mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente.
Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo.
Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.
C’è una linea del caffè che definisce la stanchezza. Quante volte l’ho superata immemore e consapevole, vantandomene spesso e contando sull’invincibilità del corpo, sul suo abituarsi alla fatica, sul fatto che bastava poco per essere pronto a nuove prove. Superavo la linea e non ascoltavo ciò che già sapevo, cioè che le sensazioni si sarebbero attenuate e tutto sarebbe diventato una poltiglia grigia in cui l’importante era finire. Ora capisco meglio che non è la forza quella che porta a superare il limite – e neppure il coraggio o l’abbrivio che nasce dalla volontà– ma la mancanza di uno scopo che includa e comprenda, una confusione su chi davvero sono. Arrivare agli anni tardi e non essersi almeno intuiti, arrivare a una ginnastica di aperture e di chiusure basate sul superare in continuazione il proprio limite, non è mettersi alla prova o essere vitali, ma essere in un pantano in cui è difficile procedere verso se stessi. E’ pensare troppo a noi, se si capisce di più ciò che non ci soddisfa nel superare il limite?
Nell’avvicinarmi alla linea del caffè, ora cerco ciò che mi consentirà di rientrare, l’ultima tazzina, l’ultimo bicchiere, l’ultimo boccone, che sono poi immagine dell’ultimo sentire, dell’ultima emozione, dell’ultimo entusiasmo. Un attimo prima e restare aperti al discernere del sé, ecco l’ auto governo senza rinuncia.
Dire a sé e agli altri la propria regola vitale che consentirà di accogliere senza reticenze. Prima era a notte, ora nella sera, cerco l’ultimo caffè del giorno. Quello che ancora mi dà piacere e alla bocca non muta il sapore in amaro.
Quella che sembrava una testa, uno sguardo di minaccia, si rivelò una tenda poco stesa, gli occhi fiori blu, pervinche o fiordalisi, messi in file un po’ banali, che la luce dipingeva per mostrare del suo dire, un vero. Il buio che inzuppava case attorno sollevava solitudini discrete, stirando le lenzuola della notte. Bastò chiudere una persiana, porre qualche domanda al vento e, una ad una, risposte sfilarono in parata. Conosciute da buon tempo, allegre, salutavano con mano, le cullava il sonno, e, incuranti di tempo e luogo, furono sogni, fino ad inaugurare la mattina. Alzando la persiana, venne alle spalle profumo di risveglio e, la tenda, senza più volto e occhi ora, offriva fiori blu contro la luce e d’essa si gonfiava, ingorda, fino a traboccarne i vetri. Di risposte non v’era traccia, dalle strade strepito, che non pareva nulla, solo il poliestere di finestre a fronte occultava qualche pensiero, desiderio o ansie simile alle mie, ed era troppo poco per un sogno nella luce.
Dentro il verde nuovo d’ogni primavera, c’è l’andare incurante della pioggia, il grigio che scurisce le nubi di cui s’abbuffa il cielo. Il sole già trabocca, di sudore vela la pelle, scalda i passi nella sabbia. Pensieri appoggiati al calore d’un muretto guardano gigli e silene guardie di sabbia e mare. Allora vorrei il silenzio. clessidra che fluisce, i pensieri incauti, voci che ridono mentre assieme dicono con il bacio che insegue il riso e il giorno, fin nella sera e poi la notte, ancora.
