C’era nell’aria una vaga apprensione, come usa, non di rado, agli umani la vita. La delusione viene senza compagnia, prende, divora l’orlo delle ore di luce. Fuori, nell’aria che presume la neve, l’erba s’oscura, le luci nette hanno traversato l’ombra appesa, e si sono soffermate sulle coste dei libri. Il tramonto s’è acceso, indifferente non odora di nulla, se non delle età altrove vissute. La pace è parola breve, chiude in sé l’abitudine mentre s’apre per accogliere il nuovo. Nel profondo d’ogni dubitare c’è il germe della tempesta, ed è un nonnulla improvviso, un suono di basso, pedale d’organo e vortice d’abisso, che ruota e aspira ogni quiete, e invoca il sogno e il sonno che ripara mentre nel nulla s’annulla.
Da qualche parte, a casa di mia madre, dovrebbe esserci una valigia che ricordo da sempre. Fatta di un materiale di un bel colore biondo, rigida, con le chiusure a scatto d’altri tempi, quella valigia aveva seguito mio padre e mia madre, sin dal loro viaggio di nozze di guerra. E la ricordo, pesantissima, da bambino, che d’estate si riempiva di spaghetti, “subioti” e altro, per le nostre lunghissime vacanze al mare, dove non c’era la varietà di cibo della città. C’era una gara, con mio fratello, per portarla su e giù da vaporetti, filovie, treni, poi sarebbe tornata leggera, come i nostri occhi, che si sentivano straniati guardando la casa, le scale, le cose mie e nostre, dopo tanto tempo d’assenza.
Ecco, quella nozione antica di peso, non la trovo più, le valigie hanno le ruote, i portabagagli sono diventati rari nelle stazioni, negli alberghi il trasporto in camera, spesso, è su richiesta. Un campione di platino iridio giace a Sèvres, ma per chi sarà quella sensazione tangibile da palmo della mano? Sono i nuovi abitanti del mondo a circolare con enormi valigie e bagagli. Mani, muscoli, spalle, collo, testa, equilibrio, tutto connesso al quotidiano, ma ancor più alla nozione del vivere. Una nozione che sfugge ormai in occidente, nella civiltà dei colletti bianchi. Mi sono chiesto, vedendo le montagne di bagagli che seguono uomini e donne vicino a corriere, treni, aerei, da dove venissero quelle enormi valigie, quei borsoni a misura d’uomo, nel senso che possono tranquillamente contenere un uomo. La risposta, dalla Cina, è parte della domanda, perché questo significa che c’è un mercato compreso da qualcuno, che giustifica una produzione di massa, che esiste altrove una percezione di una realtà del mondo fatta di grandi numeri rimossi dalla nostra necessità. E quindi esperienza del reale, che vediamo e non capiamo perché la cosa non ci appartiene più. In Africa, in Asia, ovunque, ci sono file di persone in cammino, cumuli di fagotti, di scatole, valigie più o meno sfondate, una sensazione del peso che ci è sfuggita. Ci siamo gradatamente liberati dal peso per liberarci dalla fatica, adesso è la borsa della spesa a dare la misura, e tende a pesare di più, come sempre accade nei periodi crisi: le cose leggere costano di più, mentre il pane, la pasta riempiono e saziano. Gli anziani lo sentono di più per i limiti fisici e per il progressivo impoverimento. E il senso del peso indica la relazione tra popoli ed economia. In questo caso, riflettere sulla fatica si connette alla percezione del mondo, un rendersi conto di dove siamo e come stiamo mutando, noi, qui ed ora. Quasi un tracciare il limite del nostro recinto, culturale, economico, fisico che, nella liberazione della fatica ha trovato la propria ragion d’essere, ma non riflette e perde senso se non capisce che precarietà e peso sono condizioni del vivere e che lì c’è una delle contraddizioni dell’economia eguale.
Parliamo tanto di me, che questo poi si fa guardando il mondo e raffrontandoci in continuo con ciò che percepiamo, sentiamo, guardiamo. A questo serve scrivere parlando d’altro. E pure a dire la verità scrivendo, la mia verità. La verità non si esibisce, si racconta, è un’approssimazione della comprensione, ma la verità di chi scrive onestamente, anche quando è ipotetica, è chirurgica. Almeno chirurgica a sé, e inseguendo qualche demone, lo anatomizza, mentre vuol lasciarlo vivo ed aderente alla sua verità. Ché poi è la stessa di chi scrive. La verità del guitto, invece, balla larga nei vestiti non sono suoi e vuole farli apparire tali.
