uso delle parole

Ci sono parole come arrabbiato, traditore, dolore, importanza, contare, libertà, sovranità, democrazia e molte altre, che meriterebbero una riflessione per capire se possiamo usarle. Cosa facciamo noi per il nostro Paese? Cosa facciamo noi per la libertà? Cosa facciamo noi perché la legalità sia la norma e non l’eccezione? Cos’è la democrazia oggi, in Italia, nel mondo? Ognuna di queste parole contiene un prezzo, una fatica e invece pensiamo di aver pagato il biglietto e di assistere a uno spettacolo. Di avere un diritto all’indifferenza, all’inumanità perché tutto ciò che non ci riguarda direttamente non esiste. È così che il buono si raggrinza in ambiti ristretti e il resto diventa grigio terreno d’opinione, ma cosa ci autorizza a diventare Dei, signori del bene e del male, detentori dell’indifferenza? La colpa è un retaggio antico, spesso usato a sproposito, inutile se non produce frutto, se non aiuta a trovare in noi l’umanità che ci è stata regalata da innumerevoli dolori passati, dal pensiero e dalla vita di chi ha avuto il coraggio di guardare il nero che alberga in fondo all’uomo e di indicare una via d’uscita. Per questo le parole diventano specchio, predizione, futuro e se le parole scaturiscono dalla violenza, la libertà, la democrazia perdono significato, non aiutano a trovare soluzioni umane e non salveranno nessuno. Neppure chi pronuncia quelle parole.

Un testimone sopravvissuto, ricordando quanto avvenne in Francia nel 1942, quando furono rastrellati 13152 ebrei, di cui oltre 4000 bambini, poi avviati ai campi di sterminio, disse che la Gestapo da sola non sarebbe mai riuscita ad arrestarne così tanti e che i bambini non li avrebbero presi. Erano stati il governo di Vichy, la polizia francese che aveva proceduto con ferocia e inumanità non richiesta, che utilizzò la delazione e l’indifferenza dei cittadini. Nessuno di quei bimbi sopravvisse e per molti anni nessuno pagò una colpa di inumanità immane. Ecco perché dovremmo stare attenti con le parole e con l’indifferenza perché tutto poi diventa possibile.

quasi una certezza, adesso

Averne il sospetto e non poter dargli la giusta dimensione, ovvero lasciarlo crescere come un palloncino e farlo diventare certezza. Una certezza che può volare per aria, tanta è la sua leggerezza e la sua libertà dal bisogno d’essere ricordata. Una certezza che si collega alla passione e al tempo e ne stabilisce il legame comune, che è quello d’essere privi di limite.

Mia nonna si sedeva vicino alla finestra su una sedia di legno curvato. Il sedile aveva dei disegni floreali a rilievo su cui mi divertivo a passare le dita per leggerne delle storie. Lei preferiva quella sedia, in tutto ce n’erano sei, alle altre. Lungo la parete, vicino al secchiaio, c’erano due sedie impagliate che quasi sempre avevano sopra qualcosa. Erano abbastanza rozze, rispetto alle altre, comprate al mercato di piazza dei frutti e tagliate da qualcuno in campagna, d’inverno, quando oltre alle uova e le verze, c’era poco da vendere al mercato. Per ultime, due Thonet, stavano ai lati di un mobile che faceva da madia e canterano, con la loro aria di ragazze alla moda d’un tempo e la fragilità della paglia di Vienna, venivano usate quando c’era necessità per accogliere qualche ospite non troppo corpulento. Ma ho l’impressione che in quegli anni ci fossero pochi grassi tra i parenti. Mia nonna, dicevo, sedeva vicino la finestra e si prendeva qualche lavoro da fare tra le mani, ma non lavorava. Guardava fuori e pensava. Di certo aveva molto a cui pensare, una vita densa, ma alle mie domande non rispondeva se non con frasi brevi, modi di dire che venivano da un dialetto arcaico. Guardava il sole che illuminava la casa vicina, poi un terrazzo tra due case e infine il palazzo dell’università. Tra la nostra casa e quel luogo del sapere così famoso, c’era un ramo del fiume che entrava in città, ma più che vederlo, se ne sentiva l’odore d’acqua che d’estate, diventava più acuto per i resti di pesce delle pescherie gettati nel canale.

