idee confuse sull’Ucraina

Confesso che da giorni inizio a scrivere queste righe. Le guardo e poi ricomincio insoddisfatto. Cos’è che vorrei dire? Chiunque scriva dovrebbe chiederselo. Anzitutto penso che quanto accade è complicato e che parte da un pregiudizio più che dall’oggettività, cioè che i nostri criteri vadano bene ovunque, poi che nell’est europeo ci sono non pochi movimenti nazionalisti e di destra estrema che da noi sarebbero tenuti a bada, in terzo luogo che l’Europa, ancora una volta, si dimostra inefficiente, sia in politica estera che nelle politiche economiche collettive, e infine che l’ Ucraina un po’ la conosco per esserci stato cinque volte. Detto questo sono al punto di prima. Così parto dalla fine.

Chi ha avuto modo di arrivare in Ucraina di giugno, venendo in auto da sud, ricorda le distese di grano tra le città e i villaggi. L’oro che si muove all’unisono con un vento piatto, un soffio lungo che rasenta il terreno scuro, quasi nero. E’ il vento che arriva dal mar Nero, da Odessa, è caldo e sa di terra grassa, la stessa che ti mostrano prendendola nella mano destra e sbriciolandola nel palmo. Una terra densa di umore vitale, calda. Da sempre una benedizione: è la più fertile terra al mondo. L’Ucraina è grande davvero e ospita più popoli, dal mar Nero alla Bielorussia è un susseguirsi di pianure in cui molti hanno dilagato fino al limite dei Carpazi. Anche le religioni hanno corso parecchio, il cristianesimo in particolare. Ci sono ortodossi fedeli al patriarcato di Kiev, ortodossi fedeli al patriarcato di Mosca, cattolici Uniati, cattolici vari, protestanti, ecc.  Noi stiamo andando verso Lviv, la città che guarda la Polonia, e che è forse la più ucraina delle città, anche se a 120 km da Cracovia. Un punto di snodo prima dell’oriente russo. Lviv ha più nomi, Lvov per i russi, Lemberg per i tedeschi, Leopoli per noi, qui c’era il comando dell’Armir, per poco è stata pure italiana. Fa un po’ ridere pensare come un posto sia a seconda del principe di turno, tedesco, austriaco, polacco, russo, addirittura italiano. Chissà cosa pensano gli abitanti di tutto ciò. I buoni, bravi borghesi che si irritano solo se i commerci vengono toccati, se i privilegi cessano, se la libertà non serve davvero a fare i propri affari. Lviv è più città assieme, poco bombardata, conserva l’impianto medioevale e rinascimentale. In centro c’è ancora la sede dell’ambasciata di Venezia, che non è stata trasformata in boutique, ma è una casa in cui qualcuno abita. Molti non sanno che qui doveva arrivare un corridoio europeo per merci e persone, il Lisbona- Kiev, che non andava a Kiev ma si congiungeva a Lviv con un altro corridoio europeo che dal nord della Francia andava verso Mosca. Insomma un incrocio senza semaforo, dove tutto doveva arrivare e mescolarsi, ripartire, e alla fine non è ancora arrivato nulla. La sensazione è quella di essere in mittel europa, siamo in Galizia e l’impero austroungarico prima della fine nel 1918, ha costruito parecchio. Però se si guarda con attenzione si vede che le anime sono parecchie, Ucraina anzitutto, poi polacchi, russi, tedeschi, ebrei aschenaziti, gente del Baltico. Gli ebrei, oltre 200.000, tra residenti e immigrati furono sterminati dai nazisti, che cominciarono ad esercitarsi già dalla notte dei cristalli, uccidendo e dando fuoco alla sinagoga rosa, ma nonostante di ebrei ce ne siano pochi, si sente che esiste qualcosa di inconfondibile, di culturalmente importante che proviene da loro. La sera arriva presto a Lviv, le luci si accendono nelle strade piccole nel centro, illuminano i colori pastello delle case. La scelta dei colori sembra un togliere dalla pelle il buio, un ribadire il primato della luce.