Dirla con semplicità, la verità, ma questo è il segreto dello scrittore di rango che ammanta la semplicità di vesti e la lascia spogliare da chi conosce l’erotismo della verità.
La verità ha una sua malinconia, che supera di molto il racconto del proprio malessere, anzi il parlar d’altro è un modo per proporre diversamente la malinconia che è nelle cose. E sono le cose che ci colpiscono, che offendono; in fondo la verità è una mediazione tra un sentire e un essere ed entrambe le condizioni sono vulnerabili dalle cose.
E se restiamo in ambiti domestici: la nostra verità, che è poi bisogno, non ha specchio nel bujo del non vedersi, del non sapere chi si ha davanti. Soprattutto se si scrive come si borbotta tra sé. Il fatto di non avere specchio nello sguardo, nell’espressione, fa trovare specchio nelle parole e qui, a volte, si potrebbe usare la perfetta ricetta dello scrittore, ovvero mistero, storia, erotismo q.b. Ma questa non è mica verità, è sceneggiatura, plot narrativo. Eppure quanti tentativi maldestri di racconto auto specchiante slegato da chi scrive, si trovano.
Chi ha lembi di storia comune si capisce per ricordi conosciuti, sensazioni sperimentate. Aiuta il vissuto che si sovrappone. Questa condizione si può trasferire anche nella relazione epistolare, che è fatta di sintonie profonde, rivelazioni intime, è un percorso di conoscenza, una relazione. Invece scrivere spesso razionalizza, semplifica. Una frase in testa è fatta di continuità piene di puntini multimediali, qui spiegare tutto diventa una fatica immane. Allora si toglie il magico, l’irrazionale, e si perde il succo della vita vera.
No sempre scrivo per essere capito subito, non da tutti almeno, ma per la sintonia con chi pensa di aver capito. È così che accade: si guarda, si sente, si approssima e si capisce che manca qualcosa. Quello che si era sentito davvero.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto, asciugherà l’aria, schiaccerà rivoli di polvere nel ferro grigio dei tombini, dalle pareti delle case solleverà l’odore di calcina mescolandolo con l’acuto ozono dei fulmini vicini.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto, scriverà sulla sabbia con lettere cerchiate, consumerà i castelli dei bambini che il mare aveva risparmiato, mostrerà infinite bolle nelle pozzanghere ai rifugiati sotto i cornicioni.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto per confondere il caldo dei telegiornali, toglierà ai giorni il ripetere attonito dei mattini, farà scordare l’abbraccio dell’estate, porterà il desiderio dell’azzurro oltre nubi gonfie di grigio, attiverà speranze di fresco, ricaccerà gli alpinisti nei rifugi.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto a promettere frescure serali e sole ardito il giorno, verrà a raccontarci l’estate, la breve malinconia dei distacchi, appiccicherà gli occhi e le magliette sulla pelle, farà sorridere i ragazzi e i vecchi, spazzerà le menti dai pensieri grevi di calura.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto a distruggere il profumo dei capelli e della pelle arroventata, fermerà le bici nei garage, nasconderà i bikini in vestiti di cotone, libererà la spiaggia dall’odore delle creme, chiuderà gli ombrelloni in file piene d’attese.
Verrà l’ultima pioggia d’agosto a liberare le notti al sonno, mostrerà la città fuori stagione, solleverà telefonini per raccogliere stupori, colorerà i tuoi occhi e neppure t’accorgerai che il mio sguardo sotto la pioggia bagna la pelle.
Il mare ha sovrapposto acqua ad acqua tutta la notte e al mattino la spiaggia era piena di restituzioni. Rami ancora verdi, alberi interi, radici, tanta plastica assieme alle sue cose; quelle che non gli servivano più. Cose leggere, depositate con delicatezza sull’esile contorno della riva , conchiglie, peschi morti, grovigli d’alghe, qualche medusa.
Ciò che il mare dona, compresi i resti dei naufragi, diventerà capanno per l’estate, gli abitanti non gettano nulla di ciò che il mare dona a loro. E quel donare lo sentono proprio solo loro, come la lunghissima spiaggia che viene popolata di queste costruzioni. Il mare d’autunno si riprenderà tutto, farà i suoi scambi nel profondo e redistribuirà in inverno. Il mare è un grande riciclatore e pratica gli equilibri che nessun umano riesce a fare davvero per conservare il pianeta.