Gli occhi di mia nonna erano belli, scuri e acuti, scrutavano dentro di sé e fuori, avevano un’aria ironica che toglieva domande anziché aggiungerne. Avevano un senso del tempo, quegli occhi, e vedevano e guardavano. Quando era vicina alla finestra vedeva mentre il pensiero ripassava la vita, forse, oppure si concentrava su cose sue che attendevano da tempo una soluzione. Con me, invece, guardava. Mi mostrava le cose, raccontandole più che additandole, con una discrezione particolare perché non si evidenziano gli interessi, mi diceva. Gli interessi mostrano le nostre debolezze, quello che vorremmo e non abbiamo, quello che non sappiamo e vorremmo sapere e ci rendono più deboli a chi possiede e a chi sa. Qui non capivo bene, ma mi adattavo a meravigliarmi senza sguaiatezze, e imparavo a indirizzare lo sguardo, riservando lo stupore a ciò che davvero lo meritava. Mia nonna aveva scelto di vivere qui e ora e il suo senso del tempo era infinito. Avrebbe potuto scegliere di avere passioni che la assorbivano totalmente e ancora il suo tempo sarebbe stato infinito, ma non le era stato concesso, per cui con un atto di libertà grande aveva diviso i suoi interessi tra gli affetti e la necessità. Ogni necessità aveva il suo tempo e la sua ripetitività e lì si esauriva. Ogni tempo si chiudeva con un fatto e al tempo stesso si apriva su qualcosa di nuovo che sarebbe potuto essere. Quando eravamo assieme si dedicava totalmente a me, non pensava ad altro; quando si metteva a fianco della finestra si dedicava ai suoi pensieri. 

Non lo capisco ancora bene, segno che devo fare strada, andare più in profondità, ma il senso del tempo e della sua durata, mia nonna l’aveva risolto. Non si lamentava della vita, non raccontava stanchezze, stava in silenzio se la conversazione non la riguardava, però su ciò che la appassionava, diceva. Prendeva iniziative, era libera, partecipava, andava. Aveva trovato il modo di vivere qui e ora e al tempo stesso di curare le piccole cose che potevano crescere. Segmenti di necessità e libertà messi assieme e in sequenza, senza che la necessità diventasse un limite alle passioni. Piccole cose che potevano crescere e che chiedevano armonia, equilibrio. Lei aveva trovato un modo che permetteva di vivere in armonia e questo dava al tempo il suo senso, ovvero che era uno strumento, a disposizione e inesauribile. Capisco ora che non mi additava questa meraviglia, ma me la mostrava con il suo modo di vivere, m’invitava a guardare e poi a trarre le mie conclusioni. In libertà, e non subito, il tempo sarebbe stato quello delle domande, quando la necessità avrebbe trovato il suo limite e le passioni sarebbero state più forti.

 

la vita è eterna

Lo sappiamo che la vita è eterna, anche la nostra vita. Lo vediamo in ogni bellezza che ci colpisce, in ogni attenzione che rivolgiamo al nostro corpo quando lo riconosciamo. Lo vediamo in ogni cosa lasciata in disparte per essere centellinata con la giusta attenzione, lo cogliamo in un colore che non ha un nome ma vibra splendente della sua lunghezza d’onda, lo sentiamo nel sole che preme sui vetri e che orienta i girasoli che s’affollano nei vasi. Lo possiamo intuire nella penombra che, perfetta, disegna ogni arco di portico e si ripete mai uguale, ogni giorno, la possiamo sentire nelle battute scambiate tra un venditore di verdure, una vecchia cliente e un ragazzo sui pattini che distribuisce assaggi di coca cola light. Lo sappiamo senza che nessuno ce l’abbia detto ed è dentro di noi che la sentiamo questa eternità che quando si accoccola serena, ci rincuora e ci dice che tutto è nuovo non che tutto passa.

Un’amica mi manda fotografie da Lisbona, ha il tempo giusto del viaggiatore, guarda, gode del sole e della musica di strada, beve birra e caffè, si muove curiosa. Il suo pensiero solleva il desiderio di andare, di seguire l’istinto che non consuma ma si sofferma, che si perde, si stanca e si ritrova. Ogni sera e ogni mattina, nuovo. 