Ero Lviv quando cominciò la rivoluzione arancione. Non la riconobbi e la presi inizialmente per una processione. C’era una lunga fila di persone che andava attraverso il viale della Libertà verso una piazza del centro, davanti stendardi religiosi, santi e madonne nere, icone tenute alte con le braccia, pope, turiboli e incenso. Dietro una folla a segmenti, gruppi folti, uno spazio, bandiere con scritte per me incomprensibili, bandiere nazionali, poi di nuovo un gruppo folto. Quando la testa arrivò davanti a un monumento si fermò e tutti assieme cominciarono a scandire slogan. Il clima si scaldò e un amico mi prese finché fotografavo portandomi alla sede della stampa estera. Parlo di Lviv e di quei giorni perché tutto iniziò da lì e successivamente è stato un continuo ribaltare di posizioni, con l’Europa incapace di dire altro che le solite litanie sulla democrazia, ma senza soldi la democrazia non vive. E così veniamo ai nostri giorni. La Russia di Putin ha messo sul tavolo 14 miliardi di dollari, in gran parte come forniture di gas, e in Ucraina adesso è -20, eppoi in contanti. L’Europa non ha messo sul tavolo nulla oltre l’inizio di un processo di adesione. E’ chiaro che quando il pil del paese è fatto per oltre il 50% di rimesse degli immigrati, oltre la povertà conseguente, la tentazione di spostarsi tutti verso dove pare ci sia il benessere è forte. Non è questo che ha motivato il percorso della razza umana dall’Africa fino alle estreme propaggini del mondo? Ma in un mondo governato, come si può non mettere logica ai processi, come si può pensare che non ci siano interessi forti strategici nell’area, come si può ignorare che quando si è in una zona d’influenza l’economia sarà sempre costretta dentro vincoli, con difficoltà a crescere? Eppoi se le elezioni, pur validate come democratiche hanno dato un risultato, come possono le democrazie ribaltarlo se non è soddisfacente? E’ accaduto in Egitto, sta riaccadendo in Ucraina, continuerà ad accadere, ma se investe ad esempio la Spagna con i processi autonomistici, che accadrà? In Ucraina sono presenti più partiti, non è una repubblica comunista, non pochi di questi partiti sono nazionalisti, altri rappresentano una destra estrema, da sempre presente nell’est europeo. La storia degli alleati del nazismo dimostra che il terreno era fertile, anche i pogrom di Lviv ebbero protagonisti locali. Già la contraddizione dell’Ungheria dovrebbe inquietare l’Europa, eppure sembra ci sia un distogliere lo sguardo, un combattere partite che poi i cittadini europei non saranno in grado di sostenere. Dal basso costo del lavoro agli aiuti economici allo sviluppo e alla gestione dello stato, ben superiori alle capacità comuni di tenuta in una economia che non ha prospettive comuni, ma nazionali. Il benessere della Germania resta tedesco, l’impoverimenti degli stati mediterranei è affar loro per gran parte. Quindi mi stupisce che si siano perduti almeno 10 anni per non analizzare un problema, quello dei confini dell’Europa, soprattutto ad est e non agire di conseguenza. Deficienze gravi di politica estera comune, di politica economica comune. Ecco perché guardo con preoccupazione quanto accade, perché non è una crisi governata, perché la piazza ha ragioni che dipendono dalla miseria e dalla speranza di superarla, ma non da un progetto politico economico. Dire che ci sono ultras del calcio, partiti nazionalisti, destre xenofobe accanto a patrioti che vogliono una indipendenza regionale piena, non basta. Guardare le immagini e pensarle nelle nostre piazze, incute paura. Sapere che ci saranno colloqui tra Unione Europea e Russia non basta. Sorprende infine il ruolo degli Stati Uniti, ben presente a Lviv con una università, che oscilla in politica estera, tra principi e convenienza. Se l’obbiettivo è dare fastidio a Putin, allora tutti sono usati, gli ucraini per primi, ma il risultato di tutto questo sarà una mossa di scacchi che non risolve una partita irresolvibile.

P.S. Di quelle piazze di Kiev, oggi piene di barricate di neve e mezzi bruciati, ho presenti gli alberghi da realismo socialista, le chiavi tenute al piano dalle portinaie che si svegliavano quando arrivavi, i casinò improbabili nella sala da colazione, le piazze e i viali, gli spazi scenografici da regime, poi l’ingresso dell’occidente con i marchi del commercio mondiale: abbigliamento, cibo, automobili, orologi ed elettronica. La sensazione era quella di una città che faceva fatica, dove il lavoro mancava, dove lusso e povertà si misuravano mostrandosi, non sapendo le ragioni dell’uno e dell’altra. Sono impressioni di una città visitata per lavoro, dove si vedono cose più che uomini, si sentono progetti più che idee, dove la misura economica travolge tutto. Però c’era un malessere che le prospettive non cancellavano, quello di essere usciti da un regime e di non vedere ancora i vantaggi della libertà. Su questo mi fermo a pensare perché insegnare la libertà non è semplicemente introdurre l’economia di mercato.

conversazione

Affiancando le bici al muro ti ho chiesto: le leghiamo assieme? Dopo quelle parole non ne ho dette molte altre e quell’ora e mezza, dopo tanto tempo, se n’è andata in ascolto, immaginazione, in stupore per ciò che raccontavi. Luoghi e te. Ma di te conoscevo assai, erano le piste della Mongolia, i sospetti e la furbizia dei Curdi, l’epicità silente degli scontri tra furbi occidentali, gli accaparramenti di lavori, le fughe, i cantieri veloci e quelli abbandonati. Ascoltavo questa dimensione del mondo e del lavoro, l’avventura in un’epoca in cui sembra che solo i turisti abbiano bisogno di scoprire. E le grandi opere, che qui non farebbero un passo con mille comitati, altrove cambiano il mondo e ciò che ci sta attorno. Non avevo prevenzioni etiche, cercavo di capire. C’è differenza tra disboscare la foresta amazzonica e tracciare una strada, tra creare una città di appartamenti vuoti e costruire un ospedale. Il mondo non è mai così com’è ma il pensiero di ciò che sarà. In un senso o nell’altro. E così pensavo ai 100 km di strada nel deserto che portano collegamenti inimmaginabili per il tempo e l’economia, mentre lasciano stupefatti i pastori e gli animali selvatici. Ma dove portano quei chilometri di asfalto? Non in un posto, ma nel senso della modernità. C’è molto di scontato nel progresso che spinge oltre. E lo pensavo tra i tuoi racconti di cantieri ben gestiti, dove centinaia di uomini e macchine seguivano programmi, avanzavano dei giusti metri al giorno, restavano concentrati su un nastro di pietrisco e asfalto largo 18 metri, ma neppure guardavano attorno perché l’oggetto del lavoro era su una mappa, su un progetto tenuto a bada da un teodolite. E attorno c’era deserto e yurte, pastori e cammelli, sassi e temperature che chiedevano solo riparo. Nulla da vedere? Meglio non vedere.

