abilità

Mi avevano insegnato a far la punta alle matite. Nel libro di disegno c’erano illustrazioni che mostravano il legno scolpito e punte esagonali bellissime. Non si poteva usare il temperino, e neppure il coltellino (forse temevano ci ammazzassimo a vicenda negli intervalli), bisognava adoperare un attrezzo strano, antenato del cutter, che conteneva una lametta da barba. E imparare a controllare la presa e la forza del braccio per avere un risultato era una disciplina zen che ci avrebbe insegnato anche a fare linee sottili oppure grosse con le stesse matite. Ma questo non lo sapevamo e nessuno lo spiegava. E anche se l’avessero spiegato sarebbe stato lo stesso. Così si consumavano le matite, nel profumo del legno di cedro e nel truciolo di grafite che c’ imbrattava le dita, i fogli bianchi A4, squadrati con attenzione, il banco e non di rado maglioni e camicie. Con successivo e insufficiente gran uso di gomme. Quelli bravi erano i puliti, gli ordinati, gli appuntiti. Ci voleva talento e io non ne avevo, eppure di quel fare ho nostalgia e se prendo una matita per farle la punta come un tempo, tralasciando i temperamatite evoluti che posseggo, lo faccio per mio conto, come fosse un piacere  segreto. Non c’è un fine particolare, né un’utilità, è solo la verifica di un ricordo d’abilità che nessuna macchina riesce a dare. E in un sorriso altrettanto segreto finisce tutto.

maresana

Dovete sforzarvi per immaginare un luogo in cui le erbe erano cresciute alte, gli arbusti quasi alberi, e gli alberi sembravano centenari, anche se non lo erano. In un fiume di verde l’ortica fioriva indisturbata e le sue foglie erano motivo di sfida nell’essere prese. Un luogo in città, vicino a un fiume che era almeno fangoso, ad un passo dalle fabbriche ancora in centro, continuazione di un giardino curato e famoso. Li, oltre un’arena romana, una cappella famosissima, un corso che si riversava nella stazione, era il regno della favola, dell’ignoto, dell’avventura, della pesca infruttuosa e delle sanguisughe. Un posto da gatti e non da bambini, da pedofili e non da adulti, un luogo in cui il pericolo aveva il sapore dolciastro del sangue succhiato e l’odore del ferro ed era per questo così affascinante ed esclusivo. Noi c’andavamo, incuranti degli avvertimenti e dei ceffoni, incuranti del pericolo di qualche bomba a farfalla dispersa e mai bonificata, incuranti di chi ne aveva subito violenza. Incuranti come solo può essere un bimbo, invincibile nella sua paura, coraggioso perché la vita non ha ancora significato e i piccoli dolori li conosce, sa che durano poco e poi passano. Anche con una carezza passano. E anche con un ceffone passano. Va da sé che preferivamo le prime. Non desistevamo, e non per riottosità o dispetto, ma per l’avventura che era solo lì. Avventura che selezionava e andarci era cosa da coraggiosi e da racconto. Lì ho imparato a sfidare la paura di arrampicarmi sui muri. Lì per la prima volta ho creduto