palazzinari di sé

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E se fosse sbagliato il presupposto, se demolire e portare via il vecchio per costruire il nuovo, fosse la logica dei palazzinari, di quelli che lucrano sul passato e non ne hanno rispetto? Se ci consideriamo una costruzione, e lo siamo, demolire in continuazione, resettare, che scopo ha, se non quello di avere sempre un’ immagine accattivante, che attiri nel mercato della comunicazione. Ho la sensazione che non funzioni così, che alla fine non resterà nulla, solo un volto vecchio di noi senza passato. Come per quelle costruzioni millenarie in cui ancora si abita, noi siamo interessanti, ricchi, se ciò che ci ha costruito da qualche parte appare. Con una traccia, un fregio, una cicatrice, uno svolazzo di genio. Strati di passato su cui si vive e si erge il presente. E chi ha detto che questo sia un problema, un peso ? Non vi è mai capitato di fermarvi a ricordare in un momento solo vostro, e sentire la dolcezza di ciò che avvenne, oppure una punta di paura, il senso di soddisfazione, o la riprovazione per qualcosa che non vorreste aver fatto, la  liberazione di una antica prigionia, un pomeriggio che aveva una luce fuori e dentro così intensa da sentirne ancora il calore. E tutto questo, e molto d’altro con la sensazione d’aver vissuto cose solo vostre. E ancora, non fornisce questo ricordare la sensazione che sia bello vivere, costruire senza eliminare ciò che si è stati? Non un cimitero di fatti e sensazioni, ma strati su cui camminare, ergersi, guardare oltre sapendo dove si è.

Il chi si è, come i siti web pretenziosi o distratti, è in costruzione.

lunga e paziente, la grammatica del cuore

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Il cuore tiene strette le sue alchimie, i segreti che connettono ciò che accade.

Fa accadere e si stupisce, esita e spinge a fare, coglie il reale e s’alimenta di sogni e di possibile.

Sorprende il cuore, nei suoi inesplorati contenuti, è inesauribile contenitore di meraviglie da cui estrae oggetti colorati, drappi scuri e ancora colore.

Di natura strana il colore che viene dal cuore, altera ciò che si vede, muta la percezione dei sensi, muove le gambe a correre e fa star fermi, chiede silenzio ed eccita parole e risate.

Conosce il senso degli aggettivi, il cuore, sa la profondità della tristezza, la leggerezza vaporosa dell’allegria, la bellezza tempestosa dell’amore, la soddisfazione queta della comprensione.

Il cuore ha paura e forza per superarla, solleva l’ansia e la placa, si emoziona fino al pianto e si distende nell’abbandono.

E’ insondabile e senza tempo, il cuore, combatte con la ragione e spesso vince perché pratica l’impossibile, ha memoria e oblio, giudizi inappellabili che solo lui può mutare. E tiene ciò che conta davvero mentre sciala ciò che non dura.

E’ generoso e sa perdonare, il cuore, con il suo tempo che non è quello della ragione.

Si lascia leggere, il cuore, e insegna la sua grammatica, con pazienza inesauribile, per l’intera vita.

in fondo dipende da noi

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In fondo dipende da noi. Anche da noi. Quasi sempre si attende quell’ultima spinta, quella decisione non presa, il mostrarsi d’ un segno o l’andarsene, il gesto in più oppure in meno, la pacificazione o il lento scivolare nella ripicca. Un rapporto (che parola formale quando ci sono i sentimenti di mezzo, ambigua nel suo uso, inadeguata alle sfumature, e avete osservato come anche i sinonimi reggano poco, relazione ad esempio, oppure amore, già così connotato e sfuggente, segno che il simbolo non basta a racchiudere, che la verbalizzazione sacrifica il significato), la sua qualità, la durata, dipende anche da noi. Per questo il “per sempre” non funziona e svilisce il vero legante di un rapporto che è ” l’adesso“.

Così come sei ti scelgo, oppure, con garbo, ti rifiuto. Resterò o mi allontanerò come scelta. 

La libertà è questo restare e cedere qualcosa di sé, oppure andare e perdere qualcosa di sé. Comunque non si resta mai interi. Non importano le ragioni, ma una ragione per restare, oppure andare, c’è sempre. Anzi due sono le ragioni, una evidente e una nascosta. E ognuno conosce entrambe ed è su queste due ragioni che si gioca l’adesso che può diventare molto a lungo (o per sempre come preferiscono i romantici, però quello che c’è in un adesso dopo dieci, venti anni, è ben diverso dall’innamoramento, dagli assoluti che provoca).  

Adesso ti scelgo oppure mi riprendo parte di ciò che avevo posto in te.