Sentendoti parlare, mi è tornato alla mente Primo Levi e la sua passione per la chimica, al fatto che questa, e il tedesco, l’avessero salvato nel campo di concentramento. Ma la chimica non gli aveva impedito di vedere attorno, di essere dolore nel dolore, di provare rassegnazione e paura e assieme a tutto questo, voglia di vivere. Una ostinata voglia di pensare e di vivere.

Scusa, m’ero distratto, il pensiero di Levi mi ha portato altrove. Volevo dirlo, ma non l’ho detto, non avresti capito, è solo la sproporzione tra le opere di pace e quelle sotto il ricatto della guerra, che mi colpisce. Ovunque opere, ingegneri ed esperti che risolvevano un problema alla volta, senza guardare al fine, senza un giudizio etico. Quando si spezzettano le decisioni si perde il senso del perché si fa e non si vede più quello che sta attorno.

Ascolto le tue notti nei poveri alberghi, tra case di nomadi e latte di cammella al mattino, i discorsi, i gesti. Immagino la forza di un’esperienza che di giorno lavora e che la sera torna a sé, al proprio mondo bisognoso di calore e di relazioni. L’uomo si è sempre cimentato con opere grandi, e l’opera ha assorbito le persone nel senso che queste non contavano più. Le vite, le fatiche, tutto annullato nell’opera, nel segno sulla terra.

Continui a raccontare, non ci siamo neppure detti come stiamo, quello che stai facendo ha assorbito anche la tua vita, che ora coincide con il lavoro. Siamo ciò che facciamo. Per molti è vero, è così, per altri siamo quello che mangiamo, oppure il piacere che proviamo, oppure festuche di paglia in attesa di posarsi chissà dove. Potevi anche scrivermi. Ma non ne avresti avuto il tempo ed io che ascolto sono qualcosa di diverso da un nome collocato chissà dove. Ho una funzione ascoltare, ho un funzionamento interiore: penso, traduco ciò che mi dici oltre la meraviglia. Lo riporto su di me e su come vedo il mondo. Non farei le tue cose, viaggerei di più, questo sì, ma il lavoro lo terrei dove penso di sapere cosa produrrà, a me, a chi mi sta attorno. Non è un giudizio morale, semplicemente una scelta conforme.

Stiamo separando le bici, il lucchetto si scioglie, un abbraccio, la constatazione: ho sempre parlato io.

Si vede che ne avevi bisogno. Dico.

Ma tu come stai?.

Bene, ma ne riparliamo un’altra volta. Forse… Quando parti?

Presto.

Hai un’espressione un po’ dispiaciuta. Passerà in fretta, un nuovo abbraccio e la strada di ciascuno prende altra direzione. Adesso capisco perché mi chiedi sempre dove sono quando mi chiami, è perché non sai dove sei tu. 

elogio del ritardatario

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Sconfiggere i treni e gli aerei, arrivare all’ultimo minuto, salire, sedersi, tirare un sospiro di sollievo, sciogliere lo stress della corsa in un sorriso di soddisfazione. Se un gatto sapesse mostrare il sorriso sarebbe quello, un sorriso che è dentro e si mostra appena fuori distendendo il viso. Sempre sul filo perché c’era di meglio da fare. Però non hai mai perso un aereo e questo ti dà una sensazione di potenza, di dominio degli orari. E’ una partita personale. Come vivere due vite, una tranquilla che si guarda in giro e una che corre. Sovrapposte e contemporanee, le vite, e tu che vivi in quella bolla di tranquillità, esci e ti metti a correre, quando serve. Stress, certo, ma vuoi mettere la soddisfazione di vincere il tempo. Poi calma, fino al prossimo aereo, treno, appuntamento. Lo sanno tutti che arrivi in ritardo, non è vero, ma ti va bene così, ci ridi sopra. Non li sorprenderai mai ed essere scontato a chi non lo è, dà un bel vantaggio. Così quando vuoi arrivi prima, godi dell’attesa, è una cosa che chi è preciso non sa fare. Non ti disturba, anzi è tempo tuo, c’è talmente tanto da guardare, da pensare. Pensi che il tuo rapporto con il tempo è costante, dialettico, non è il tempo archiviato di chi arriva mezz’ora prima. Se lo fai è una scelta, un rapporto felice col tempo. Col tuo tempo. Lo sai che gli altri non capiranno. Non ti importa molto, è una cosa tua. Il fatto è che nell’universo della precisione hai scelto la relatività. Non rallenta tutto vicino alla velocità della luce? Pensi che non hanno imparato nulla , il mondo è sempre in ritardo sui desideri, ma arriva giusto agli appuntamenti.

porta ticinese

Parecchi anni fa frequentavo, a Milano, una trattoria a porta Ticinese. Vecchi camerieri, piedi piatti e passo strascicato, foto autografate di personaggi che ormai non dicevano più nulla a nessuno, legno alle pareti e mattonelle per terra. Segni di un qualche momento di gloria, quando le trattorie qualcosa significavano nella vita e ne facevano, rara, ma consolidata parte. Allora il mangiare in trattoria aveva due significati: la festa, l’eccezione, oppure la solitudine di chi non aveva nessuno a casa. Anche ora ho amici che descrivono come un’impresa il riuscire a prepararsi da mangiare, che hanno vite, specie dopo le separazioni, di trattorie ovunque e comunque. Vite in grado di competere con il gambero rosso per conoscenza diretta e che tra piatti e conti, nascondono l’incapacità di star soli a cena.

