Il negoziante, parlava italiano ed era comunista. Lo disse subito, sentendoci entrare, per mettere le cose in chiaro e rifiutare il mio scarso inglese. Credo. Rispondeva volentieri alle curiosità che sollevava: aveva partecipato alla guerra civile, poi si era ritirato in quel negozio che era più un corridoio che una stanza, con un bancone e pochi barattoli e bottiglie alle spalle, Due cesti per il pane, uova e della feta che galleggiava in una bacinella coperta da una moschiera, a fianco, una vecchia radio che suonava musica tradizionale. Era seduto su uno sgabello alto e ci interrogava sull’Italia. Sapeva e leggeva di Grecia , di Europa. Il mondo – e noi – entrava da una porta di ferro, a riquadri di vetri sporchi; era sempre aperta con un triangolo di sole che illuminava un vecchio frigo a pozzetto. Una continuazione del bancone con voragine coperta da plastica. Sotto il rumore del compressore sincopato, che staccava e riprendeva sordo, con la ventola che frullava aria calda. Dentro il pozzetto c’erano verdure, bruchi infreddoliti, birra e retzina. Eravamo entrati per un panino, ci dissuase, indicando un’osteria nel porto. Però aveva voglia di parlare. Ci diceva che l’Italia era a rischio, che non c’era fine al principio e il principio era la lotta tra chi stava peggio e chi non se ne accorgeva. Si era fermato, cercava la frase. Gli suggerii: a ognuno secondo i suoi bisogni. Sorrise e completò: da ognuno secondo le sue capacità. Continuava a parlare e a chiedere dell’Italia. Rispondevo e guardavo lo yoghurt greco fatto in casa, il miele in barattoli e in favo, i dolcetti di pasta filante, tutto sotto quelle cupole di rete antimosche. Quelle mosche che erano appiccicate ai nastri di colla che pendevano dal soffitto. Godevamo dell’ombra e sparivano le voglie di cibo: col caldo atroce che faceva fuori, quel corridoio sembrava un salotto fresco. Però era quasi l’una e lui voleva mangiare.
Uscimmo in quel sole dove nulla resiste a lungo e nulla si libra in volo sicché il cielo resta troppo azzurro e pulito. Inquietante. L’osteria non era distante. Un luogo da lavoratori e marinai, per loro era già tardi e i tavoli erano quasi tutti liberi. Nulla era pulito: la tovaglia, le posate, i bicchieri, ma nulla era davvero sporco, bastava non pensarci troppo. Era vita, ribollente vita che dormiva fino a notte, che s’appoggiava con i gomiti al secchiaio in cui galleggiavano sapone e resti di cibo, sopra le stoviglie. Mangiammo pesce arrosto con le mani, spezzando il pane e ridendo dell’acqua all’anice e della retzina e dell’ouzo finale. Tirammo in lungo finché si poté e poi uscimmo nel sole. Passando davanti al negozio entrai per ringraziarlo. Dormiva, la testa appoggiata sul bancone, il bicchiere mezzo pieno. Provai tenerezza, per lui, per la vita, per noi che andavamo e saremmo andati.