L’aereo, nella notte, sorvola la penisola arabica. Sotto i deserti, le sabbie fino al mare e poi l’acqua, anch’essa nera. Notte nella notte, nero nel nero, sopra c’è un’immensità di stelle, sotto la dimensione spaurita dell’uomo che cerca il sonno per ritrovare al mattino la luce. Dopo il Cairo e prima di Abu Dhabi c’è solo il buio. E di nuovo buio sino a Sana’a. Le imperscrutabili ragioni economiche della compagnia aerea tagliano due volte il deserto e il buio che avvolge tutto. Nella sosta forzata all’aeroporto, restare a bordo sarebbe il massimo del confort, ma si deve scendere. C’è un’espressione che mi torna in mente: gli occhi feriti dalla luce, ed è così. Il buio era primordiale, ma dolce e ovattato, induceva la vista di cose senza distanza o il sonno, rispettava la stanchezza. Fuori la luce artificiale, violenta lo sguardo. Lancia sui viaggiatori la plastica dei duty free, degli arredi pieni di arabismi fatti in Cina, ferisce l’occhio e la necessità di quiete. Tornare a bordo, dopo aver capito il proprio nome detto da un altoparlante pieno di consonanti, è una conquista e una liberazione. Poi ancora buio. Ore di volo nella cabina con le sole luci di sicurezza e fuori un tessuto di nero. Anche la costa è buia. Il mare sottostante è incessante di moto, ma non si vede e dei pirati non si parla più. Chi si muove nel buio sa cosa deve fare, ha almeno due sensi in più, il primo è la capacità di coordinare ciò che i cinque sensi avvertono, il secondo è leggere il buio come spazio, dargli misura per potersi muovere. Chissà cosa vede e sente un animale notturno. Noi, figli della luce, abbiamo abusato della nostra madre, scordandoci che la notte era anch’essa madre di vita e non solo di riposo e così per noi il buio non ha misura e ciò che non ha limite impaurisce. Il buio sotto l’aereo dice che qualcosa è accaduto sulla costa, che lo Stato che sorvoliamo ha deciso cose che riguardavano le luci e quindi gli uomini. Mi raccontavano che Massaua era una sorta di territorio libero, ricco di divertimenti poco compatibili con un regime di povertà diffusa, poi c’è stato il taglio netto. Via i giovani, via le attività, via tutto ciò che può nuocere ad una dittatura. Anche il divertimento e il turismo nuoce se fa parlare troppo liberamente. Il nero della pianura continua verso l’altopiano, si intravvedono luci troppo piccole per dire che c’è vita. Potrebbe essere un fuoco di pastori, un camion nella notte, l’aereo è sceso molto. Poi l’annuncio: siamo su Asmara. L’aereo si abbassa ancora. Dopo le luci sguaiate di Abu Dhabi, quello che ora si vede è piccolissima cosa, sembra una strada di paese quella che riordina la notte, luci di lampione rade, si intuiscono le case, ma non ci sono palazzi alti, mancano le luci rosse di segnalazione. Eppure è una capitale. Scoprirò poi che quella dimensione di case che si estendono senza alterare le dimensioni, induce una quiete, come ci fosse una presa del territorio da parte dell’uomo, ma senza fretta. Intanto è notte fonda, l’aeroporto è illuminato di luci giallo brune, ma sembrano lampade notturne che non devono disturbare il sonno, e fuori, dopo il piazzale dei taxi improbabili, dilaga nuovamente il buio. Nelle notti seguenti ho spesso alzato gli occhi e li ho immersi in uno strepito di stelle. La Rift valley non è distante, e ho pensato: ecco ciò che vedevano gli uomini che ancora non sapevano d’essere tali.
Dell’Eritrea manco da troppo tempo, come dall’Africa.
La stanza in cui sono stato all’Asmara, aveva pochi mobili. Un piccolo armadio di legno massiccio, il letto con la testiera di ferro, i comodini alti, anch’essi di legno pieno e scuro, un tavolino e una sedia. Sul ripiano del tavolo le mani, i bicchieri, unghie nervose, avevano lasciato il segno, il caffè forte e scuro aveva tracciato cerchi che si intersecavano. Una parte del legno era rimasta al riparo della luce e delimitava un rettangolo entro cui si era scritto, lasciato libri aperti, letto. Alle pareti bianchissime di calce, erano appese due stampe con spiegazioni in tigrino. In un angolo della stanza, su entrambi i lati, erano stati dipinti un cammello e una palma che arrivavano a metà altezza, con un colore che andava dall’ocra al marrone. Il cammello guardava curioso verso il ripiano dello scrittoio, la palma era carica di datteri. Un abitante della stanza aveva lasciato il segno ed era stato conservato. I mobili erano resti della dominazione italiana, venivano dalle case lasciate o forse erano sempre stati in quella casa. La cucina, dove facevo colazione e qualche volta cenavo, era ariosa, con una porta finestra che dava su un cortile e poi sull’orto. Sulla parete di sinistra stava una grande cappa, sotto c’era il fornello a due fuochi che occupava parte di una lastra, forse di pietra tenera, dipinta ad olio di un rosso acceso. Su parte di quel ripiano, la signora che mi accudiva, faceva fuoco e cucinava. Non ho mai sentito odore di fumo, il camino aspirava benissimo. Quasi per ultimo, in continuità con il ripiano rosso, c’era il secchiaio di granito, incassato nel muro. Aveva un robinetto di ottone, come quelli che si vedono ancora in qualche giardino. Non sempre, ma quando c’era, l’acqua si lasciava cadere in un flusso sottile, senza turbolenze, un cono che s’assottigliava in filo e che comunicava un senso di fresco. Tagliare con le dita quella consistenza trasparente faceva nascere la voglia di bere all’antica, porgendo la bocca con la testa di lato. Laddove il flusso batteva, c’era l’area chiara dell’acqua che detergeva la pietra e stabiliva la sua dolce, tenace, differenza. Una geografia dell’uso, che rassicurava sulla persistenza delle cose, della percezione del mondo. Il mondo si divide tra chi si aggrappa alle sicurezze del passato e chi si getta nel nuovo. Tutti hanno i loro motivi, ma nessuno è privo di radici e queste ovunque trovano linfa a cui attingere per nutrire il pensiero quieto del vivere.