Mi piaceva quel posto, la sera ci arrivavo da un corso oppure dall’albergo, quasi mai da solo e con non poca allegria preventiva. Il posto metteva di buon umore. Mi piacevano le tovaglie pulite, di cotone pesante, a volte di lini antichi e un po’ lisi, le stoviglie retrò e le posate pesanti. Mi piacevano i consigli del cameriere, la cucina commentata, milanese e toscana, la cassoela, i pici. Mi piaceva il parlarsi tra tavoli, i cappotti appesi alle pareti, il fiasco di chianti al consumo, la scelta di pane tra quello con il sale e quello sciapo.

Nell’angolo, tra pareti rivestite di legno e fotografie, c’era un tavolino singolo. Non era l’unico, ma lì ho sempre visto il ragioniere. Cenava con il cappotto addosso e il Borsalino grigio sulla sedia. D’estate aveva un gessato e una cravatta con il nodo troppo stretto per essere fatto di fresco. Ordinava a monosillabi, alzando un sopra ciglio o un dito, non i piatti ordinava, ma una sequenza. Le pietanze erano sul suo menù personale, dove c’era solo l’estate e l’inverno. D’inverno un brodo di pollo, con pastina sottile, consolatoria, poi le patate lesse o il purè e la costatina. Ben cotta. D’estate, un minestrone e gli stessi secondi. A volte un insalata o un pollo lesso. Un bicchiere di vino rosso, il caffè. Sempre solo. In mezz’ora mangiava, cinque minuti per pulire i denti e poi si alzava, salutando con un bnsera e usciva. Il mercoledì arrivava più tardi. C’era il varietà, e al ragioniere piacevano le ballerine. Il cameriere faceva sempre la stessa domanda e otteneva sempre la stessa risposta. Sorridevano entrambi.

Un anno, ero lì l’antivigilia di natale, guance arrossate dall’aria precedente e dal chianti, a mangiare verze e cotechino e ridere parecchio, quando entrò un’orchestrina di fiati. Suonavano canzoni natalizie con tromba, trombone e bassotuba. Uno strepito incredibile nell’ambiente ridotto e pieno di persone. A me la cosa mise un’allegria irrefrenabile, e così a chi mi accompagnava, ma credo a tutta la sala perché gli occhi e i commenti si scambiavano ridendo, ad alta voce. Tutti ci affrettammo a dare mance generose perché la smettessero e loro, i musicisti, ringraziavano, accennavano a qualche bis di ringraziamento, finché ci fu uno scambiare di sfottò e accenni di note in risposta in un’allegria generale. Solo il ragioniere era rimasto imperturbabile. Mangiava il suo brodo e alzava appena gli occhi, poi rivolgendosi al vuoto disse distintamente: ma come l’è, di nuovo il natale? E ridacchiò.

Ecco, allora ho capito che la mia solitudine era un lusso.

Asmara

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La città è su uno zoccolo di pietra che si è ricoperto di terra e di alberi. Poi sono arrivati gli animali e da ultimi gli uomini. La strada verso il mare scende rapida, laggiù, 2300 metri più in basso, c’è il caldo, le zanzare, i giorni che sconfinano nelle notti senza riposo, ma anche 100 isole davanti alla costa, la barriera corallina, i pescatori, le barche, il pesce, una bellezza e un blu che toglie il respiro. Altra vita.

La gente degli altopiani è particolare, lo è dappertutto, non si rendono conto dell’altezza e neppure del motivo per cui un tempo sono saliti lassù spinti da qualcosa. Forse il caldo, le minacce di altri uomini, la malaria, chissà, ma comunque fosse allora, sono rimasti e a loro sembra di essere sempre stati lì. Così loro, nomadi, sono rimasti a girare in tondo su quello zoccolo di roccia e alberi. Anche in città girano in tondo. Non sono montanari, neppure contadini, gli abitanti dell’altopiano sono affezionati agli animali. Quelli che trovano e riescono a tenere: pecore, capre, cammelli. Vendono il latte quando c’è, e gli animali quando serve. A molti basta così.

Gli zoccoli di roccia hanno un orlo da cui si vede lontano, aiuta a sentirsi sicuri e chi è sicuro investe su di sé, prospera, forse per questo qui è nata la capitale. Con essa, importanza di case, vie, chiese, moschee, persino una piccola sinagoga, anche se gli ebrei erano pochi e facevano fatica a mettere assieme la preghiera del sabato. Poi venne un mercato, lo fece ras Alula, quello che sconfisse gli italiani a Dogali; un grande mercato coperto in cui vendere e comprare, ma soprattutto trovarsi, bere caffè, farsi tagliare i capelli, confezionare un vestito, combinare un affare e chiacchierare, a lungo, ogni giorno, di tutto.

Del passaggio degli italiani sono rimasti gli orfani, nomi, i cinema impero, gli edifici magniloquenti della piccola Roma, bar, ferramenta. La gente dell’altopiano, li ha guardati, anche cercato di capirli, spesso ha scosso la testa, poi ha atteso. E sono passati. Gli italiani, sono passati, come tutti gli altri. Loro, la gente dell’altopiano erano qui prima di Roma, prima di Tebe, prima insomma. La rift valley non è distante e da queste parti si è mosso l’uomo per andare altrove, loro non lo sanno, perché non sono andati lontano, hanno girato attorno. Sono rimasti.

