Quando qualcosa si incrina, o si ricuce oppure ci si dispone alla rottura.
All’inizio non lo si fa neppure consciamente, ma ciò che prima era semplice e accettabile, muta e prevale il sentirsi non capiti, spesso offesi. Questo genera omissioni, silenzi, rimbrotti e ogni cosa cambia di significato. Insomma ci si orienta verso un fine di separazione. E c’è un limite oltre il quale tutto precipita, diventa inevitabile. Non lo è per necessita, ma ricucire costa fatica perché provare sentimenti non è gratis, capire l’altro è un impegno.
Il conto sull’efficienza di una relazione, una sorta di economia dei sentimenti, prevale se ci si chiude, se non si costruisce/avverte il nuovo, dicendolo esplicitamente (non ho più nulla da dire è la rinuncia a dire il nuovo), e al contrario, mettendosi in attesa di qualcosa che non verrà. Credo sia questo uscire da una fatica che si ritiene solo propria che accelera la distanza, l’inevitabilità. E il lasciarsi andare all’inevitabile, è un togliersi la colpa di ciò che si doveva decidere. Forse per questo c’è un culto del destino per il quale le cose succedono senza nostra responsabilità. Non è così, ma siccome un po’ infingardi lo si è di default allora è meglio crederlo.
Si dovrebbe dire la stanchezza e la propria difficoltà e sperare che venga capita, perché solo l’accettazione della difficoltà, può cambiare entrambi e le cose. Se così non è, non era una incrinatura ma una rottura antica consumata da chissà quanto tempo e poi coperta d’ abitudine. L’abitudine non è un kintsugi d’oro che ripara ma un sipario che nasconde.
Da molto l’io aveva soverchiato il noi, ma si faceva fatica ad ammetterlo, perché non essere in grado di tenere in piedi un progetto è un fallimento. Però ci si dimentica che solo i progetti, l’entusiasmo e il costruire falliscono, ed essi possono conservare il buono del molto che si è fatto. E così può riprendere il senso del futuro con una conoscenza acquisita mentre l’arroganza, la prevaricazione, il dominio non falliscono, ma non costruiscono nulla.
Scendiamo per prati innevati, la luce è azzurra di freddo e di sera. Oltre il bosco, verso occidente, il tramonto arrossa le nubi e scrive la linea dei monti. Come nel ritorno dalla caccia di Jan Brueghel, torniamo, stagliati sulla neve che riflette un grigio chiarore. Le case sparse hanno i camini che fumano. La sera è meno triste se si ha un posto dove andare. Non distante c’è il ribollire delle luci della piccola città, il corso, la piazza, i negozi pieni di persone, i saluti, i discorsi vacui e leggeri. Bollicine nell’aria e nei bicchieri. Colori accesi e soprabiti imbottiti di piume. Scendiamo a lato, al limite delle luci e delle auto. Guardando verso Orione si dovrebbe vedere una cometa, ma è la luna, grande e piena a dominare il cielo. C’è un freddo che non si placa, ottunde i pensieri, per questo i sogni tornano indietro e ripercorrono gli infiniti ritorni. Quelli nostri e quelli che sono diventati nostri nel vedere, leggere, raccontare. Ciò che si ripercorre è avvenuto e non può più far male. Qual è la differenza tra calma e quiete? Noi, io, che scendo sento la quiete che si fa strada nel muoversi, come se ciò che si è vissuto, oltre il suo carico emotivo, avesse distolto una paura. Quella del futuro, così prossimo da essere nei passi che si succedono. Non siamo calmi, siamo quieti. Per consapevolezza e per obiettivi vicini. Semplici. Accendere un fuoco, fare gesti consapevoli, ascoltare. Dentro una corda ben tesa, a volte per simpatia, risuona. Come animali entriamo nella notte, spinti dal silenzio che ci avvolge, da un grido di rapace, dal piccolo frangere del ghiaccio sotto i passi. Torniamo da una caccia che non c’è più, e neppure nessun successo, non c’è una preda da spennare e arrostire, un vino che ci arrossisca le guance e alzi il tono della voce e le risate. Noi siamo preda se usciamo da questa quiete che ci guida dentro la notte. Senza di essa cadremmo in una solitudine senz’ argini, in un cercare orgoglioso nelle tasche perché qualcosa da mostrare ci definisca: un sigaro, un portachiavi, un fazzoletto, un telefono. Qualsiasi cosa per dire che siamo noi e invece non lo siamo più.
Ogni anno ricevevo un piccolo libro di poesie, conteneva un’ acquaforte ed una dedica su un cartoncino. Era un libro quadrato, di poche pagine, in sedicesimo, semplice nel suo colore pastello e nei caratteri in inchiostro seppia. Le parole a volte colpivano, altre volte scorrevano, leggevo, spesso tornavo a rileggere. Erano poeti che non conoscevo, c’era il piacere della scoperta, spesso l’affinità del sentire.