che sarei potuto morire. Lì ho sperimentato la gioia di essere vivo, ammaccato, ma vivo. Insomma per me, e credo per tutti quelli che lo frequentarono, fu un luogo di emozioni, di crescita e di gioco assieme che non avremmo dimenticato. Eppoi quel posto aveva un nome così selvatico e familiare, così colmo d’altro che lo si ripeteva nell’invito, nel bisbiglio, nel segreto che si negava agli adulti. Maresana era la vasta riva che precedeva l’alto argine delle mura del ‘300, l’inizio del guasto della resistenza alla lega di Cambray, un luogo d’ombra, gatti selvatici e topi della stessa taglia. Visto dall’alto sembrava una boscaglia incolta, nel mezzo si passava per stretti sentieri tra erbe e cespugli, luogo da fionde e frecce fatte di stecche d’ombrello, luogo incanaglito e pericoloso. Insomma era altro dalla normalità. Talmente altro che nell’ignoranza felice dei luoghi tutto travasava in una vita di corse, di fughe e d’attacchi, in piccole gambe rigate di graffi e di sangue, in battaglie cruente di grida, in spaventi, batticuore e risate, in scoperte che sarebbero state solo ricordo, poi soverchiate da ben altro. Ma di tutto sarebbe rimasto un sentimento, d’essere stati, lì, in quel luogo, allora, e l’impressione non se ne sarebbe più andata. Quando ci passo e ne vedo lo spazio ordinato, pulito, ma ormai vuoto di bambini, penso a come abbiamo vissuto, a qual’è stata l’iniziazione al crescere. E non perché ci fosse chissà quale prova, eravamo comunque curati, vestiti e ben nutriti. Noi in città non potevamo avere gli spazi della campagna, gli alberi da scalare, i nidi da raccogliere. Però quello spazio ci educò come altrimenti non avrebbe potuto la strada, i giardini curati, i richiami di nonne e tate. Eh sì, perché eravamo in centro e c’erano pure le tate che si sgolavano quando si accorgevano della sparizione dei pargoli affidati. E siccome i militari erano stati la distrazione che aveva permesso le fughe, la ricerca si allargava al contributo dell’esercito, e diventava vociante di nomi e richiami, con accenti foresti (stranieri di dialetto), avanzate ed ispezioni ad ampio raggio. Non ci prendevano mai nei posti segreti, ma credo sia stato questo cercarci che qualche volta ci salvò dalle esperienze che nessuno voleva fare. E quando il ragazzino veniva trovato, essendo precluso l’uso del ceffone, a lui non a noi, le tate cercavano di capire dove si potesse essersi compiuto tanto disastro, e sbridello di calzoncini, camiciole, berretti. Noi avremmo potuto narrare delle epiche lotte che c’erano state, ma eravamo intenti a scappare, dai ceffoni delle tate, che su di noi si potevano sfogare, e da quelli delle nostre mamme e nonne, che erano più leggeri, ma pur sempre ceffoni erano. Il ritorno alla civiltà, quindi, era un correre ulteriore in una confusione di fughe e in qualche caduta che la sera sarebbe stata debitamente pulita dei sassolini sotto pelle e disinfettata con alcool. Ma si sarebbe tornati.