E allora di che lamentarsi? Del tempo che passa? Della noia? Della complicazione e del modo di vivere, oppure di noi, dell’insoddisfazione che si racchiude nelle parole: non ho tempo. Mai abbastanza sembra, mai conforme a un dovere che deve dare un senso, una utilità indimostrabile e lontana. Persino del dire si accavallano le parole. Mai come adesso le parole sono state tante e divorano la curva del tempo, lo allontanano da noi, lo nutrono di imperativi mentre la comunicazione mette assieme ed è fluida. Non usa il devo ma il sono. Allora dire poco allunga il tempo e lo rende uno scialle in cui avvolgere se stessi e il senso, ci fa guardare benevoli alle parole che si accumulate e fa scoprire che troppe sono fruste, usate senza attenzione, mentre altre giacciono nuove e meravigliose nella nostra mente. Così il passato si stende davanti, si apre e diventa futuro, non sale sulle spalle e diventa piombo. Noi siamo il nostro tempo, noi con i nostri immensi ricordi, noi con il crogiolare dei piccoli fallimenti, noi con le pagine che attendono pazienti, noi con la certezza che si può andare, sempre, da qualche parte, e sarà nuova se sapremo sentirla nostra. Non d’altri, nostra come il nostro tempo.

a chi giova?

Sulla situazione politica che si è creata, la mia percezione è che manchi un legame con il Paese, che non si dica la verità a partire dai programmi elettorali che ciascuno propone. E i primi ad essere presi in giro sono gli elettori. La vicenda del mancato governo giallo verde è emblematica al riguardo, sia nei modi in cui si è svolta ma soprattutto nel suo epilogo, dove esiste un vincitore che comunque incassa e un gabbato che pensava di aver fatto un affare vendendo la sua merce (i propri voti) al migliore offerente.

Ma ora che accadrà, perché nel vociare di questi giorni, nella confusione, comunque emerge l’immagine di un Paese ancora più diviso. Anzi è come vi fossero diversi paesi, con diversi abitanti che non hanno interessi comuni, ma neppure vincoli contratti, competitori economici, arretratezze sociali e tecnologiche da risolvere e che tutto si possa trasformare in un braccio di ferro tra furbi dove chi vince ha segnato un punto a suo favore e fatto fesso l’altro. E chi è l’altro se non lo stesso Paese. L’assenza di responsabilità politica, cioè il mendacio, il non dire la verità, l’usare la cosa pubblica per fini di parte, come può essere giudicata e castigata dai cittadini? Perché senza responsabilità politica non esiste neppure l’opposizione, sono tutti all’opposizione, e mentre le cose degradano, la nave affonda e ci si arrangia; chi è sulla scialuppa e chi nuota, ma i più annegano. Bisogna farsi delle domande e cercare di salvare il Paese, essere radicali nei rimedi ma rifiutare gli apprendisti stregoni, proporre quello che è possibile fare con i tempi per farlo. Chiedetevi a chi giova tutto questo e forse qualche dubbio vi verrà, come viene a me.

Gli elettori non sono assolti dalla legge elettorale, neppure dalla loro condizione se vogliono davvero uscirne, come non lo è la politica e questa debolezza di statisti, di persone ragionanti, dai forti principi è sostituita dai vocianti. Ci mettiamo nelle mani di guaritori per non vedere la malattia che si chiama illegalità diffusa, diseguaglianza crescente, povertà, debito immane del Paese, sperequazione territoriale della crescita. Non so quale sarà il prossimo segnale che verrà dato e con quanta responsabilità, ma se oltre a spaccare il Paese, si frantumano le possibilità di crescita, di soluzione dei problemi di equità, di risposta alla povertà crescente, non c’è soluzione alla crisi di identità comune. Il radicalismo può essere una soluzione ma il Paese parla di diversi radicalismi, uno per ogni problema e sono tra loro largamente inconciliabili, questo farebbe pensare che un leader che dica la verità, che proponga poche risposte ai problemi principali potrebbe ancora unire, essere creduto perché parla a tutti e unisce. Non so se esista, so che l’odio crescente, la paura, la ribellione non si governano e causano solo disastri.