Sei ore sale, sei ore scende la marea, dipende dalla luna e quanto alta essa sarà. Quanta spiaggia porterà con sé, lo diranno tra le righe gli esperti che compilano le tabelle, le stesse che i venti e il cielo renderanno infedeli. Non ascoltano anche se il mare, a volte, parla con gli uomini, ma solo ad alcuni e di rado. Un tempo lo faceva di più perché si sentiva capito da chi conosce il tempo e sa che il mare ha tempi lunghi e brevi, incomparabili con le vite di chi guarda mentre è amoroso e pieno di cura per quelle che contiene.
Pescatori e marinai seduti sul muretto al sole, parlano con fiotti di parole, saluti e silenzi: aspettano la cena e un altro giorno uguale a questo. C’è poco da fare, poca pesca, poco lavoro, solo spazio per ricordi recenti, famiglie. Tra poco arriveranno i villeggianti, saranno soldi e confusione per l’estate, case che crescono ogni anno di valore e poi inverni freddi e solitari, con la nebbia che avvolge le barche e i vaporetti nella notte.
In quest’isola reclutava la marina imperiale austro veneta, ed un timoniere di qui, Vincenzo Vianello, ricevette la medaglia d’oro dell’imperatore per aver affondato a Lissa, la corazzata re d’Italia. I piemontesi, che, per molti, ancora non erano italiani, forse sentirono i viva san Marco dalle navi nemiche. Quando vincevano sul mare, fossero veneti, istriani, o dalmati, vinceva san Marco, e sui ponti di comando delle navi imperiali, in Adriatico si davano ordini in veneziano. Anche l’ammiraglio Tegetthoff lo faceva, i suoi ufficiali avevano studiato al collegio navale di Venezia, il Morosini, il mare di casa era l’Adriatico. Ma di tutto questo ribollire non è rimasto più nulla, neppure la fatica di diventare italiani è stata davvero celebrata.
Anziani bruciati dal sole, caparosolanti (pescatori di cozze) in fermo pesca, reti ripassate perché non si sa che fare. Si sale in barca si pulisce, si mette in moto, e si ri-ormeggia. Qui tutto attende qualcosa che rovesci un senso di fine. Un matrimonio, un battesimo, i bambini alla comunione, qualcosa che porti fuori da un tempo che s’è spezzato. Si incrina il tempo degli uomini, in qualsiasi cosa che finisce mentre nulla ricomincia. In un passo del contributo alla critica dell’economia politica, Marx diceva qualcosa che allora mi sembrava ovvio, ossia che il nuovo, nasce nel vecchio che fa i conti con le sue contraddizioni, e quest’ultimo lo alimenta finché il nuovo prenderà il sopravvento. Marx era un positivista prima del positivismo, pensava che alla fine le cose si sarebbero messe in ordine. Mi pareva che bisognasse cercare, per capire, il filo rosso che lega le cose, e i fatti, e le vite nel sociale. Solo il filo che si riconosce quando ha già cucito ed occlude la vista dei tanti futuri possibili ed abortiti, delle possibilità spazzate dal reale. Ma qui, mica lo sanno che bisogna trovare un senso alla storia, in quest’isola di vecchi, il senso della storia è nell’orgoglio dì essere il terminale di una catena ininterrotta.
La stessa sensazione si prova nei paesi di montagna dove il turismo non ha costruito troppe case vuote, e tra gli abitanti, la nascita di un bimbo, un matrimonio, una persona che sceglie di restare, è un fatto collettivo, una speranza per tutti. In questi luoghi, sacche di memoria, il legante e il motore, è la tradizione, fatta più di abitudini che di principi. La tradizione era un principio, costruito dai saperi di vite sovrapposte, dal saper fare trasmesso immutabile, che ora si sgretola perché non si trova menti, dita, luoghi in cui esercitare l’imperio del sapere antico. Ed è proprio questo imperio che si smarrisce, qui come altrove, che perde la nozione di forza comune, finché il legante si scioglie e sulla riva, davanti a una casa, una donna si siede accanto ad un’altra. Parlano sapendo che il futuro è così vicino da confondersi con il presente, e il passato, un amante a cui attingere per riempire i discorsi, anche se alla fine, opprime un po’, come tutti i vecchi amanti. Parlano e guardano per pensieri brevi, quasi informazioni e sentenze.