mosaico: san canzian

Per entrare si scendevano due gradini consumati. Sulla sinistra c’era un vecchio bancone in legno scurito da pedate, consumo e tempo. Una lastra di zinco sotto le spine della birra, il resto era legno, spesso, consumato e appiccicoso. Ma chi si appoggiava non aveva problemi, non ci pensava. Erano gli ambulanti svegli dalle 4 del mattino, facchini, piccoli artigiani che avevano bottega attorno. Gli studenti, i balordi e i pensionati si sedevano nelle due stanzette, piccole, quasi un tinello. Sedie impagliate e sei tavoli in tutto, altrettanto vecchi del bancone e appiccicosi di generazioni di vino sparso, sudore e unto. Se qualcuno avesse cercato i dna sovrapposti in quegli strati, avrebbe avuto un campionario dello stanziale e del passaggio, del sangue giovane e di quello lento, delle menti ormai consunte e dell’avvenire fulgido sperato. Tutto assieme, perché quell’angolo di città teneva tutto assieme: università, popolo, politica cittadina, ebrei e cattolici. Tutto in una strada che collegava le piazze, ovvero la vita politica e il commercio con il ghetto. La chiesa di san Canzian era parrocchia, ma di quelle del centro, dove si mescolavano ricchi e poveri in modo così indistinguibile da rendere difficile il messaggio al prete. Chissà a chi parlava nelle prediche per tenere tutti assieme. Forse a tutti, oppure meditava ad alta voce. Forse. L’osteria nella stradina, guardava la chiesa e a fianco aveva la vecchia sinagoga di rito tedesco, incendiata dai fascisti nel 1943, ed era appena fuori da dove, fino a Napoleone, uno dei quattro cancelli avevano isolato per trecento anni, di notte, il ghetto dalla città. Quindi era una frontiera, un luogo di passaggio e tolleranza, basata sul vino e sullo scambio, sull’eguaglianza di fronte al litro, e sui discorsi senza troppi limiti. Lì dentro si meditava ad alta voce e quindi forse qualcosa da dire l’aveva anche lei. Ho conosciuto le due ragazze -‘e tose – che davano il nome al locale, solo che avevano più di 80 anni quando io ero ragazzo. Si favoleggiava di una loro avvenenza, ora svanita senza rimedio, di studenti e poi professori che le avevano corteggiate. Di tutto quel tempo, se era mai esistito, a loro restava una voce roca e bassa, che impartiva ordini a un cameriere poco più giovane di loro, el toso, (il ragazzo), con i piedi sformati dalla lunga vita eretta, che scambiava battute con i clienti e silenzi con le padrone. Felice di quel soprannome che sottovoce ricambiava dicendoci: ‘e vece comanda a bacheta e paga a baston’ (le vecchie comandano a bacchetta e pagano a bastone). E rideva. Perché allora, e non sono cent’anni fa, c’erano i padroni e i dipendenti non erano collaboratori, ma salariati e poco più che servi. Un campanello attaccato ad un ricciolo d’acciaio, come quelli che c’erano dentro le case, residuo degli antichi tiranti dei portoni soppiantati dall’elettricità, era vicino all’ingresso, e chi voleva bere, si alzava e gli dava un tiro, cosicché tutti sapevano che qualche mezzolitro sarebbe di lì a poco arrivato alle labbra dei clienti. C’era chi con un’ombra – un bicchiere – tirava avanti per ore e chi beveva d’un fiato perché tornava al lavoro. Forse la cerimonia che era costituita dallo scambio dei saluti, dalle battute e gli sfottò era importante quanto quell’alcool un po’ acido che scendeva di colpo e scaldava, cambiava l’umore in meglio o in peggio, non lasciava indifferenti. Comunque fosse, lì dentro, tra quei muri che non venivano mai imbiancati e su cui si esercitavano matite grasse, con scritte e disegni, lì dentro c’era una comunità che si dava appuntamento, si incontrava, partecipava agli eventi delle vite. Sapevano di tutti e nessuno leggeva il giornale. Rispettavano nascite, matrimoni e morti, scambiavano soprannomi, allungavano qualche piatto di minestra. Nascevano burle, congiure politiche da ridere, si batteva carta senza soldi, non si portavano gli amori, si mangiavano dolci antichi, si beveva più del necessario, per compagnia, per parlare o ascoltare, raramente entrambe le cose. Non c’era niente di bello o di brutto che facesse particolare quell’osteria oltre le persone che la frequentavano, era allora, ora c’è un negozio di telefonini.

 

incontri inattesi

Ho visto l’altro me, ed era ben più vecchio. 

M’ ha sorriso con un cenno, ma subito s’è perso,

chi aveva salutato?

Come i capelli, il completo chiaro e grigio,

un po’ slacciata la camicia,

la pancia prominente, la camminata lenta,

era come allora, 

solo invecchiato.

M’ha sorriso e ha proseguito,

m’ha sorriso e s’è voltato,

scegliendo con circospezione i ciottoli,

gli occhi a terra ha riportato.

Qualcosa gli era sfuggito,

forse se l’è chiesto o forse c’era abituato, 

così ha proseguito,

scuotendo un po’ la testa ad un pensiero dileguato.

Mi sarebbe piaciuto vedere un lampo,

un abbraccio,

del comune allora, un segno,

ma non c’è stato modo,

ché oltre l’angolo ormai era sparito.