Anche Addis Abeba è su un altopiano, anche lì la gente si è fermata, ma non nello stesso modo ed è un’altra capitale, altre lingue. Qui il tigrino, lì l’amarico, e chissà quante altre parlate ci sono. Eppoi gli etiopi sono stati nemici, lo sono ancora anche se è difficile per la gente dell’altipiano andare in cerca dei nemici, sta bene dov’è, si sposta con fatica. anche per fare la guerra. Gli etiopi non l’hanno capito e hanno perso. Eppure sembravano più forti, solo che distanti dall’altopiano diventavano deboli. All’Asmara lo sanno, non si spostano volentieri se non per fuggire davvero in cerca di lavoro e libertà.  

Gli uomini degli altopiani sono alti, magri, aristocratici, le donne bellissime; quando si muovono il corpo incede, come un arco contro il sole. Si sono fermati perché c’era pascolo, la notte e l’acqua erano fresche e si assomigliavano perché entrambe toglievano la fatica, aiutavano il corpo a tenersi la vita. Le distanze in giornate di cammino davano l’idea di uno spazio infinito prima del ciglio verso la pianura, così l’altopiano sembrava il mondo e non valeva la pena di andare altrove. C’era tempo, i villaggi sono cresciuti, divenuti pietra e poi città, le vie si sono lastricate per i carri. I commerci sono diventati importanti e l’altopiano attraeva anziché essere un punto di partenza, così anche le pecore hanno fatto percorsi circolari senza più scendere in pianura. C’è stato tanto tempo, e quel tempo che ancora oggi sembra non avere limite si è riempito di guerre e di nascite, di amori e di fatica, all’infinito. Fino a oggi, oltre ogni oggi. Non molto più il là, ancora in Eritrea, il Nilo si ingrossa anche adesso, punta verso la Nubia, qualcuno partiva e loro hanno atteso che qualcuno tornasse da quegli imperi che sembravano leggenda, e negli imperi si parlava degli altipiani e delle loro genti, qualcuno tornava e restava. Raccontava. Da queste parti c’era la regina di Saba, Salomone era infinitamente più distante, ma c’era tempo e così le persone, i re si incontravano.

Quand’ ero all’Asmara, cercavo nei volti, nelle voci, nelle pietre ciò che c’era prima dell’arrivo degli italiani, degli europei, e nelle persone trovavo una consapevolezza che era storia, letteratura, arti, abilità tramandate, ma soprattutto postura del corpo e uso del tempo.  Mi sono fatto l’idea che l’immemorabile venisse da questa confidenza con il tempo, come fossero loro a dettarlo, tenerlo nel giusto conto, senza troppa importanza: un alleato che non si sovrapponeva a loro stessi. La cultura era il tempo e loro mi sembravano i signori del tempo.

la vita come opera letteraria?

C’è differenza tra vivere e lasciarsi vivere. Lo dici mentre cerchiamo un luogo dove fermarci. La città di mattina si muove a fiotti, come le tue parole, che spiegano e si gonfiano finché parli, sembrano scavare a ondate, con furia che si ferma indecisa e poi riparte. Infatti esiti a volte, usi quelle forme che servono a prendere fiato, i come dire. Mi pare che tu stia cercando più a fondo. Così, mi pare, frasi dubitative… Mi pare.

Così si riflette sul vivere e si cammina. Sul serio e metaforicamente, e io ti dico, che è vero che le nostre storie non sono solo storie. Le leggiamo dopo così. A volte anche finché sono in corso. Ma mai nello stesso momento in cui con precisione millimetrica ciò che sentiamo accade. Si immaginano le evoluzioni, anche un fine talvolta, però appena dopo. E se si è aperti a ciò che c’accade, la storia va ancor più per suo conto, ne siamo immersi, ma è una strada intrapresa, una direzione da assecondare con lievi movimenti di guida. Un obbiettivo intermedio che consegna alla nebbia una destinazione non determinata. 

Ti ricordi Ulrich, l’uomo senza qualità? Mi dici. Quando spiega che vorrebbe vivere come un opera letteraria, con una vita che si svolge e si interpreta, senza tempi inutili, per vivere di più? E che se poi se lo osserviamo, leggendolo, di Ulrich, si colgono le abitudini, l’amante, gli obblighi di un incarico da portare innanzi, molta quotidianità, insomma? Ecco, credo che il pensiero di trasformare la vita in racconto lo facciano tutti quelli che leggono molto. Forse anche quelli che scrivono. Meno i pittori o i fotografi che hanno bisogno del reale per farsene attraversare e sentirlo. E anche chi ama solo il piacere è così. O magari ne dipende solo quando emerge la pulsione e la sua soddisfazione diventa più forte di un fine che la comprenda, e poi tutto torna nei ranghi. I lettori invece, confrontano le storie che leggono con la propria, si riconoscono nelle parole, nelle situazioni, nei personaggi. Cercano la realtà che per loro coincide con la verità. In fondo avere a disposizione tante vite vissute aiuta a verificare la propria. Costruirla. Riconoscerla. L’analista dice che quelli che procedono a questo modo non si vedono sino in fondo, scelgono un modo di interpretarsi e basta.

Adesso taciamo, ciascuno per suo conto, la vita attorno è più svelta di noi. Essere seduti fa scendere i pensieri lungo il corpo. Cambio discorso. Hai mai osservato, ti dico, che se guardi una bella donna in piedi lo sguardo e l’attrazione sono rapidi, uno scatto d’occhi e sensazioni. Senti che ti prende e cerchi un senso d’insieme come in una fotografia. Da seduti, la stessa donna diviene più morbida, procede per somma di attrazioni, ti soffermi sul viso, sul corpo, assorbi la bellezza lentamente, aggiungi pennellate, e lasci lavorare i sensi in modo calmo e intenso.