E’ la stessa donna che ho fotografato un anno fa, oppure un’altra? In fondo non importa, è il gesto che scosta la tenda, la mano che ripara gli occhi dal sole, il guardarmi, io foresto, eppure con lo stesso dialetto. I foresti ora restano poco, arrivano e vanno, prendono il sole, il mare, la spiaggia, l’aria, l’azzurro del cielo. Prendono, lasciano dei soldi e se ne vanno. Un tempo il foresto restava, raccontava di sé, imparava la lingua, aggiungeva parole e significati, lasciava le cose com’erano e, se pur restava foresto, diventava uno di noi. Così sembra pensare la donna finché mi parla, e così pensa il pescatore che aveva il bisnonno nella imperiale marina Austro Veneta, così penso io che sono foresto e so che quel mondo è finito nelle sue gerarchie e priorità, lasciando le persone sui muretti e sulle soglie di casa. E so che questa generazione, sarà l’ultima, con memoria di oltre due secoli, poi sparirà anche quella. I ragazzi ricorderanno a breve, perché nessuno gli racconterà, e così sarà la scuola, i genitori, qualche amore, il bar, a farla da padrone in un passato così breve che sembra antico già in un pezzo di vita.
Parlando di queste cose con un’amico indigeno, alla fine è sbottato: a furia de pensar el çerveo te va in acqua (a furia di pensare il cervello ti va in acqua). Memoria d’acqua, per l’appunto.
Tornando ho visto l’insegna della antica trattoria La fazenda, è del 1973: un’eternità.
Si snoda il racconto di una storia oscura, dice di cose evidenti, ma parla anche d’altro, di un sottofondo che la sorregge e non emerge. E’ una di quelle storie che non si capiscono bene, estratta dal fondo melmoso che ciascuno si porta dentro. Sembra semplice, ed invece è complessa, fatta d’un malessere che ha più nomi: quello contingente, ed è ciò che viene vissuto, ed altri nomi apparentemente più lontani. Reminiscenze, sorta d’aliti di antichi pasti mai conclusi, che fanno capolino e sembrano non entrare nel sentire, senza parole per dirsi e dire. Difficile dar loro nome perché sono storie parallele all’esterno, vicende apparentemente già terminate che si annodano in chi racconta. Semplicemente ci sono e confluiscono tutte nello stare a disagio con sé. Questo è il sentire vero, e il racconto cerca di dare evidenza a una serie di fatti, parla di particolare e di generale, li mette assieme, e prova, con fatica, a collegare ciò che è distante, e che si dovrebbe davvero cambiare, con quello che è più vicino e pare avere decisioni semplici. Ma esiste una decisione che ci riguardi profondamente e che sia davvero semplice?
In fondo il racconto è ricco di quelle richieste di intuizione che generano puntini che attendono nomi. E in quei puntini c’è la misura della richiesta di partecipazione, sono piccoli-grandi vuoti che si generano quasi da soli per far capire che il racconto è ben più complesso dell’evidenza. L’evidenza è una ferita che deve essere ripulita, suturata, ma il motivo per cui si è generata è anche in quelle sospensioni. Il racconto è un processo curativo, prima che salvifico, e come ogni cura mette in discussione il rapporto con il medico. Genera il dubbio se tarda il risultato e però ci si deve fidare, servirebbe la comprensione, richiesta con la parola, e il silenzio. Anche pensarci, senza proposta di una soluzione, va bene, ciò che urta è la proposta facile che dice: bisogna cambiare per star bene. Per questo non serve un racconto, chi racconta sa che non va bene e sta cercando con fatica una via d’uscita.
La meccanica semplice ed oscura, è fatta di racconto, ascolto, reazione, e se l’ascolto è giudicato insufficiente, confluisce in una chiusura-reazione.
La difficoltà raccontata, è di quelle profonde, un mal stare da scelte in gestazione, oppure da scelte che non verranno prese, ma che comunque interferiranno fortemente con il concetto di star bene. E’ eccessivo pretendere attraverso un racconto una svolta, chi parla lo sa, e forse quello che vuole nel raccontare è un aiuto a decidere costruito con partecipazione e rispetto, con la comprensione della difficoltà, non una soluzione. Ciò che il racconto della difficoltà d’essere, narra, è il capire la ferita e il suo legame con altro.
