanti. Nei malmestosi anni ’80 e l’inizio dei ’90, tutto sembrò precipitare, ma da giovani non si pensa poi di farsi male nello scivolare, importante era avere principi e argomenti da portare. Adesso ci troviamo nelle cene, nei mille rivoli della politica che non si vede ma ha nomi e funzioni: chi sindaco, chi rettore, chi presidente di qualcosa, chi ex di molte cose. Sono i momenti del passato e del futuro, chi era democristiano, repubblicano, liberale, socialista, mica ha smesso di esserlo, solo che ora è senza bandiera e senza patria, e mi chiedo come mai siamo smottati tutti assieme nello stesso contenitore che non è un partito, ma un’area dell’essere, con i corollari della marmellata dei pensieri, del relativo.

Voi non avete vinto, noi non abbiamo perso, ci troviamo, cos’è successo?

Ci può consolare che non siamo più le prime linee, in fondo i vecchi sono le retrovie della politica e ora emerge sempre più che la scelta non è sulla parte  (quella pur smottata, è a posto), ma tra il nuovo e il vecchio. Però se il nuovo non lo è davvero, la storia si ripeterà e ancora si riconosceranno nei vicini gli avversari di un tempo, solo le facce cambieranno. Potrei pensare che tutto si stempera con gli anni, che i ricordi perdono le punte e diventano di pezza, oppure che è un fatto genetico: i dinosauri generano dinosauri e Darwin è troppo lento per la politica. Questo è quello che m’inquieta in questa notte, tiepida di chiacchiere e di vino, di futuri e dessert, dove la curiosità per ciò che cambia prevale, è che ciascuno pensa al suo intangibile e non si vede il futuro.

Mi guardo attorno e penso il nuovo sia altrove.