Sopra il secchiaio, c’era una mensola con davvero pochi piatti e bicchieri, le stoviglie, erano dentro un vaso di terracotta forato, nell’angolo della vasca. Il tavolo, con l’incerata a quadri, stava al centro. C’erano quattro sedie di legno, proprietarie di una scomodità per me nuova e che testimoniavano a chiunque la loro costante presenza nel sedersi, come non ne fossero contente e volessero limitare l’uso di sé. Sulla parete destra c’era la credenza. Di legno, con i vetri molati nel sopralzo, con lo stesso stile primo novecento degli altri mobili di casa. Gli spazi e le pareti erano vuoti, l’aria correva allegra, le finestre sbattevano, non c’erano tracce di presenze pittoriche notevoli come in camera. Però si sentiva che molti lì avevano abitato, era stata la loro casa, avevano pensato, trafficato, costruito progetti e fantasie. L’assenza di superfluo nelle stanze, mi faceva pensare alla casa dov’ero nato. C’era un modo di pensare comune che si muoveva nelle funzioni delle cose e negli spazi. Nella mia casa, cucina e soggiorno coincidevano in una stanza grande, quadrata, e c’erano mobili simili a quelli dell’ Asmara, una cappa, la cucina economica e nell’angolo, vicino alla finestra, il secchiaio. La stanza si completava con la credenza e l’aggiunta di un’ottomana rossa, di legno massiccio e ben imbottita per diventare un luogo per il riposo pomeridiano. Le pareti erano imbiancate ogni anno da mio Padre, che ingentiliva la calcina con un rullo intinto nel blu o nel rosso pompeiano e che riproduceva un disegno damascato. Una stampa solitaria era in disparte, era un particolare della “tempesta” del Giorgione. Poi null’altro, le mie manate venivano cancellate accuratamente e così qualche piccolo disegno a matita, prima che la pedagogia di allora mi insegnasse che il bianco non si tocca. Al centro della stanza il tavolo, che con le sedie e la credenza, veniva dall’osteria del bisnonno. Quei mobili avevano percorso traslochi e vicende di famiglia, muovendosi su carri e poi camioncini, ma allora bastava poco per traslocare.
All’Asmara, mi chiedevo quando le cose avessero cominciato a vivere con noi, a occupare spazi, a soddisfare desideri oltre l’utile e generare ricordi. Capivo che le case erano grandi perché ero bambino, avevo pochi pensieri, molto da capire e da apprendere, ma potevo correre perché c’era spazio e giocare sotto la tavola. E non era proibito se non durante i pasti.
Non ho un giudizio sulle cose, accadono come i fatti. Hanno una sequenza, un ricordo, si accumulano e si accalcano, mettono in disparte l’utile e il necessario. Sono mute ma parlano e nel silenzio della notte, chiacchierano di più. I loro suoni hanno il senso delle stagioni. I materiali ricordano le loro origini, mostrano i nostri distratti sentimenti. Quando si disfano, chiedono soccorsi che ormai il consumo nega e finiscono. Finire è ciò che accompagna l’essere delle cose. Come il loro avere amore e poi sentire che è solo memoria.