Non abbocchi.

Quando non si sa che fare si accavallano le gambe. Lo faccio con frequenza. Ci sarebbe bisogno di silenzio e invece tutto attorno ci sono rumori che mostrano le vite altrui. Cose, fare, identità, storie che si svolgono per loro conto. Una immensa biblioteca di caratteri di cui non resterà traccia comune. La raccolta delle vite avviene in silenzio e si confina in cerchie ristrette. Penso a parole scambiate, a sensazioni che restano. Il voler bene resta, ed è assieme la propria storia e la storia di qualcun altro. Abbiamo paura a legarci, troppo invasivo, siamo troppo nudi nello stare assieme, non è per questo che attrae il piacere che mette assieme sensazioni che poi si spengono e ricominciano finché si può? Mi chiedo se sia questo il principio di piacere. Intanto hai ripreso a parlare, m’ero distratto un po’ troppo.

L’analista sostiene che vivo in modo letterario.

Lo dici guardando le persone attorno, non me. Dice che quando gli racconto qualcosa seguo una trama e questo lo fa sentire in superficie. Credo semplicemente che sia in difficoltà perché le storie raccontate e vissute non lasciano troppi margini. Sono conseguenti, già decrittate, e io ho un rapporto particolare con i ricordi e il presente, questo lo so, ma davvero non saprei come vivere diversamente. Non si può essere diversi da ciò che si è, se ci si racconta la verità. Ossia lo si può essere per costrizione, per convenienza, ma che vite sono in definitiva, vite d’altri vissute nostro tramite.

Magari viviamo tutti in modo letterario, ti dico, o forse chi consideriamo notevole vive così. E magari letterario significa avere un filo che conduce le cose. Eppoi non è così per tutti?

Conosco così poco degli altri che adesso mi pare di non conoscere nulla di me. Più si procede e meno certezze restano. Vengono a galla le sensazioni, i sentimenti, ci si fa guidare da essi, ma se appena guardiamo sotto si vede che sono ancorati a principi forti che risalgono a chissà chi. Noi ne siamo portatori e in parte sono nostri davvero. Per questo lasciamo che la confusione galleggi, spuma per pelle e cervello per vivere capendoci qualcosa, sotto è tutto così torbido, c’è solo forza che tiene e si confronta. Bisognerebbe dare un nome alla forza per capire qualcosa. Ma dimmi, tu sai perché il piacere non è storia, perché si smarrisce e mal si ricorda? Ecco, vedi, questo ti dà misura della mia confusione. Sul piacere si orientano le vite e io non so capire cosa significhi davvero. Sembra un ornamento di qualcos’altro che avanza con fatica. Si adoperano piacere e felicità come sinonimi, eppure non lo sono, l’uno si può perseguire, l’altra è una condizione che movimenta tutta la persona. Ma entrambi non durano, però significano molto. Forse quel modo letterario di cui parla il tuo analista è la ricerca della felicità sempre e del piacere a volte, e il primo è una direzione verso cui scrivere la propria vita. Come si può, in balia dell’esterno, del caso e dell’interno con le sue forze oscure. Forse è il tentativo di un ordine, una storia.

E forse chi non scrive e si affida, cerca le stesse cose. Lo dici guardandomi. Semplicemente spera la felicità e il piacere, ma lascia fare alla volontà che dura un attimo, alla decisione del momento. E’ un altro modo di vivere, con la storia che si scrive da sola. Hai notato quanti forse abbiamo adoperato? Si capisce poco e quel poco sono i comportamenti di tutti. Ci assomigliamo tutti, ma ciascuno vuole le cose in modo differente, come dici tu, capisco poco anch’io e se mi guardo dentro ancora meno. Vivere letterariamente significherebbe rispettare un teorema, arrivare a una sintesi filosofica. Cose d’altri tempi, ora è tutto relativo, solo noi in fondo non lo siamo. 

3 novembre, Redipuglia

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Facevo tutta la scalinata di corsa, fino alle tre croci, fino alla lapide dei 30.000 ignoti. Era una gara, un uscire dal luogo. Ma almeno il nome di mio nonno c’era, ma gli altri dov’erano? Possibile che nella contabilità della guerra, nei ruolini dei reggimenti, si fosse perso il nome oltre al corpo? E i dispersi, dove vuoi che fossero finiti, erano morti come gli altri.  I corpi chissà dov’erano in quell’immane confusione che faceva recuperare, possibilmente senza farsi ammazzare e seppellire in fretta.  Solo una medaglietta faceva la differenza, e il trovarla certificava la morte. In quel macello che furono le alture tra Gorizia e Trieste, si poteva ben dare un nome a tutti, scriverlo e poi lasciare i piccoli cimiteri di guerra con le tombe e le armi frammiste, le armi ormai inservibili che raccontavano che la follia si era compiuta e ora c’era la pace. Basta sangue, fucilate alle spalle per chi non andava all’assalto, per chi non si faceva ammazzare, basta contadini e operai che si massacravano anziché lavorare, sfamare le famiglie, i figli piccoli. Basta quelli di là e quelli di qua. Basta. Sarebbe bastato un luogo dei nomi, delle identità e un luogo delle ossa per le visite, per i fiori. Non importa chi c’era sotto, ma un luogo serviva, era un porto del senso, l’idea che non fosse sparito tutto e rimanesse solo il dolore, l’affetto, l’amore senza oggetto.  