Come il tempo, 

che a volte ci riconosce

e a volte scrolla il capo

pensando d’essersi sbagliato.

pasque al mare

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Molti sabati e pasque li ho passati al mare. Di alcuni ho un ricordo particolare che come tutti i ricordi è più impressione che fatto, di altri mi è rimasta la sensazione che avrei preferito essere altrove. Superata l’età in cui la pasqua aveva un significato particolare, specifico dal punto di vista religioso e quindi di per se stessa fonte di pensieri direzionati, restava una sensazione di festa particolare, però con una libertà del pensiero e quindi dell’andare, Ancora oggi faccio fatica a considerare la fede altrui come un fatto da antropologia culturale e quindi mi trattengo nel violare le intimità, i riti più ostentati, fermandomi alla soglia e facendo un passo indietro. Dove inizia ciò che per altri è importante, come non rispettarlo. Ma non rispettano me e m’ infastidisce ricevere messaggi religiosi, citazioni di telefoniche di salmi da persone, che ti hanno messo in una mailing list perché in qualche modo sei stato importante a loro, allora questo fenomeno semplicemente religioso consumistico non c’era e in molte pasque, non c’era neppure il dato umano delle piazze davanti alle chiese gremite di persone auguranti, le mie, semplicemente si svolgevano al mare dove mio suocero aveva un villaggio. Arrivavano i villeggianti estivi a prenotare ed io che c’entravo abbastanza poco, mi godevo il mare fuori stagione.

La spiaggia era ancora ingombra di alberi e di residui della civiltà di pianura.  Cercando con attenzione si potevano immaginare luoghi e fatti d’origine dei resti. Qualche moria di polli, una buriana di novembre, un nuovo detersivo dentro contenitori in plastica dal colore inusuale, molti frammenti di giocattoli, dalle teste di bambole ai pezzi di ufo robot segno che natale aveva fatto felicemente il suo corso. C’era un pranzo particolare, molte chiacchiere, di quelle che non affondano perché non sta bene, parecchio vino e caffè. Così arrivava il pomeriggio e la sensazione di una giornata strana che sarebbe stata riscattata dal lunedì con qualche scampagnata per argini. Se il tempo teneva. Lì, a pasqua, era il mare il gran protagonista, con il suo aspirare pensieri, isolare le persone in sé e lì si giocava la partita dell’utile e dell’inutile: avevo perso tempo, ero contento, l’avevo fatto per forza? Di tutto un po’ ma ciò che emergeva era la capacità del mare di riportarti a te. Questa era la solitudine del mare e devo dire che appoggiato a qualche capanna appena costruita, riparato dal vento e con il primo sole tiepido, tutto questo mi pareva una dimensione bella e positiva, che magari non c’entrava nulla con il giorno e la ricorrenza, ma apriva una alternativa alle abitudini, alle feste obbligate, alle giornate che celebrano qualcosa e passano lasciando un senso di vuoto senza nome. Cos’è successo davvero? E adesso? No, questo riportarmi a cose che io solo sentivo era un passo avanti, un senso per me. Poi sarebbe arrivata la sera e il ritorno, ma quell’angolo era mio, solo mio.