Il limite della parola è questo, pensare che essa sia in grado di rappresentare davvero il malessere, oltre la partecipazione empatica di chi ascolta. E’ il limite dell’analisi che si esaurisce nella parola, senza una nuova storia da scrivere, e chi racconta si chiude nel momento in cui sente l’ascolto come non adeguato al dolore e alla sua complessità. Mentre sa benissimo che la semplicità sarà creata nello sciogliere molti nodi con difficoltà, e per questo rifiuta il consiglio, e vuole la partecipazione, magari silente. Un effetto del racconto può essere l’aggressività, ovvero la reazione che ribalta sull’altro l’insufficienza propria e della risposta, come se la mancanza d’intuizione fosse una colpa. In sostanza gli si chiede con rabbia perché non capisce e lo si traduce nel vedere la sua fragilità: ma tu che sei debole come me, come puoi avere le idee chiare? Se tu stesso stai male, quando mi proponi soluzioni apparentemente facili, mi stai parlando di ciò che ti infastidisce nel mio malessere. E perché non le applichi su di te?
Quando scatta questo meccanismo di reazione, può esserci solo la rivalsa, a volte la rabbia che fa dire parole eccessive che mostrano altre difficoltà, seguite dal ritirarsi verso la coscienza che è inutile parlare di sé e dalle difficoltà si esce solo attraverso se stessi. Allora il senso di solitudine è grande.
Controllare il balzo della bestia interiore, ammansirla, convivere, è un mantra. Dal racconto, fattosi soliloquio muto, sembra emergere un tentativo di conclusione: bisogna correre con l’animale, riconoscerne il senso del pelo, capirlo senza la pretesa di esaurirlo. Ma è un tentativo, perché anche da soli, il racconto è sempre un dialogo a più uscite e soluzioni.
In questa notte che spinge sui vetri, che volteggia e danza col vento. In questo silenzio di parole gonfie di buio, di sogni interrotti, di piccole luci accese su comodini carichi di libri, parlami d’amore mariù. Parla con le parole umide di te, con l’accento che ti piace, con le sintassi frenate, gli aggettivi arditi, i silenzi eloquenti.
Parlami della mia vita, incagliata tra scogli, che attende la marea, del tuo orizzonte che mi cerca, del tuo navigare insicuro e fidente. Parlami del mare e del salso che bagna i capelli, dell’odore forte dell’estate quando s’appiccica alla pelle. Parlami dei salti temporali, delle primavere passate, degli scrosci d’acqua costellati di risate, del piacere d’allungare il corpo nel letto avvolti nei sogni sognati.
Sosta un poco presso il mio cuore e perdona ogni striscio sul vetro, la tazzina versata, le parole consumate in cerca di significato. E perdona quel dire sconclusionato che gridava alla luce d’ essere presente, lì in quel momento, tra noi.
Ancora parlami d’amore mariù e poi fammi dire delle nuvole bianche che non vedo nel cielo. E sorridi, come sai fare tu, senza un motivo apparente, perché la realtà non è mai come appare, eppure l’abbiamo dentro, mariù, anche se non coincide mai con le ore. Sempre in ritardo sul tempo e sempre in anticipo nell’attesa. Parlami sempre d’amore mariù, e tieni stretto ogni pensiero che non dico. Leggimi a fondo e poi raccontami, che mi piace sentire la tua voce che spiega nella notte. Che dice e poi si ferma, che s’assopisce parlando con i sogni, e poi si gira, s’avvolge e si sveglia e mi guarda.
Parlami sempre del tuo amore mariù, con la voce bassa che risuona nelle giornate che attendono, nelle sere che verranno, nei sogni che stentano, eppure si fan largo, aspettando d’essere capiti.
Se ti viene, usa con me l’entusiasmo della pazienza che capisce, prendimi d’assedio con le braccia, estrai il dolore dell’assenza dalle parole. E dai silenzi, soprattutto.
E col tuo sorriso dammi dimensione delle cose. Io ricambierò come so, come imparo, come viene, mariù.
Due giorni e le date si sovrapporranno. Neppure il calendario giuliano e quello gregoriano riusciranno a separarle, sicché destini differenti si presteranno a essere letti, per l’ennesima volta, attraverso le celebrazioni o l’indifferenza interiore. Poco conta quello che avviene fuori se esso non risuona dentro, se non trova corrispondenza, se il passato non rende attive due funzioni, quella della riflessione su di sé e quella del capire cosa accade del futuro.