Le formule altosonanti, gli assoluti, vanno bene per i riti e soprattutto per mascherare la nostra insicurezza, un ribadire che ce la faremo. Ma se quando si pronunciano ci vedessimo poi, nel quotidiano, nell’oscillare tra abitudine e curiosità; se ci vedessimo quando usiamo i mantra degli assoluti, per quetare, per convincerci e se indagassimo nella piccola sensazione di piacere e di forza che viene dallo scegliere, quasi imponendoci la risposta, se tutto questo fosse evidente, quando si dicono quei desideri d’eterno, saremmo felici e sospesi, e solo per un attimo, passerebbe l’ombra del dubbio da scacciare con un moto di capo, coscienti e realisti nel capire ciò che sarà davvero il futuro di quel rapporto: fatica e impegno. E se non si riesce, ci vorrebbe onestà nel dire che quel comunicare non regge, che non si può più. In fondo l’unico valore è la vita, a partire dalla propria. Messa in sicurezza quella, il resto viene di conseguenza e lo sappiamo bene. Per questo dipende da noi, da ciò che vogliamo essere, da ciò che accettiamo di essere.

In fondo dipende da noi e noi siamo così relativi.

il critico

Quando penso al critico nella mia testa compare l’immagine di chi osserva, partecipe, i lavori pubblici oppure di chi guarda giocare a carte, cioè persone che hanno un’idea precisa di come fare o di come vincere, ma non lavorano e non giocano. ” Sporcarsi” con il fare toglie la calma olimpica di chi guarda dall’esterno, espone all’errore, anzi include l’errore come parte di un processo che ha lo scopo di compiere e realizzare il meglio. L’errore è ciò che gioca a rimpiattino, un animaletto che fugge e si vuole acciuffare, e quando lo si acchiappa allora l’opera, la partita, è perfetta e dà una soddisfazione enorme, piena. Ma questo è il processo di chi fa, una relazione con se stessi che il critico non può capire nella sua importanza, anzi neppure ammettere, perché egli si ferma all’opera, all’esecuzione, alla tecnica. Così non può comprendere che la ricerca della perfezione di chi compie non è la sua, che l’opera stessa si genera nel fare, il suo compito è quello di condurre altri verso un lavoro non proprio, far vedere ciò che non noterebbero, collocare, relativizzare, mettere a confronto cose inconfrontabili perché appartengono ad altri lavori, altri tempi, modi, cervelli, mani.

Preferisco ascoltare, vedere, leggere, gustare e poi, se c’è tempo e voglia, sentire la critica.

p.s. pare che al minuto 6.24 ci sia un errore interpretativo, se non me l’avessero detto non me ne sarei mai accorto e mi sarei goduto la bellezza sublime della musica e di chi la suona, senza quel minimo di retro pensiero.

il limite del manga, ovvero parliamo tanto di me ma solo di ciò che vedi

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Il manga è stereotipo, espressione certa, teatro del nð estremizzato in disegno. Rappresentare la vita per emozioni nette elimina i punti morti, quello di cui parlava l’Ulrich di Musil, è la semplificazione delle vite mettendo sotto il tappeto la consuetudine, il quotidiano.

E’ tutto così irraccontabile, signora mia… Ma anche nello scrivere non si scherza, tra stilemi, modi di dire, rimasticature che vengono da chissacchè, insomma superficie, ovvero ciò che si mostra e si vuol far trasparire. Il vetro colorato è pietra preziosa se intravisto tra fessure, e si dimentica il legno che lo racchiude per un barlume. Ma poi ci si stanca. Avete osservato che le emozioni stancano, che la superficie stanca? La stanchezza, come la schiuma, poi vela le cose, non permette di cogliere la sostanza, attiva un resipicere, una riluttanza all’immergersi nell’altro. Se l’ira, la gioia, la tristezza, la stessa noia, sono maschere, come si potrà capire la differenza che abbiamo dentro? Pazienza gli altri, s’accontentino, ma noi cosa sentiremo davvero di noi stessi? Occorre tempo. Per capire occorre tempo e capire non è solo intelligere, ma fare proprio, possedere. E per farlo, serve tempo. Invece si crede più all’intuizione che allo scavo, al lampo più che alla fatica del percorrere. Si crede all’intuizione del manga e al più si passerà al pregiudizio in un percorso che dalla superficie elabora modalità di capire/prevedere le cose che esimono dall’analisi. Capire, invece, è una faccenda seria, spesso lunga. Non è questione da geni, anzi spesso le persone geniali lo sono in un campo specifico, fuori di questo assomigliano a tutti, ometti non di rado incapaci di comprendere, ma almeno la loro funzione è certa e soprattutto non riguarda le relazioni tra persone, casomai il rapporto con se stessi. Anche loro usano stereotipi per esprimere la superficie, hanno bisogno di non essere disturbati. Forse sono tra i pochi ad essere giustificati nel loro semplificare le cose. Eppoi perché parlarne, se geni non si è, resta il quotidiano, l’adesso, i rapporti che intendiamo profondi, qui il manga disturba perché è un velo che nasconde altro. Il manga ci semplifica la vita, ma davvero vogliamo una vita semplice, oppure la vorremmo intensa e piena?