gli storti con la panna

Da novembre fino a febbraio, c’era la possibilità di ricevere un dono improvviso. Era un moto di golosità di mia madre o un capriccio di mia nonna: mi prendevano per mano e mi dicevano: ‘ndemo a tore i storti (andiamo a prendere gli storti). Erano gli storti con la panna, cialde croccanti avvolte a cono da immergere nella panna montata, e da consumare in casa nel pomeriggio della domenica, oppure, ai tavolini, ben tovagliati, del gran caffè Sommariva. Anche se dovevo star fermo mi piaceva il caffè, con il suo caldo e il brusio alto di voci mescolate, le vetrine appannate che davano sul corso, il parlottare, ridere, fumare, tutto mescolato. Guardavo appoggiare le schiene sulle seggiole, come per meditare qualcosa e poi scattare verso l’interlocutrice per riprendere. Una grande varietà d’uomini e donne, nell’atmosfera calda, il vapore delle macchine per il caffè, il fumo degli uomini e delle ragazze. Come un respirare sincopato singolo e collettivo che si separava in momentanea comunità dal fuori dai vetri, dove le figure si distinguevano appena. Ed era tutto un entrare, uscire fatto di cappotti bordeaux, neri, blu, qualche rara pelliccia, trionfi di spinati, marroni e grigi per gli uomini. E lobbie, guanti, tra incedere frettolosi o veloci determinati dal freddo più che dalla voglia di sostare o tirar via innanzi alle vetrine sfavillanti dei dì di festa che stavano sul corso. Innocue esse, festa al vedere: i negozi erano chiusi, ma perniciose per i desideri che riuscivano a sollevare, per i buoni propositi, per le attese che avrebbero creato. E argomento di conversazione, estensione a ciò che accadeva nella città, confronto tra ricchi e poveri. Perché questa era l’essenza del discutere sociale, ovvero ciò che avevano i ricchi e ciò che avevano i poveri, lì dimostrato e possibile o impossibile. 

Di tutto questo capivo poco, per me la ricchezza era quella sorpresa inattesa della sera e così immergevo il primo storto croccante nella panna densissima e riempivo la bocca di dolcezza. E ancora, ancora, finché nella ciotola di vetro restavano solo le striature bianche, che non si dovevano raccogliere col dito perché non era creanza. Mica si mangiavano gli storti per fame, ma per piacere, e la sazietà che inducevano era solo un effetto collaterale. Dagli storti ho capito che il piacere dava sazietà e rompeva consuetudini, il pomeriggio della festa sarebbe stato allegro, la cena il di più distratto, che si poteva mascherare di inappetenza.  

Chi mi conosce sa la mia ammirazione grande per Kleiber, la gioia e l’autorevolezza che c’è nel suo gesto di direzione, mi affascinano come rappresentazione del vivere. E’ la competenza di chi non si dà oltre quanto vuole: sazietà ma alle regole di chi dona.

ottobre

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Ottobre era la scuola. E quel cortile mi sembrava immenso. Così vuoto e contornato dalle finestre alte delle aule, era una piazza d’armi per piccoli soldatini schierati. Un luogo per adunate e queste accadevano quando iniziava l’anno scolastico o in quelle feste che sembravano arrivare dalla rivoluzione francese o dal libro Cuore. Noi mica lo sapevamo che arrivavano da così distante, ci lasciavamo educare a qualcosa, in cortile, con le classi, allineati.

Il resto dell’anno, con il tempo buono, serviva per ricreazione, si riempiva di corse, merende, chiacchierate, spinte, risate. Oppure era un contenitore deserto in cui fare correre lo sguardo, incantarsi di neve e di pioggia Era il luogo delle tre stagioni scolastiche, il nostro scorrere del tempo. L’estate era altrove, fatta di terra, sabbia, alberi e cespugli, qui c’era ghiaino, uno spiazzo in cemento e un gruppo d’alberi, olmi credo, che sembravano enormi. Tutto sembrava enorme, anche quello spazio vuoto in cui si poteva correre, cadere, rialzarsi, ridere, giocare, guardare, perdersi, essere rimproverati, e poi comunque, col corpo o con la testa, rientrare nelle classi che profumavano di legno, carta e inchiostro.

A ottobre c’erano subito delle feste, san Francesco che era proprio festivo, ma anche delle feste civili, molto scolastiche, senza vacanza: la festa  del risparmio e quella degli alberi.