Mia nonna ricordava il primo cimitero  la fatica di ritrovare il nome, le croci che arrugginivano velocemente, la confusione che riportava alla necessità di seppellire velocemente, non alla pietà o al sentimento. Necessità che reparti assolvevano come logistica: un luogo per i vivi a termine, la trincea, un luogo per i morti, la retrovia dove non si moriva. Si invertiva la logica delle cose: dov’era il pericolo i vivi, dov’era la sicurezza, i morti.  Il morale della truppa, l’igiene, la necessità. Ma lo iato nelle teste non esisteva se non ricacciato dal reale: chi era amico del morto moriva assieme o di lì a poco. Il carnaio era per forza anonimo, solo la medaglietta attestava che qualcosa era avvenuto e nella contabilità dei reparti ciò che non si trovava era disperso. Non vivo e non morto, non utile alla guerra, incapace di essere per testimoniare un’azione, un assalto, una vittoria che valeva dieci, venti metri.

Quattrocentomila, contadini per lo più, e operai, assieme all’intelligenza interventista dalla nostra parte. E dall’altra, ancora contadini e operai e ragazzi di liceo e universitari subito ufficiali. Non c’è più distinzione ora, tutti assieme. E non c’era neppure allora, era solo impossibile ribellarsi all’evidenza, all’insensatezza.

Da piccolo pensavo che il colle di Redipuglia fosse un cumulo di ossa e che sopra ci avessero fatto i sacrari. Centomila morti dovevano avere un volume, essere messi da qualche parte. E invece chissà dov’erano i morti veri, serviva il numero, non le ossa, e la retorica fascista aveva avuto bisogno di grandi numeri, di più sacrari e più inaugurazioni, fino all’ultimo con i 22 gradoni, con quel PRESENTE, scandito sulle cornici, ripetuto all’infinito. Mio nonno a casa era presente. Lo era stato ai suoi anzitutto: pochi, una moglie, due figli. Poi a noi, ai nipoti, pochi, due ancora, che sentivamo di avere una presenza particolare in un luogo particolare. Sacro. Era importante quella parola, alta, riportava alle chiese, a ciò che era inviolabile. Come ci fosse qualcosa di sacro nella guerra, in una vittoria o in una sconfitta e la morte senza senso diventasse più alta. SACRO. Era scritto ovunque, ma il fatto di non poter mettere un fiore incrinava tutto, ogni giustificazione e sacralità. Anche i santi avevano un corpo, un luogo dove mettere i fiori, lì c’era un immenso libro aperto con i nomi che si susseguivano e non c’era un posto per dire: era assieme a me, era mio, c’ero io accanto a lui. Mia nonna, che qualche ragione per quella morte voleva trovarla e non le bastava il nome e il PRESENTE, anche per lei il posto per un fiore, una tomba normale, un luogo per depositare gli affetti mancava. Nonostante il sacro, la croce di guerra, una fotografia e il figlio, le era rimasto quel vuoto aggiuntivo di una pietà impossibile, di un corpo sottratto due volte, e quell’epiteto di guerra santa, magari lo ripeteva per attaccarsi a una ragione tangibile, ma non le bastava,

Così si andava a Redipuglia a novembre e io mi chiedevo cosa c’entrasse la Puglia con Trieste. E infatti non c’entrava, ma tutte le congetture erano buone per dare un nome a un luogo che non doveva essere sloveno. Sennò che senso avrebbe avuto tutto ciò? E neppure tutte le ossa dei centomila sopra e dei centomila sotto c’entravano con quello che vedevo. Dove li avevano messi? Una collina di morti con un’unico marmo sopra, un segno, un lenzuolo di pietra, questo vedevo.

Ecco, era un lenzuolo di pietra.

giù dalle colline verso la pianura

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Sono colline estenuate, stanche d’appennino. Riottose quel tanto da mostrare ferite di antiche gare geologiche, calanchi, che si gettano in mari che non esistono più. Ma verranno, oh sì che torneranno i mari, la terra è un galantuomo ( strano si metta al maschile le cose che si mantengono, le donne mantengono assai di più, forse pensare oltre il genere fa capire quanto poveri siano i modi di dire a fronte della realtà), ha tempo e si riprenderà la terra data a prestito, la riconsegnerà ai pesci, e attenderà che altre insensatezze la facciano reagire. A suo modo, certo, con quella pacatezza che si scorge in queste colline che contengono l’uomo, non ne sono contenute. Le città di pietra presa dai colli, le cattedrali meravigliose di marmi, il pavimento più bello del mondo, le opere d’arte, le torri arroganti, i palazzi rossi di mattoni, tutto questo immane ingegno profuso, si scioglie nel paesaggio. Perché basta un cipresso a fermare il passo. Un dorso di collina che si staglia contro il cielo, le scie di colori d’autunno giocati sulle variazioni del verde, la natura e l’opera dell’uomo, rallentano l’andare perché presi dalla quantità di bellezza bisogna lasciare tempo per accogliere, per esserne pervasi. Poi magari ci si accorge che mancano i colori del nord, che non ci sono i viali di platani che spingono frotte di foglie giallo marroni verso le auto, che i marciapiedi e i bordi delle strade non croccano sotto le scarpe, che l’aria è priva del mulinare nel vento di fine ottobre. Mancano perché questo è il regno dei sempreverdi, e le piante decidue, che pur ci sono, sembrano complemento al verde, mai protagoniste. Ma tutto manca distrattamente e rende lontano e privo di senso ogni confronto, qui e ora non può che essere così. L’immanenza dell’esistere nel momento qui trova la sua realizzazione, non nella piccola ricerca dell’attimo, nella soddisfazione che si esaurisce.