Le celebrazioni sono la sublimazione delle speranze deluse. Il contenitore di ciò che avevamo capito poteva essere diverso e non s’è compiuto. E in ogni non compiersi c’è l’insufficienza della somma delle realtà, il confluire delle forze che piega i rami dell’albero della storia, ma non lo sradica, lo muta alla nostra vista e percezione e quindi in noi. Per questo, e per chi lo sente come evento della storia a cui appartiene, pensare a ciò che avveniva cento e cinque anni fa allo Smolny, a san Pietroburgo, oppure meditare sulla pace apparente del 22 ottobre nella conca di Tolmino, è materia incandescente e viva. È guardare dentro a un vulcano che generò passioni, sentire l’ insieme delle braccia che presero e trascinarono la storia altrove. Nulla nasce in un giorno esatto, persino le nascite degli uomini sono convenzioni legali, ma c’è un momento in cui il presente schiocca le dita e diventa lo scollinare delle forze che hanno creato l’evento, allora dilaga la realtà e coinvolge e travolge.
Allo Smolny, collegio per ragazze d’ottima famiglia, ci sono sale, cucine, letti, stucchi e specchiere. Ottimo luogo contro il freddo che già imbeve strade e barricate, rappresentativo per la presa di potere che passa attraverso milioni di menti e di braccia, che vibra e incalza la certezza di un dopo che s’annuncia definitivo e migliore per l’uomo. A Caporetto, il Kobarid di adesso, l’attesa invece è silente, annoiata dai colpi di artiglieria che sembrano far scena, ma nel fango dell’autunno già urge e si muove attraverso gambe e menti che si chiedono cosa sia la guerra, che speranze essa contenga, per chi e per cosa si corre incontro ad una scheggia, una pallottola e si muore. In entrambi i casi c’è una rotta d’un argine di certezze con qualcuno che irrompe. A San Pietroburgo, chi irrompe è la speranza di un mutamento radicale della condizione dell’uomo, di una pace che sia nascita dell’umanità finalmente libera dal bisogno. A Caporetto trionfa la razionalità, mutata in volontà di strateghi e generali che vogliono chiudere la partita, ristabilire l’antico ordine violato e chiudere da questa fronte una guerra che sta affamando e dissanguando i popoli dell’impero Austro Ungarico e della Germania.
Mancano due giorni a cento cinque anni, e se si leggono le cronache di ciò che avviene nei soviet, di come si dispongono le coscienze, le parole susseguite ai gesti, i toni della voce che già infiammano, e io dove sarei stato, perché questa è la domanda che pone la storia: dove ci saremmo collocati? A Kobarid, intruppato al posto di un nonno, già l’altro era morto due mesi prima poco distante, avrei reagito alle interminabili attese di un massacro che si consumava nelle trincee? Era già successo che ci fossero ribellioni all’insensatezza degli ordini, ai massacri inutili e previsti, le idee socialiste arrivano e raccontavano del rifiuto della guerra. Le scelte che ci mettono in situazioni non vissute sono solo in parte ipotetiche perché sono le nostre vite che testimoniano dove saremmo stati. Quello in cui abbiamo creduto, il nostro leggere la storia che ci colloca da una parte e la rendono cosa viva, fa interrogare non sul dove ma sul quanto faremmo. Ci chiedono dove stiamo adesso e se eccedere nel misurare le speranze deluse, non ci sia la stanchezza degli anni che pongono il tema del fallire. Allora basta ricordare, celebrare per evidenziare la caduta di un sogno, ma non la sua vacuità. E questo basta? A San Pietroburgo s’accendeva una speranza che sovvertiva il mondo, quanto di quella speranza, in altre forme, con altri nomi e parole è ancora presente nel nostro vissuto? Quanto vige la necessità di riconoscere nell’altro diritti eguali, trattamenti dignitosi nel lavoro, opportunità comparabili, vite prive dell’assillo del bisogno materiale? E a Caporetto, in quel disfarsi della grande macelleria degli incapaci al comando e dell’Italia, che trovava se stessa nelle domande, nel perché combattere e per chi, non si faceva forse un’altra Italia che si metteva assieme e rifiutava il prima, ma poi trovava in una linea di difesa i modi per essere finalmente un Paese. Come per il Comunismo bisognerebbe capire quanto c’è di San Pietroburgo nella visione personale del mondo. Per l’idea di essere popolo, sarebbe necessario capire dove sia la Caporetto in noi e come essa generi una linea di consapevolezza dell’essere uniti da un destino comune. I fatti non sono mai definitivi, ma la storia e gli uomini sono costruiti dai fatti, dietro ad essi ci sono le idee, e più in basso c’è quel fondo di identità dove l’io si confonde con il noi. Ci sono i bisogni innati, la giustizia che deriva da un processo naturale e da uno di civiltà, c’è tutto questo che viene riassunto nell’appartenere. A un’idea, a un sogno, a una forza comune che evolve e che diventa più grande.