Ascoltavamo giudiziosi la virtù del mettere da parte. Non avevamo nulla, molti di noi portavano abiti rivoltati e rammendi, ma dovevamo mettere da parte qualcosa. Dopo essere stato indottrinato, a casa, osservavo quella cassettina di metallo che la cassa di risparmio diffondeva tra le famiglie, mettevo una monetina e subito mi pentivo. Quante volte ho cercato di invertire il corso del giudizio per una salutare dissipazione delle mie sostanze, niente da fare, la banca aveva pensato ai reprobi mettendo delle lamelle che impedivano il percorso inverso delle monete. Già allora le banche rivelavano la loro natura rapace che teneva ben stretta le virtù affidate ed era impossibile recuperare il maltolto, così mi restava il rimpianto più che la soddisfazione del gesto. L’idea del risparmio però passava nelle teste, anche attraverso i pentimenti e mi piaceva la cerimonia del vuotare la cassettina in banca. Appollaiato con i gomiti sul marmo del bancone altissimo, scalciavo con i piedi sollevati da terra, ma non perdevo di vista l’impiegato che apriva e contava le monetine. Erano cosa mia quelle poche, per me tante, lirette che nelle mie mani bucate sarebbero finite in un pomeriggio tra l’edicola e il negozio di dolciumi e che guardavo scomparire in un cassetto per venire annotate su un libretto di risparmio. Una cifra e tanti sacrifici. Era allora che cercavo di ricordare cosa mi era stato detto nella giornata del risparmio, almeno per conservare un briciolo di soddisfazione visto che altro non avevo in cambio delle mie privazioni. Quei soldi non li avrei più visti, sarebbero finiti in scarpe o maglioni, al più, invocandoli, avrebbero propiziato qualche giocattolo da vacanze. Insomma una ingiustizia, visto che ciò che mi veniva dato era subito in parte restituito, e questo doveva avere qualche significato salvifico, mi avrebbe preservato dalla miseria forse, ma mi pareva così inconsistente quello che avevo, che dovevo ingigantirlo e sentirmi ricco con niente. 

La festa degli alberi era altra cosa, la guerra aveva distrutto molto e bisognava rimboschire. A me sembrava abbastanza immaginifico quello che mi veniva detto, Padova era una città ricchissima di verde e tutt’attorno c’era campagna, i colli erano pieni di castagni e ciliegi. Ciò che non sapevo allora era che quel verde sarebbe stato sostituito da case, palazzi, fabbriche, cementificazione selvaggia, speculazione edilizia. Però non credo che chi ci insegnava a piantare e amare gli alberi prevedesse tutto questo, c’era solo un baco nel ragionamento, nelle teste perché era naturale che fosse così, il progresso erano case e fabbriche e così chi piantava alberi simbolici contemporaneamente nella sua testa li spiantava per far posto al cemento. Comunque ho imparato allora ad amare gli alberi e non ho più smesso, mi sorprende solo che la mia stessa generazione si sia resa responsabile di tali e tanti scempi ambientali successivi. Certo che un dubbio mi poteva pure venire allora, perché non ho mai capito dove venisse piantato quell’albero che veneravamo nella sua festa, non nel cortile, regno del ghiaino, neppure nell’orto del custode che altrimenti in un paio d’anni avrebbe avuto una foresta, insomma compariva e spariva. Ed io che sperimentavo la virtualità dell’albero, mi tacitavo pensando lo portassero fuori città, magari sui colli, dove c’era bisogno e sarebbe cresciuto forte e sano come noi, Almeno così speravo, perché se fosse stato riportato al suo vivaio, a noi ragazzi di città, sarebbe stata raccontata una bugia in più. E non ci avrebbe fatto bene.