27 maggio 2018

Molte cose accadono di maggio in Italia, sembra un mese in cui il destino comune svolta, e ci ricorderemo di questa data, delle parole del Presidente della Repubblica che dicevano cose inusuali nei discorsi pubblici. Parlavano di spread, di risparmi degli italiani, di mutui, di trattati da rispettare, di onorabilità del Paese. Si sa le parole sono parole e in politica non è considerato un peccato mentire, dire una cosa e pensarne un’altra. È nel sentire comune attribuire alla politica, non ai suoi frutti, una sorta di recita in cui le offese non sono mai così gravi, gli apprezzamenti sono di maniera, i patti si rispettano se conviene. Ma ieri sera c’era qualcos’altro che rimandava a momenti recenti e passati, c’era ad esempio il referendum sulle modifiche alla Costituzione che non era passato e che rivendicava agli attori della Carta una dignità e un ruolo ben definito, c’era l’eco di una legge elettorale che sembrava più contro qualcuno che per qualcosa e stranamente l’aveva approvata gran parte del Parlamento, c’era il ricordo di altri momenti tragici della Repubblica quando il Presidente si era rivolto alla nazione per superare fatti irreparabili. Tale era stato il momento della uccisione della scorta di Aldo Moro e poi la morte dello stesso Statista. C’era l’impressione forte che il gioco che coinvolgeva tutti si fosse trasformato in una cosa seria e che le parole del Presidente dicessero la verità, la realtà dopo tanta narrazione.

L’Italia ha un debito di 2400 miliardi di euro, è il terzo Paese più indebitato al mondo, ma gli altri si chiamano Stati Uniti, Giappone, Cina, Francia, Regno Unito, Germania, cioè Stati che hanno tassi di crescita spesso il doppio del nostro e soprattutto meno segnati da disfunzioni strutturali che si chiamano lentezze burocratiche, illegalità diffusa, evasione contributiva e fiscale, precarietà lavorativa, sociale, geografica. In queste condizioni ci si trova come una famiglia che ha bisogno di un mutuo per pagare la casa in cui abita e la banca accende un’ipoteca sul bene, finché si è solvibili e si paga la casa che si considera propria, resta tale, ma quando non si paga più, si perde tutto perché in realtà quella casa era del creditore. Per questo le parole che hanno un significato assoluto poi non si possono esercitare fino in fondo se non si è credibili. Sovranità ad esempio, è una parola reale e forte solo quando si è realmente liberi, ovvero non si dipende da altri per la nostra modalità di vita. Io credo molto alla libertà e alla sovranità e so che queste parole hanno un prezzo, come credo molto alla Costituzione e so che non si può difendere quando fa comodo e metterla sotto i piedi quando è fastidiosa. So anche che l’equilibrio dei poteri è una garanzia per tutti e non solo per alcuni, che il Presidente della Repubblica non può essere di parte ma sopra le parti. Questo accade in particolare nei momenti di crisi, Mattarella viene da un’area politica precisa eppure quell’area è quella più in crisi in base alle sue decisioni di ieri sera. Non ha fatto il conto becero, del lasciamoli governare, si schianteranno da soli. Neppure si è messo in attesa a guardare come fosse una farsa da gustare assieme ai pop corn. Anche perché sa bene che un governo che fallisce lo paga l’ intero Paese e di più, le parti deboli di esso. Ha cercato di assecondare, ha esplorato, ha atteso che due partiti fermassero una sua decisione e che cercassero il loro tentativo di accordo. Poteva fare altre cose? Certo, ad esempio dare un incarico pieno a Di Maio o a Salvini e attendere che fosse il parlamento a bocciare, poteva farlo, ma credo avrebbe incluso il trasformismo dei parlamentari nell’incarico visto che nessuno aveva i numeri necessari. Quindi ha seguito la strada tracciata dalla legge elettorale per tre quarti proporzionale e di necessità coalizionale se non si raggiunge il premio di maggioranza.

Però una cosa non poteva farla, ovvero far finta di niente e firmare tutto quello che gli veniva proposto, ha ribadito che ci sono prerogative di controllo del Presidente che non possono essere toccate e che assicurano che chiunque vinca avrà delle regole da rispettare: il patto costituzionale nel suo insieme e i trattati firmati, perché essi sono garanzie interne ed esterne per l’intera nazione e non per una sola parte. Di questo dovremmo essere consci, ovvero che se un capo partito può agire per interesse politico, il capo dello Stato deve agire per interesse della Nazione. È opinabile il suo agire? Certo perché le leggi hanno una interpretazione, ma non per questo si abrogano e io sto con la Costituzione e il Presidente, sapendo che è questa la garanzia di un terreno comune per la politica. Gli altri possono alzare la voce, mentire, guardare a piccoli interessi, ma chi rappresenta l’Italia è solo con se stesso e la Costituzione e finché la difende e la applica, anche quando posso avere opinioni diverse, io sto con lui. A difesa della Costituzione.