Scendere a Siena come Guidoriccio da Fogliano è semplice, i paesi sono un po’ più grandi dei castelli del ‘300, ma le colline sono le stesse. Mancano i nomi bellissimi dei condottieri e dei popolani (chissà che fine ha fatto questa capacità di dare ai bambini nomi originali, che tracciavano destini ed erano già un biglietto da visita, sostituendoli con le pletore di Katie, Samanthe, ecc. ecc.), ma se si scava nelle parole dei luoghi, Montaperti è ancora una ferita per una parte e una gloria per l’altra. Anche sui partiti, su quei guelfi (bianchi e neri, con non pochi distinguo, perché in Italia avere una posizione duale è praticamente impossibile e chi propugna sistemi politici binari dovrebbe rendersene conto che questo è il paese in cui ci si dilania sulle sfumature per non giungere mai al contenuto) e ghibellini che fanno parte del nostro modo irrisolto di gestire e separare la cosa pubblica dal credo spirituale delle persone. Scendere è facile dalle colline, meglio per le strade secondarie, meglio evitare le superstrade che puntano a obbiettivi lontani e tolgono la vista, meglio restare nel silenzio, fermarsi al ciglio e guardare. Prima guardare e poi fotografare. E non di rado tenere solo dentro sé l’impressione, perché quel verde, quel colpo d’occhio, quel profumo di legna bruciata, quell’eco di parlata nel borgo, quell’azzurro distante, e soprattutto quell’essere travolti dalla bellezza di esserci e vivere, non verrà mai in una fotografia. Ma dentro di noi sì resta la sensazione, che continuerà a lavorare sui particolari, che penserà alle colline belle come il duomo di Siena, che restituirà una sensazione di equilibrio nella gara del meraviglioso. Era una partita, l’uomo ha dato il meglio, ma il tempo non l’ha mai avuto dalla sua parte e le colline, piano piano hanno inglobato tutto, la cornice si è presa il quadro, rispettando le singolarità, i guizzi di genio, ma alla fine ciò che resta è la sensazione di essere immersi in un tutto in cui l’uomo si inchina, mostra la sua esistenza e si sente parte. questo è il vero equilibrio, la pace, la vittoria della bellezza che non ha vincitori.

notturno

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Di notte, la campagna si infila tra le case, spinge il buio negli orti, tra le ultime rose, preme sulle porte. E le pietre, i tetti si stringono gli uni agli altri, dimenticando proprietà, fastidi, incomprensioni, nel cercare un calore che rassicuri.

Un cane abbaia continuamente. Non è vicino né lontano, è lui la notte per chi veglia. Lo sa, forse, per questo continua instancabile, ferma un momento, illude e ricomincia. Eppure nelle strade illuminate non c’è nessuno. Lontano qualche auto incrocia i fari, mostrando case, alberi bruni, il verde spento dei prati e un bianco di betulle che s’ammassano sotto la collina. Non c’è nessuno, solo gli spettri delle funzioni diurne delle cose, che attendono il mattino per essere, lividi, silenti e attoniti per il chiaro improvviso, si mostrano, ma è un attimo, poi torna la notte. 

Ci può essere un senso di solitudine più grande, che incita al sonno procurato, ai televisori accesi, ai computer e alle conversazioni con un altro lontano sé, ma qui le finestre si chiudono presto, come occhi senza pensiero. Domani sarà uguale, questo pesa, non il silenzio, la città vuota, la stanchezza del giorno. Domani sarà uguale. E mentre le gambe si raccolgono nel letto, la speranza di essere stanchi a sufficienza vorrebbe un termine, uno scollinare oltre il quale il giorno non si ripeta. Questa è la fatica del nuovo e l’abbraccio che comprende, tiene, capisce e si sussurra: cambierà in tempo, cambierà.

downtown dentro

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Le città medie hanno una piccola città nel centro. Un posto dove circolano le biciclette e, di mattina, gli studenti e i vecchi si siedono nei bar all’aperto. Anche in ottobre o in novembre sono lì a chiacchierare. E si conoscono tutti, i vecchi conoscono i vecchi, i giovani conoscono i giovani, e i discorsi sono diversi, ma gli stessi, e quando vedi quattro persone con un giornale davanti, sai già cosa stanno dicendo. E anche quelli che passano conoscono quelli seduti e si salutano, perché si è educati nella piccola città, e se sanno cosa stanno dicendo fanno finta che sia nuovo. Così scorre il mattino e tutti aspettano qualcosa. Chi aspetta il pranzo, chi l’aperitivo della sera, perché stare soli è fatica e non di rado fa sentire il disamore.

Downtown la chiamano gli americani, la piccola città, ma è un’altra cosa. Solo l’incapacità di affrontare la solitudine è la stessa, e la cogli ovunque nella piccola città, nei discorsi che già sai, nell’impressione di aver sbagliato prima un po’ e poi tanto, nelle scelte in cui sarebbe dovuto accadere qualcosa, perdio, e invece non è accaduto ancora.

Nella piccola città che è in fondo all’anima – se c’è – bisognerebbe aprire un piccolo bar, mettere delle sedie all’aperto, sedersi e fare discorsi che già si sanno e attendere. Attendere un appuntamento, una persona, un luogo dove andare, un mutare di stagione, una fretta improvvisa. Attendere. Lo vorremmo davvero quel posto dentro e fuori la nostra downtown, dove attendere la meraviglia e intuire il giorno. Lo vorremmo e magari ce l’abbiamo già, basta tirar fuori le sedie, sedersi e chiacchierare, qualcuno arriverà.