menta piemontese

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Doveva essere un caldo terribile quell’anno se la madre di uno di noi, ci aveva lasciato, insistendo molto sull’uso, un fiasco di menta piemontese. Proprio un fiasco di quelli impagliati col tappo di sughero, col cui contenuto avremmo dovuto trasformare ettolitri di semplice, buona, fresca acqua in bevanda dissetante e toglierci la sete de-fi-ni-ti-va-men-te durante la giornata. Proprio così disse: definitivamente. E ci vedeva al sole che sorseggiavamo, finalmente liberi dall’arsura. E invece dopo il primo litro buttato quasi tutto, ne era seguito un altro con l’idrolitina che aveva fatto la stessa fine. E poi basta perché ci riempivamo di birra, cocacola e facevamo mattina raccontandoci quello che avremmo fatto l’indomani, pasticciavamo con patatine, salame e sozzerie, dormivamo fino alle 11 quando in tenda era impossibile stare. Ed era una vacanza epica, sempre pieni di sale e in spiaggia fino a notte, mai nessuno che ti chiamasse, se non per prenderti in giro, mai nessuno che ti dicesse fai questo, fai quello. Avevamo 17 anni, la menta era il legame con la fanciullezza, il sostituto del tamarindo Erba, in spiaggia, il pomeriggio, la mamma e la famiglia. Via tutto, eravamo uomini che ansavano vita vera.

Alla partenza, il fiasco lo regalammo al tedesco della tenda di fianco, e mentre ci salutavamo dall’auto in movimento, alla prima curva, vedemmo che, felice, lo brandiva. E ci salutava. E lo stappava. E stava per berne dal collo una lunga sorsata. Era scritto “soave” sul fiasco e il tedesco non doveva contare molto se la Germania non ha poi dichiarato guerra all’Italia.

il grafo della fine dell’infanzia

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In fondo erano poche strade, anche se a me parevano tante, il grafo dei miei percorsi l’avevo in testa, con relative priorità e gradi di piacere, ma allora non sapevo cos’era un grafo ed erano solo strade e luoghi di congiunzione tra necessità e libertà. Avevo 11 anni, quasi 12, come il millequattro quasi  millecinque di non ci resta che piangere. Casa, campo da pallacanestro, patronato, scuola, i giardini di certe case in rovina, case di amici, il Prato e gli zii, i giardini dell’arena e le piazze. Percorsi con i calzoni corti, di corsa, da solo, in compagnia, nel sole delle estati afose di città, piano, sotto i portici, d’inverno. Alcuni pensieri ancora li ricordo, erano di attesa di cose buone, di futuro. E poi quella nuova scuola. Tetra come sanno essere i conventi strapazzati dagli usi civili, ricca di superfetazioni, laboratori, cemento e aule ricavate in spazi che un tempo dovevano essere belli. Una scuola professionale, perché questo aveva pensato per me il maestro, ed era stato pure ascoltato; che stupidaggine vista la mia manualità e la fantasia solitaria e galoppante. Comunque era un’ altra scuola e a me bastava per uscire dall’infanzia. Non più l’elementare vociante dei bambini, dei grembiuli e dei fiocchi, dei nonni in attesa, delle dita sporche d’inchiostro. Non più le aule che odoravano di vecchio e di legno, i finestroni altissimi che si riempivano di pioggia, le tende pesanti, nocciola di sporco e di canapa, gli alberi visti mentre desideravo esser fuori e lontano una voce spiegava, spiegava e io sognavo di tagliare un ramo del tasso che vedevo per farne un arco (come Robin Hood), non più lo stesso maestro, gli stessi compagni, gli stessi percorsi: tutto nuovo, strade nuove, occhi nuovi per un’età che cresceva troppo piano e troppo in fretta rispetto ai pensieri e al corpo che s’inerpicava nell’età prepubere. L’età informe e indecisa, la terra di nessuno in cui sarebbe accaduto molto, troppo, e capito nulla o quasi. l’età delle trasformazioni in cui scoprivo la libertà, la possibilità d’essere solo e felice. Eppure in quel vivere mi sembrava di non imparare nulla di confrontabile con il prima ed erano pochi i ricordi che restavano dei giorni, delle cose, quasi a negare l’età precedente, perché il ricordare è faccenda personale, un riposarsi nel passato, cosa davvero poco interessante quando si cresce o si esce da un’età e si entra trionfanti e timorosi nella successiva.