Umanità è parola femminile e inclusiva, generante storia, feconda e inesauribile. Umanità era quella che assaltava i palazzi del potere, che dilagava e bivaccava tra ori e lussi inenarrabili pensando alla propria fame trasmessa nei secoli. Umanità era quella che si difendeva sino all’ultimo uomo, che veniva vilipesa da chi era incapace di vederla, che tornava verso valle, lacera, dopo aver lasciato amici, affetti profondi a marcire nel fango. Era la stessa umanità che si ricomponeva dinanzi a un pericolo e nuovamente si riconosceva. Non per la patria e per il re ma per le famiglie, per la possibilità di avere un futuro che non fosse di servaggio. A questo servono le ricorrenze, a misurare il fallimento ovvero ciò che manca al successo, a chiedersi dove siamo adesso perché lo sappiamo dove saremmo stati allora. Servono per capire cosa ci sia ancora dentro di noi del futuro che ci attende e di cui il passato è dimostrazione del suo farsi con gli uomini. Non a caso un centenario di come mutò il mondo è stato ridotto a poca cosa, perché ora bisogna togliere le punte acuminate alla storia al fine non rinascano domande; la manipolazione a cui siamo soggetti è questa: non l’esame dei fatti, delle idee, non lo schierarsi per l’una o per l’altra parte, ma l’indifferenza che renda tutto obsoleto, tutto cosabile ovvero ridotto ad avere e non avere. Quando saremo solo cosa, privi di umanità, cesserà la storia. Sarà indifferente e la passione scomparirà dalle vite. Ma sono sicuro che un’idea, una bandiera comune troverà sempre chi la alza e costringe a prendere coscienza, posizione, insomma essere.
Riporto due ignominie di allora, ovvero come l’alto comando italiano di Cadorna cercò di nascondere la propria incapacità e di come, altrettanto maldestramente, il governo Orlando, tentò di correggere. Come a dire che le vite valgono poco solo per chi non vede gli uomini e vale allora come adesso.
Il bollettino censurato su Caporetto:
“La mancata resistenza di riparti della II° Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria. La nostra linea si ripiega secondo il piano stabilito. I magazzini ed i depositi dei paesi sgombrati sono stati distrutti. Il valore dimostrato dai nostri soldati in tante memorabili battaglie combattute e vinte durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al Comando Supremo che anche questa volta l’esercito, al quale sono affidati l’onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il suo dovere.”
Orlando comprese che al disastro materiale si sarebbe aggiunto quello morale per l’intero esercito e senza conoscere la verità, ben diversa da quella del bollettino, la stessa sera, fece sequestrare i giornali che riportavano il comunicato Cadorna sostituendoli con nuove edizioni nelle quali il bollettino nella sua prima parte veniva ammorbidito come segue: “La violenza dell’attacco, la deficiente resistenza di alcuni riparti della II° Armata hanno permesso alle forze austro-ungariche di rompere la nostra ala sinistra del Fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare il sacro suolo della Patria.”
Circolò anche un’altra stesura, che era nefanda per il morale e all’opposto della verità, apparve nelle edizioni di alcuni giornali della provincia o fu fatta circolare, ciclostilata, o addirittura scritta a mano: “Per la forte pressione dell’avversario, ma più ancora per l’ignobile tradimento di alcuni riparti della II° Armata e più precisamente delle brigate Roma, Pesaro, Foggia e Elba, il nemico ha potuto invadere il sacro suolo della Patria. Che Dio e la Patria li maledicano e il fango e la vergogna li coprano in eterno”.