per fezione

Come briciole si perde la perfezione per strada, l’idea era buona e si è franta nel modo giusto creando una silloge di specchi. Ciascuno rifletteva l’altro in una infinita ripetuta realtà e il tempo si fermava tra l’una e l’altra immagine, sospeso e in attesa. Non si capisce nulla? Meglio parlare del minuto che s’incontra per caso ( e non è mai per caso), un volto, uno stare, un mettere argine al pensiero che disturba. Tutto serve. Sapessi quanti cani devo tenere a bada e nessuno è mansueto perché ognuno difende un territorio ben preciso: l’urgenza.  La sua urgenza. Così nel contenere, ti regalo un’immagine, la forchetta che affonda nella millefoglie. Fuori dell’ombrellone bianco il sole mangia i colori, ma qui la crema chantilly esce tenera di giallo, esce e si lascia raccogliere dalla punta della forchetta. Se non ci fosse un parlottare attorno si sentirebbe il crepitio della sfoglia che si frange, il profumo del caffè che attende, il gusto che manifesta l’imperio del senso. Che rimanda ad altri gusti e desideri, allegoria di specchi del pensiero. L’urgenza è tra il prolungare e il finire, che comunque s’estingue in un ultimo sapore, ma quel sapore durerà a lungo. Ecco che la perfezione lascia una scia ma si consuma, dev’essere consumata, non deve interpellare oltre la soglia della sazietà. E ancora un’immagine aiuta, è la lama di luce che si apre una strada netta, entra e si ferma, solo lo sguaiato aprirebbe intera la porta, chi conosce l’imperfezione propria, gode della danza del pulviscolo, se ne incanta, immagina e coglie vita dove c’è polvere. Fuori una tenda sbatte in sincronia col vento, ed ha momenti d’attesa prima di vibrare, come l’amore, potrei dire, che oltrepassa una riga e poi un’altra e infine ha un suo ritmare tumultuoso con lento accarezzare.

qui non si parla di politica

Un tempo lo si trovava scritto nelle osterie: qui non si parla di politica. Era un cartello stazzonato, con qualche mosca spiaccicata, retaggio del fascismo e dei suoi pericoli. Poi di politica si è parlato molto, spesso di squincio per dire con chi si era, autodefinirsi senza grande fatica, e l’ideologia aiutava molto. Anche chi era anti qualcosa era comunque parte di un gruppo in cui circolava qualche risposta e non pochi perché. Poi è subentrata l’indifferenza. Più o meno negli anni 80/90 quando fare politica aveva acquisito assieme alla Milano da bere, una sua rarefazione ideale, ma tutto era già nato prima.

Si dice adesso che tornino i fascismi, che l’istinto autoritario sempre presente nelle azioni e nel pensare umano, prenda il sopravvento. È il bisogno di un capo quando non c’è più un padre e anche la madre diventa incerta, oppure è quel bisogno di non avere responsabilità, di delegare che ha ucciso la cultura della partecipazione. E a cosa  si può partecipare se tutto attorno dice che sei in competizione, con tutti, nel lavoro, nella coda al supermercato, nel trovare un posto all’asilo per tuo figlio? La competizione atomizza, riduce la persona a non dover chiedere perché mostrerebbe le proprie debolezze, oppure fa chiedere il non dovuto, la raccomandazione, comunque riduce gli spazi di fiducia, abroga le regole comuni. Quest’ultima parte diventa fondamentale, senza regole comuni tutti sono avversari o nemici e in politica si assiste ad una condizione esilarante in cui tutti vorrebbero essere all’opposizione. Questo è il combinato disposto di anni di balle, di narrazione della realtà, di irrisione degli ideali, di demonizzazione del noi, che hanno demolito il senso comune. Non si parla della bellezza della differenza ma del culto della differenziazione, non si disquisisce sul perché siamo assieme e in tanti possiamo fare più della somma di ciascuno ma del rifiuto di stare assieme.