Eppoi c’era una nuova casa, perché in quell’anno traslocammo, nuovi pensieri e nuovi luoghi di gioco. Ambienti più grandi da odorare, un sole diverso che irrompeva da finestre disposte secondo nuovi orientamenti, odore di calcina e di lacca, pavimenti di legno a lunghe tavole, il terrazzo veneziano nel soggiorno, una televisione, un frigorifero, un giardino, un muro alto che separava da un convento pieno di ragazze che cantavano canzonette, una terrazzetta, due scalini di legno su cui mi sedevo guardando il Santo, con le sue cupole e l’angelo con la tromba che si muoveva con il vento e la soffitta e i mobili in cui nascondere fumetti e un tumulto dentro con la scoperta della malinconia. Forse mezzo chilometro, ma il mondo era davvero cambiato. Io ero davvero cambiato.

E continua…

fornitori di re e d’imperatori

Reale farmacia, premiata macelleria fornitrice della real casa. A cercarle, senza troppa fatica, nel centro della città si trovano le tracce dell’ ancien régime.

Curiosità e meraviglia di passati fasti o semplici transazioni commerciali? Della mia famiglia potrei dire: già esercente d’appalto per l’imperatore d’Austria e Ungheria, e c’era pure nell’insegna, ma erano solo sali e tabacchi in un emporio che comprendeva locanda e osteria. Troppo poco per un quarto di nobiltà commerciale. E comunque non durava perché anche chi costruì fortune e cavalierati spesso si preoccupò di occultare le relazioni scomode con il passato. Prima era toccato al leone di san Marco, rimosso con maldestra cura e semplicemente venduto al maggiore offerente, come marmo. Però forse c’era un contrappasso in tutto questo perché Venezia, prima aveva fatto lo stesso, rimuovendo accuratamente le insegne del carro a Padova e del cane a Verona. Perfino dai piatti e dallo stovigliame di corte li rimossero in una damnatio memorie, che insegue sempre i vinti. Come se questa poi bastasse a cancellare il ricordo assieme al lazzo e lo sberleffo che accompagna il potere e i vincitori.

Il ricordo invece è misericordioso, dimentica la ragione e lascia il mito, così della premiata macelleria fornitrice della real casa, oggi resta un’insegna grande e rossa e s’è perso il ricordo dei quarti d’animale forniti alle fameliche corti. Non dice l’insegna che i reali, o chi per essi, erano cattivi pagatori e in cambio di manzi e vitelle, si facevano lo sconto e davano una patente di fornitore sopraffino, ma  palanche poche. Così alla fine s’archiviarono i debiti e restò l’insegna. Stessa sorte per chissà quanti altri e per lo speziale, ma per sua fortuna, a corte, s’ammalavano meno d’estate e la villeggiatura in villa, ché a questo servivano le forniture, non durava più di tanto. Pensate a un turbine di cortigiani, feste, famigli e servitori, un popolo che si sfamava. Che dico fame? No, era appetito, ché la fame era del popolo, che era poco distante e tribolava tra pellagra e malaria e magari era pure contento della regale presenza. Altri tempi, anche per i reali fornitori.

Poi venne la repubblica, nessun Presidente si fece più vedere da queste parti, per suo conto arrivò il benessere. Che pure pagava meglio, però le insegne non si tolsero, perché anche  a regime cambiato, quella reale fornitura dava un’aura di buono, di eccellente prodotto, insomma sembrava aiutare gli affari. Qualcuno s’avventurò a fornire lo stato e s’ accorse che l’abitudine a pagare in ritardo non era mutata e che il debito era parte della fornitura. Così molti hanno smesso, forse per questo non si vedono insegne di fornitore della Repubblica da queste parti e i macellai e i farmacisti sono tornati a essere solo buoni commercianti senza titoli.