Di questo testo misterioso non si conosce la mano, ma di certo era ancora una volta lontano dagli uomini e vicino al potere.
diatomea seppellita inclusa, lambita, liberata. Rinata, guardi con occhi antichi d’ambra,uscire il tempo dalla teca, sei sulla pelle che ti riporta a vita, solida di un pensiero lento di spirale: è articolato il tempo nel sovrapporsi al desiderio. Lontano, in un’ansa del giurassico, con analogie di fossili, conversavi con stimoli chimici e nervosi, t’affidavi alle correnti in cerca di un tuo scopo, ma ne chiedevi un pezzo a chi ti stava a fianco, diatomea. E il chiacchiericcio che non è mutato, e ancora tiene cose senza nome e luogo, era poi lo stesso d’ora? Anche in quell’era vicini diseguali sparlavano, il caso si gettava avanti impavido e confuso, la vita svolgeva gomitoli d’indifferenza vigile, ma solo quel tanto, da lasciar credere che la felicità saltasse come sull’ acqua, il ragno.
Nelle bancarelle si sovrappongono gli abiti, i colori, i tessuti. Le mani mescolano tutto, alzano, guardano controluce, poggiano sul corpo, interrogano il venditore, l’amica, l’amico, chiedono di provare. Non si può, non c’è camerino, solo lo specchio e il sovrapporre, l’immaginare come sarà poi addosso. Si ride, si scherza, si contratta, ma il prezzo è così basso che alzandolo di poco si prendono due capi. Le coppie si allontanano ridendo con un sacchetto di plastica non biodegradabile.
Però una volta, magari una sola volta, mentre prendete in mano una camicia, un maglione, che tastate con i polpastrelli, che annusate come se il colore avesse odore, pensate alle centinaia di migliaia di chilometri di tessuti che vengono prodotti ogni anno. Pensate ai milioni di pecore che oziano lente brucando la poca erba a disposizione, pensate alla sera quando si raggrumano in un recinto e dormono l’una sull’altra, pensate ai cani insonni, ai pastori che si riparano con mantelli pesanti se non hanno un tetto, pensate alle mani che toseranno senza creanza, a quelle più gentili che carderanno, pettineranno la lana in posti così lontani da essere meno di un punto sulla carta geografica.
Immaginate gli sterminati campi di cotone, che cresce verde d’acqua e di sole, seminato con cura, irrorato di pesticidi, ha sviluppato una tonda, gonfia lanuggine che fa oscillare lo stelo maturo e ora pensate al raccolto con le grandi macchine che tagliano, separano, comprimono mentre sputano gli steli nell’aria. Pensate al lino, tagliato, battuto, lavato a lungo, sfibrato e privato della sua corazza per essere filato. Pensate a tutto questo racchiuso in balle enormi avvolte di plastiche che le tengono strette senza amarle, solo perché non fuggano nel vento i fiocchi in attesa che treni, navi, carri, spalle, camion portino verso i mercati.
Pensate ai magazzini affacciati sulle banchine dei porti, fatti di legno o di mattoni con alte volte in penombra, di rado freschi, spesso soffocanti di calore e polvere, bagnati con acqua per evitare le autocombustioni. Pensate agli angoli di mondo dove la seta è stata raccolta in balle fatte di migliaia di matasse incolori e anch’essa è in attesa di un porto franco dove verrà lavata, colorata, riconfezionata in morbide trecce e cambierà nazionalità e valore. Pensate che in tutto questo coltivare, accudire, raccogliere, filare, c’è una sapienza così antica che ha sostituito le pelli degli animali con le fibre, unendo morbidezza e bellezza, rubando i colori ai molluschi, alla pietra, agli insetti e inventando il modo di conservarli, espanderli, generando arte e piacere da portare sulla pelle. Pensate che tutta questa sapienza è diventata merce e si avvia alle macchine per tessitura, ha già viaggiato molto, spesso tornerà dov’era nata. Tagliata, cucita, confezionata, sarà trattata, comprata e venduta a peso, a numero, a taglia per poi riprendere la strada dei trasporti, grossisti, negozi.
Ed infine noi.
Quando penso a tutto questo lavoro, mi prende una vertigine da dimensione e non riesco a confrontare il prezzo di ciò che pago con la consapevolezza di ciò che l’ha generato, mi pare che il lavoro dell’uomo non esista, che ci sia una interminabile catena di sottrazione che ha portato alla ultima contrattazione e che ciascun passaggio abbia tolto qualcosa di dovuto a chi è l’artefice di ciò che le dita stringono con un pensiero narcisistico di bellezza propria. Dovuta come un sacrificio a un dio.
una maglietta 3 euro, una camicia 5 euro, un jeans 12 euro