Si sono create delle realtà prive di prova effettuale, insomma verosimili ma non verificabili. È la narrazione che dice a chi sta peggio che non è vero, è la statistica che parla di lavoro in crescita a chi non lo trova, e diventa la colpevolizzazione di non vivere nella realtà giusta, ovvero quella raccontata. E siccome le narrazioni sono diverse e per paure o speranze differenti, ognuno sceglie la sua, salvo poi scoprire che era una balla, che non è possibile, o meglio che chi racconta effettivamente gli darebbe ciò che promette ma qualcuno glielo impedisce. Un cattivo si trova sempre, un complotto affascina, ma la realtà non cambia.

Se si dovessero dire quale siano i compiti identitari della politica democratica, a mio avviso, si dovrebbero individuare in due priorità: ricomporre la realtà in una sola, quella che tutti vivono, poveri e ricchi, e fare della politica una scelta individuale. Non è una cosa nuova, dopo il 1943 chi scelse l’antifascismo e la resistenza fece queste due cose. Prima di essere comunista o democristiano o socialista o repubblicano, scelse di vedere la realtà del fascismo che era ben diversa da quella che era stata raccontata per vent’anni e unificò la sua realtà con quella degli altri antifascisti. L’altra scelta fu quella che lo riguardava nei confronti della politica ovvero se contare o meno nel creare il proprio futuro; poteva essere indifferente, opportunista, ignavo, oppure scegliere. In molti scelsero e cominciarono a creare un paese condiviso. Chi era all’opposizione voleva prendere la guida del Paese per portare innanzi un benessere più forte, ma agiva all’interno della stessa realtà.

Tutto questo si è smarrito e nella politica, è compito della sinistra rimettere assieme la realtà dei bisogni con quello che viene raccontato. È compito della sinistra dare risposte che riguardino i problemi reali non le conquiste immaginarie che non si traducono in vita quotidiana. È compito della sinistra fare della politica una scelta individuale che mette insieme, che partecipa a un noi. È compito della sinistra far sì che la competizione serva anzitutto a chi perde mentre premia chi ha più qualità. Non è difficile spiegare questo concetto, se chi concorre non vince deve avere la possibilità di far meglio e di vincere la prossima volta. Ci dev’essere un noi anche quando si ha l’eccellenza perché il Paese cresca, altrimenti si allarga l’abisso tra i pochi primi e i tanti ultimi e questi non si solleveranno più. Si cresce assieme perché ci sono idee diverse e un tessuto comune, regole comuni, legalità comune.

Qui non si parla di politica ma di condizioni per farla, di onestà e pulizia, di un arrivare alla sinistra e non di dire: io sono di sinistra ma mi va bene tutto quello che impedisce l’equità. La notizia buona è che non c’è nulla che non possa essere fatto meglio e a servizio di tutti, quella cattiva è che non ci verrà mai regalato. E adesso ognuno decida perché la decisione è personale.

 

vicino al mare

Il negoziante, parlava italiano ed era comunista. Lo disse subito, sentendoci entrare, per mettere le cose in chiaro e rifiutare il mio scarso inglese. Credo. Rispondeva volentieri alle curiosità che sollevava: aveva partecipato alla guerra civile, poi si era ritirato in quel negozio che era più un corridoio che una stanza, con un bancone e pochi barattoli e bottiglie alle spalle, Due cesti per il pane, uova e della feta che galleggiava in una bacinella coperta da una moschiera, a fianco, una vecchia radio che suonava musica tradizionale. Era seduto su uno sgabello alto e ci interrogava sull’Italia. Sapeva e leggeva di Grecia , di Europa. Il mondo – e noi – entrava da una porta di ferro, a riquadri di vetri sporchi; era sempre aperta con un triangolo di sole che illuminava un vecchio frigo a pozzetto. Una continuazione del bancone con voragine coperta da plastica. Sotto il rumore del compressore sincopato, che staccava e riprendeva sordo, con la ventola che frullava aria calda. Dentro il pozzetto c’erano verdure, bruchi infreddoliti, birra e retzina. Eravamo entrati per un panino, ci dissuase, indicando un’osteria nel porto. Però aveva voglia di parlare. Ci diceva che l’Italia era a rischio, che non c’era fine al principio e il principio era la lotta tra chi stava peggio e chi non se ne accorgeva. Si era fermato, cercava la frase. Gli suggerii: a ognuno secondo i suoi bisogni. Sorrise e completò: da ognuno secondo le sue capacità. Continuava a parlare e a chiedere dell’Italia. Rispondevo e guardavo lo yoghurt greco fatto in casa, il miele in barattoli e in favo, i dolcetti di pasta filante, tutto sotto quelle cupole di rete antimosche. Quelle mosche che erano appiccicate ai nastri di colla che pendevano dal soffitto. Godevamo dell’ombra e sparivano le voglie di cibo: col caldo atroce che faceva fuori, quel corridoio sembrava un salotto fresco. Però era quasi l’una e lui voleva mangiare.