Non confrontavo mai, né confronto, quello che leggevo con quel mio, che non oso chiamare versi, mi bastava l’idea di capire di più attraverso le parole e il loro disegnare un vedere a me noto e nuovo.
E’ un regalo che non attendo più quello del libro. Faceva parte del ruolo perduto, dismesso. Credo che chi me lo spedì a non sapesse il piacere che mi procurava.
Essere inseriti in una mailing list, in questo caso, è stata una scelta di altri momenti che continua a generare code di felicità. Ormai è strana l’attesa dei rari doni da adulti, incongrua, anche se mi fanno un piacere particolare, come il sapere che qualcuno aggiunge intenzione all’amore dell’altro.
Nel mio passato ho molto da rimproverarmi al riguardo, disattenzioni, frette da ultimo momento, stanchezze, finché le parole fatidiche sono risuonate: non facciamoci più regali, tanto si possono fare tutto l’anno. Ed invece la meraviglia del bambino che ci portiamo dentro, in giorni particolari attende di più. Ma è una sensazione personale senza pretese di generalizzazioni.
Così quando arrivava il mio libro di poesie, ne ero felice e il suo profumo d’inchiostro prolunga a il piacere, tagliavo le pagine intonse, leggevo e dopo l’epifania lo mettevo accanto ai predecessori. Di costa, nel loro cantuccio negli scaffali di poesia, in attesa sono ancora allineati nei colori, sentendo che pure le parole si allineavano dentro. È una bella sensazione che i significati si allineino e un senso d’amicizia antica e fidata, per un attimo, mi percorre.
Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere. In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre un’ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano.
Per scoppi, come se nel ventre oscuro dell’anima di pietra e fuoco, s’accumulasse un’infinita bolla. Così lo specchio nero del mondo da lì sale, per vie oscure, sublima in rocce polite, in creste taglienti, e il mondo ci attraversa e guarda sé, neutrino che segue un pensiero senza limite. E non si cura, non ascolta se non per sue vie che radicano infinite, che non fanno domande, non si voltano e procedono mentre attendono un passo.
Mai è il suo nome mentre interroghiamo il caso, seguiamo la possibilità e la chiamiamo speranza. Mentre parliamo al suo posto, mettiamo in bocca le battute al mondo e aspettiamo parli mentre il silenzio diventa insopportabile e allora di nuovo la parola, la nostra, riempie un luogo, risuona nelle nostre orecchie. Miracolosa la parola fino a un nuovo silenzio, fino ad un’abitudine interrogante che tace e rapprende il poco che resta nell’aria e in noi. Così il silenzio accompagna a lungo e poi quando trasuda non finisce a tempo debito. Il tempo non ha debiti, casomai crediti e chiede conto mentre in disparte s’accumula il non fatto o ciò che dev’essere ripensato e ripreso in un interminabile gioco dove ciò che si scarta è sempre maggiore di ciò che si sceglie e però non scompare, ma sta quieto, in attesa. Di grandi coni d’infiniti grani è fatto ciò che resta in disparte. Ne vidi di enormi nei porti, si stagliavano contro il cielo, limitati solo dalla gravità e dall’attrito tra particelle. Poteva essere grano o zolfo, e allora il colore giallo riempiva l’aria d’indebita allegria, oppure era carbone lucente e grasso che assommava al vento polvere e piccoli mulinelli, tingendo cupo il cuore. Altrove erano minerali di ferro, rame e manganese che beffardi riflettevano la luce in caleidoscopi rivolti al cielo, o ancora coni di rottami tagliati da trance impietose, ridotti a parvenza di ciò che erano stati funzionanti, ma ancora vivi nelle tracce dei colori che li avevano vestiti. Erano arlecchini di passato, e mentori e presaghi, indicavano. E quei coni enormi nati da benne indifferenti, erano acquattati in attesa d’un nuovo essere.
Così è il tempo che non si compie, che non ha un fine e una linea: granuli e gravità che rotolano in nuovi equilibri e levigano le forme. Capsule d’attesa in un porto e possibilità scartate prima che divengano rimpianti.
Così il cuore che è un cono che si staglia verso il cielo e ha innumeri grani che danzano nel silenzio d’una musica d’attesa.
il tango del silenzio
Perché ora ti fidi, hai detto che non finiresti più.
Forse era la sfrontatezza sicura di chi attende,
o la luce che sorride dell’ignota possibilità
e del segreto d’una scaramanzia in attesa d’avverare.
Allora, nel suo fidarsi, il corpo s’è disteso:
dismessa l’arroganza il seno
il viso interrogava in attesa d’espressione,
e intanto, in un silenzio sorridente, hai porto la guancia,