La luce è a volte così stanca che si piega e dorme appena fuori del cuscino, così l’aria nella notte ascolta e nutre il respiro, al buio vede sogni e pensieri che si annodano dietro gli occhi chiusi, i timori che si vestono e danzano parlando nell’orecchio. C’è un tepore di corpo e piuma: una nuvola senza tempo s’aggira tra veglia e sogni, mentre le cose si dispongono in attesa, tace il buio, finalmente, e ancora l’allodola non canta dal caldo del suo nido.
Da dove si fosse originato tutto ciò non importava molto, era una risposta a qualcosa e forse era solo naturale evoluzione, crescita.
Come ci si muta secondo l’età? Ciò ch’era accaduto sembrava la prosecuzione dello stesso bisogno assoluto dei primi anni in cui ci si formava autonomi in famiglia. Quel darsi nella crescita senza un criterio, che non fosse il seguire tutto quello che prorompeva e premeva negli abiti, nel cervello, nei sentimenti, nel cuore in una novità continua che metteva in campo la voglia di misurare sé e il mondo, di non coincidere nei desideri comuni, nel mettere in discussione l’autorità.
Un individuo si forma, cresce, si stacca e nuovamente poi cerca di unirsi quando sa chi è, o almeno presume di saperlo, ma quella seconda unione non è la chiusura di una scissione dallo stesso corpo, piuttosto è il tentativo di riformarlo.
E questo riunire è più difficile, non solo perché ricerca pressoché impossibile a realizzarsi se non per pochi attimi, ma perché è un riunir restando individualità forte, un sentire comune che ha sentire diversi.
In questa fase, che già gli sembrata così forte, l’indipendenza s’era attuata, ne sentiva il sapore pregno di propri umori vitali, coglieva il legame con età vissute e mai sopite. E in essa c’erano le gioie profonde del coincidere, la necessità del distinguersi, il piacere di provare qualcosa che veniva condiviso ben oltre la superficie.
Tutto appreso strada facendo, in misura unica, perché l’unicità è in gran parte l’educazione che portiamo a noi stessi nei sentimenti, a partire dall’ambiente protetto dei primi anni e costruito più nelle difficoltà, nelle timidezze, negli scatti d’orgoglio che la costruzione della propria vita indipendente porta. E poi il lavoro, la fatica, i condizionamenti, le difficoltà e le gioie di un vivere autonomo fino ai diversi modi di vedere che si succedevano in un continuum di apprendimento che non apprende, di cadute e voli che dovevano lasciare il segno per iscriversi nei percorsi dell’anima.
Eppure non erano le difficoltà ad aver mosso prima l’inquietudine, poi il silenzio -che era modo di capire- anche se era stato a partire da quel silenzio interiore, da quella difficoltà a bastarsi com’era, che si era fatta strada la consapevolezza della necessità di un nuovo affrancamento, che pur essendo solo la naturale continuazione del precedente giovanile crescita e indipendenza.
Ciò che aveva mosso tutto era il rideterminarsi per sapere cosa era disposto a dare, cosa poteva essere. Una misura di sé, insomma, che non doveva dimostrare nulla a nessuno, ma costituire quel movimento verso il trovarsi, riconoscersi. E tanto bastava per motivare scelte difficili, banali e alte, sbagli e piccole rabbie per la difficoltà di mutare con la necessaria adeguatezza. Così gli pareva, occorreva velocità e intensità. E c’era la pazienza da apprendere e il proprio tempo, ché mica coincide con quello degli altri, ma è solo proprio, e capirlo.
È lo sfogliare quieto del catalogo già visto, la vita scorsa: figure e tratti di discorso attirano interesse e le fantasie di percorsi abbandonati, spremono il possibile mai stato. Ozio pensoso per il freddo sabato che già novembre saluta e fugge dalla calca e dalle luci delle feste.
Il giorno s’addensa nel tramonto freddo del colore pieno che riga l’orizzonte, è l’aria limpida che lo scrive e porta il sospiro lieve della notte. Poi sarà il laborioso sonno a traboccare dove tessono I fili mai tessuti e le trame inusitate. Storie dal senso arcano di figure amate, sicure di sé interpellano, tra enigmi ed emozioni.
Ci penserà il mattino, con luce piena e fretta di pulire, a cancellare quel dirsi perentorio e senza luogo. Ma cosa sono quelle briciole rimaste? Colori e pezzi di vissuto da spargere nel giorno, come coriandoli di festa all’usato nuovo che già urge l’attenzione.
Decifro le mie vecchie annotazioni contendono il margine nei libri, hanno il candore degli anni, tremori inutili di senso. Le parole hanno scadenze e paure, e il significato è voragine ma spalanca fondi luminosi, e vedersi può accogliere il limite, il suono che non torna, ricordare il sussurro che fioriva e arricciava il labbro mettendo il pensiero nel sorriso.
E ora ciò che è stato è aria, traccia che conduce, come il profumo della rosa impavida che solitaria affronta l’inverno,
Dallo zaino riposto esce un rivolo di sabbia, l’odore di battigia e il profumo del sole sulla pelle, tutto congiura lieto nel pensiero d’un allora diverso e stato.