Il vento ha un suo portare storie. Evoca, lancia suoni e messaggi, poi si quieta, come a pensare. La pianura conosce poco il vento, non sa come blandirlo nella sua rara furia, è abituata all’aria dolce, quasi immota. Si stupisce quando vede erbe ed alberi scossi. Oggi c’era vento di nord est. Folate improvvise che premevano sugli infissi e sbattevano furiosamente la bandiera sul tetto. A Trieste ci sarà stata bora. Il mare si sarà riempito di piccole creste bianche e sul molo Audace non ci sarà stato il solito passeggio. Anche in piazza Unità le ciacole si saranno trasferite all’interno del caffè degli Specchi e l’Harry’s avrà ritirato i tavolini. A Trieste il vento odora di Carso, di verde giovane e di fumo di legna, vede il mare e si getta giocando con la superficie, respingendo le onde. Prima s’era perso nei vicoli stretti di Cavana, ma è stato un attimo perché il suo luogo è il mare, non le pietre, le case, la città.
Nei giorni scorsi leggevo Bambino di Balzano, un libro con una scrittura piacevole ma che parlava di violenze date ad inermi, delle difficoltà dei popoli di confine nel convivere, del fascismo e di ciò che faceva agli s’ciavi. Questo mondo passava attraverso gli occhi e le azioni di un persecutore. Trieste era comunque bella, amata come negli amori che si sporcano di possesso e poi di violenza, enigmatica nel contenere pazienza e folate lunghe d’ira,
Nei diari e lettere della grande guerra, raccontano della vita in prima linea sui colli appena sopra la città, sul Carso. Non c’è il mare che si vedeva in basso. Neppure un accenno alla città. Però parlano della bora, degli stenti, della fatica e del freddo. Parlavano dei morti e dei feriti su cui passavano per conquistare o perdere qualche metro.
Ho pensato che anche la bellezza viene schiantata dagli uomini, che è il nostro generare tempesta è terribile perché ci si abitua a tutto nella furia, anche alla forca. Ma il prezzo è che la vita, la bellezza, gli affetti, muoiono e un mondo scompare. Non è un giudizio estetico sul vivere, ma la percezione che abbiamo una ricchezza grande a sentire il vento per quello che è, a vedere ciò che ci sta attorno, a pensare che esiste un futuro. Buttarlo via è criminale, come la violenza.
Con gli anni la sensibilità diventa emozione, la voce incespica davanti a un pensiero, gli occhi non vogliono essere da meno.
Sentire non è più un verbo tra i tanti. Sentono i piedi la terra, il viso l’aria, colgono il nuovo verde gli occhi, le mani percorrono ciò che è sotto la materia? E allora perché non dovrebbe bastare un’immagine, un insieme di parole per riallacciare antiche reti di sentire alla realtà. Infatti è così, ognuno di noi ha vite parallele che stranamente si intersecano e formano nodi d’emozione.
Un tempo era la musica a scatenarmi torrenti di sentire emotivo e riusciva a leggere la realtà, mettendoci dentro ideali e fatti, in un susseguirsi che poneva le giuste domande e dava risposte. Poi è venuta la parola e ciò che includeva, ossia il pensiero capace di mostrare oltre l’apparenza e il banale, la realtà, il vivere dei singoli e dei molti. I bisogni si svelavano oltre le maschere, era richieste di aiuto, di attenzione. La politica era – ed è ancora – per me questo. Ma soprattutto era – ed è – materia di sentire, comunità, legame. Quando ora mi capita di percepire le stesse tensioni comuni, capisco che c’è un noi che non separa, ma accoglie. E mi commuovo. Anche finché porto innanzi le mie analisi in pubblico o privato, esse rifiutano di essere solo parole, di non avere un legame con la realtà.
E’ la realtà che percepisco e che mi motiva. Qui non parlo più molto di queste cose, ma esse continuano ad essere parte importante della mia vita. Discrimine. Nel cogliere una conseguenza di ciò che penso, matura una scelta. Ma anche leggendo una notizia di cronaca, essa cessa di essere qualcosa che non ha relazione con me, è una consapevolezza che si trasforma in emozione. Un fatto che non è più solo accadere, ma parte della mia realtà. E quando le realtà si uniscono, da plurali diventano una. Così nasce l’analisi e il cambiamento, attraverso la razionalità e l’emozione. La prima mi spinge ad essere ciò che sono, la seconda mi sorregge e mi inumidisce gli occhi. E’ capitato anche sabato e poi domenica. Capiterà ancora. Spero accada sempre.