Uscimmo in quel sole dove nulla resiste a lungo e nulla si libra in volo sicché il cielo resta troppo azzurro e pulito. Inquietante. L’osteria non era distante. Un luogo da lavoratori e marinai, per loro era già tardi e i tavoli erano quasi tutti liberi. Nulla era pulito: la tovaglia, le posate, i bicchieri, ma nulla era davvero sporco, bastava non pensarci troppo. Era vita, ribollente vita che dormiva  fino a notte, che s’appoggiava con i gomiti al secchiaio in cui galleggiavano sapone e resti di cibo, sopra le stoviglie. Mangiammo pesce arrosto con le mani, spezzando il pane e ridendo dell’acqua all’anice e della retzina e dell’ouzo finale. Tirammo in lungo finché si poté e poi uscimmo nel sole. Passando davanti al negozio entrai per ringraziarlo. Dormiva, la testa appoggiata sul bancone, il bicchiere mezzo pieno. Provai tenerezza, per lui, per la vita, per noi che andavamo e saremmo andati.

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pratico la gentilezza

Come posso pratico la gentilezza. Con tutti, anche con i supponenti e gli arroganti, ma per poco, il tempo di allontanarmi. La pratico con chi ammiro per le sue capacità, e lo faccio con gioia, ma anche con quelli che frequentano solo l’io e con chi racconta ciò che non è. Non so se la sentono, mi pare la considerino un atto dovuto, un omaggio naturale, come il loro non ringraziare, che è poi un modo di non vedere gli altri. Ci sono tanti modi di vedere, di essere sensibili, Hitler era vegetariano e amava gli animali, era sensibile a sé. Ci sono molte persone che hanno bisogno di tenersi assieme, per questo sono sensibili a sé, sorvolano e non notano. Mentre altre persone vedono in profondità, notano l’umanità, la sentono e la raccontano, magari per poco. Hanno una collezione di tipi umani,  ma sanno che ne esistono altri, sono curiose e spesso felici e tristi di essere vive. Forse io che osservo e cerco il noi, non sono diverso da queste persone, mi dico, e capisco che mi piacerebbe molto. Ma siccome non mi vedo, non so cosa pensino gli altri di me, come mi vedono. Magari distante, oppure troppo pieno delle mie piccole passioni, preso in inutilità di poco conto.

Non credo mi interessi sempre saperlo, però so che in un mondo dove si compete, dove le storie si assomigliano, ognuno le sente come esclusive e comunicare non è mai facile, per questo pratico la gentilezza. Non credo di essere migliore di altri, non l’ho mai pensato, però sento che mi viene donato non poco, e non saprei fare altro per ringraziare.

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sconosciuti ma non tanto

Tra lui e me c’è un legame di note e ciascuno sa poco dell’altro.

Ho un sito in cui pubblico parte della musica che ascolto e che costituisce una sorta di colonna sonora degli interessi stabili e delle scoperte. Questo sito lo frequentiamo in tre e quello che mi stupisce sono le approvazioni che uno di questi amici di strada, manifesta.  Ho cercato il suo blog, vedo quello che pubblica: abbiamo gusti differenti, o almeno così pare, ma lui è più aperto di me visto che ascolta musica molto diversa dalla mia.
Ho spesso immaginato che il virtuale diventi luogo e che in questo caso sia un locale affollato, in penombra, dove suonano cose diverse. Le persone si incontrano, a volte parlano, oppure si guardano e pensano ascoltando, in quella mistura magica in cui funzionano assieme gli occhi e l’udito. Poi se ne vanno: semplicemente vivono.
Potrebbe essere una cosa banale, ma credo sia una metafora del vivere oggi.