Nel pomeriggio radioso lungo una banchina di stazione, o la sera in un bar di periferia, tra chiacchiere e fumo tazze orlate di schiuma e bicchieri bagnati di birra, qualcosa si rompeva incidendo la carne. Parole senza tempo né luogo e neppure creanza, irrompevano nell’estate che si apriva alla festa, o nella riva ancor calda del mare d’ottobre, ridevano di noi, dei nostri passi nudi tra sassi impietosi in torrenti a primavera, erano il tempo che illude il suo compiere e piccoli addii per costellare malinconie ed errori
per fortuna vissuti. Così riposta la memoria, alimentato il rimpianto, è rimasta una scia, di scarpe lasciate a fianco dei cassonetti di città, per rinnovare il cammino, ma conservo il giallo dei tigli di maggio, la ferocia dei tannini di noce, l’asprore dolce dell’uva da vino e la bruma dell’erba dei mattini d’attesa. Non ho memoria di ciò che ho nascosto ma stanotte I tuoi sorrisi erano luce nell’ombra, quieti I timori posti nel canto del futuro subito, e tra notturni sogni di fuoco e di polvere, c’era l’ultimo calore condiviso nel cielo impietoso che stringeva l’abbraccio. Nulla s’apprende, nulla che conti, l’amore, la gioia sono sorprese, e nel loro riflettersi la luce si perde, in un gioco di specchi dove la sostanza rapprende e nasconde, ma non trattiene qualcosa di rosso ed è nel lampo che il moto degl’occhi intravvede d’essere stato e non ancora compiuto.
Apprestarsi al meriggio, fidando nei gesti appresi e all’avaro pensare, al fraintendere che è richiesta. Scorrono semi d’intuito, scintille che non appiccano fuochi, e anelano aria pulita, come la mano che sente dell’acqua la carezza ne scioglie gl’innumeri fili. È così l’aria che di noi serba impronta e mescola allegra ignare persone, e non conosce la direzione del caso ma avvolge di refoli tiepidi la pelle, il viso, il corpo che l’accoglienza indiscreta. Così è la luce, e il sospendere la penna sul foglio, aspettando che la parola si colmi, mentre è il senso che riempie e ferma ogni tempo, lo confonde, lo quieta. Dolce e inerme, è il restare, sospesi e inconclusi come ogni buono che ci attende.
Chiusa la porta ora l’aria è una lama che sfugge, la luce batte sui vetri, sgomita, apre varchi, chiede alle probabilità, che gli occhi socchiudono, che il sogno inizi. Là dove il verde si guarda e s’intenerisce di sé chiedi a chi tiene conto, dei fili dell’erba, d’ogni orma passata, del volo in ogni sua specie. Vedi come scava la luce nei muri, cogli l’ombra dei passi che addolcisce la pietra, E senti del cuore gli inciampi, il canto sommesso delle cose in disparte, e il dire tuo, nel pensiero che esita, diviene cura eccessiva del gesto, sino al sospiro che ammutolisce. Immagino la penombra, il rumore della quiete e l’offerta che sceglie, dal senso la forma del dirlo, accosti il sentire come fosse colore e dissona o converge del tutto la piena armonia.
È così raro tenere il filo dei ricordi senza tempo, cucirli d’ordinato andare mentre gli occhi s’alzano verso il vetro e il cielo. Dolce è passare il dorso della mano, e scrivere immemori il vapore, presi dalla trama delle gocce che corrono e cancellano la storia. Pomeriggio d’autunno di cui amare il calore immoto, è tenera la penombra della quiete prima della lampada, che rammenta il segno d’un rumore antico. Il pensiero annusa il tempo e taglia il cotone con forbice affilata, attento al gesso dei confini, per cucire una sorpresa stata. Come voce nel teatro vuoto, nella casa dagli accostati scuri, la notte entra staffilando la residua luce, il credo dell’amare è rimasto a guardia del sentire.
Perché scrivere pessime poesie, se non per dirsi che si vive, che si sente nel rumore del mondo ancora l’uomo e la sua cura. E attorno, guardando, preziosa è la pace del colore senza tempo, del suono d’acqua sulla riva che afferra e si ritrae. Lo sguardo scioglie sé nell’infinito ed è finalmente piccola cosa senza pretese e ordine, vibrazione quieta d’universo che il suo posto e luogo sente e vive. È allora che la speranza incredula emerge e attinge al buono senza nome o dimensione, senza cinico rifiuto della grammatica realtà, e delle sue terribili parole mutate in ferocia e sangue e rovine e terra e pianto. Dire bimbo o donna o vecchio è già dolore e nel sentire la violenza nasce l’agire, il disgusto per ciò che piega le menti oltre la maledizione di Caino. Si scontra in me la realtà nel dilaniarsi d’ogni comprensione col bisogno d’una quiete dove l’animo si posi, e poi riprenda la paziente lotta.
Forse perché la giovinezza non finisce mai il tempo scorre, ma amico a noi rallenta, e trascina nel vivere tristezze e gioie che sgorgano in progetti e incauti entusiasmi, così si vedono le giornate che aggiungono e poi tolgono, mai banali per davvero, mai prive d’un colore, d’uno sguardo che stupisce e allegra, ed è scoperta d’un vivere in cui v’è posto per diversa attenzione e meraviglia. In questo vivere gli anni, come costruzione e attendere ch’essi donino cura, s’anima la speranza dell’amore. Sentire di cui si sa molto e nulla, oggetto per timido timore d’infingimenti e oneste ritrosie, ma vitale e vivo, come usa la perfezione senza pretese, ch’è finestra felice aperta all’aria. E anche quando l’impalpabile è freddo Il desiderio alla limpidezza muove gli occhi, dice che tutto è difficile e promette, ma che anche il bianco e nero è così ricco e profondo di colore.