prendila così

Prendila così questa notte che non luccica abbastanza,

metti le labbra sulle parole che scivolano via,

pare difficile ricordare, 

eppure siamo noi nelle nostre imprecise coincidenze:

attimi, e poi calore sovrapposto, e scia, pulviscolo,

atomi di te nell’aria, odore, 

senso.

Prendila così questa notte che addensa le stelle,

tieni il silenzio sulle labbra,

stropiccialo e ascolta la tua lingua:

è tela, tela di tempo, trama,

occhi che si chiudono, sentire d’allora, malinconia,

amaro e dolce,

assieme,

dolce,

ecco.

Adesso respirami e racconta, ciò che non è stato,

quel preciso essere che poi non è avvenuto.

Convincimi che il futuro bluffava allora

ma non ha tolto nulla,

nulla d’importante per stringerti ora,

 a me, qui adesso, come fosse davvero nuovo il tempo. 

lavoro ed equità

In ogni oggetto che acquistiamo c’è una parte visibile e una invisibile. Quella visibile è il prezzo, la qualità, la marca, il nostro desiderio di possederlo, in quella invisibile ci sono le materie prime, l’intelligenza nel progettarlo, il lavoro per farlo e portarlo fino alle nostre mani. In quella parte invisibile c’è un filo rosso che porta lontano, spesso in paesi fuori dal nostro immaginare, in città brulicanti con lingue sconosciute, in miniere, campi, fabbriche e uomini. In questa parte invisibile spesso si annida l’ingiustizia, il lavoro pagato poco e male, le condizioni di sfruttamento di donne, bambini, uomini. Qualche giorno fa è crollata una factory in Bangladesh cui lavoravano centinaia di persone, paga media 30 dollari al mese per 12 ore di lavoro al giorno. Meglio che lavorare i campi, hanno detto quelli che lavorano in fabbriche simili, almeno qui il lavoro non è stagionale e ti pagano ogni mese. E le condizioni magari miglioreranno di poco per il clamore suscitato dalla disgrazia, ma saranno sempre lontane da quel minimo che tutela dignità e diritti di una persona.

Chiarisco che non voglio che la merce resti nei negozi, anche perché per questi lavoratori sarebbe peggio, ma qual’è il nostro livello di tolleranza nell’ingiustizia e quanta siamo disposti a portarcene addosso?  Poca, tanta, infinita, ovvero facciamo finta di nulla, tanto è così?  E se l’oggetto che vogliamo, portasse un tagliando che certifica che il produttore applica condizioni eque di lavoro e paga una paga fissata come livello di vita accettabile da un organismo terzo come l’ILO  (international labour organization), saremmo più felici di comprarlo o meno? Se sapessimo che la commessa che ce lo vende non viene sottopagata, non è precaria, non lavora nei giorni festivi, saremmo più contenti oppure no?

Ecco, pur sapendo che l’equità è distante dal profitto e ancor più dalle catene della produzione e del commercio, se ogni anno ci avvicinassimo un po’ di più alla giustizia, ne sarei felice. Se sapessi che il mio telefonino, o il mio schermo, non viene da una fabbrica dove le persone si suicidano per le condizioni di lavoro, ne sarei felice. Se ci fosse una graduatoria dei produttori iniqui (e in parte c’è), potrei evitare quelli più ingiusti e incuranti delle persone. E se fossimo in tanti a farlo, questi si affretterebbero a cambiare modi di produrre e diventare più equi. Insomma penso che il primo maggio dura tutto l’anno e che applicarne lo spirito, come discrimine dei miei acquisti è la mia arma libera e pacifica. Tutta questo mondo si regge sul consumo e il consumo può cambiarlo, portiamo un po’ di giustizia ed equità nel nostro acquistare e il lavoro diventerà migliore.

p.s vorrei anche ricordare che molto egoisticamente, che è l’equità che difende i lavoratori anche nel nostro mondo. Dove non c’è equità la concorrenza diventa sleale e il mercato si altera, vince l’ingiusto e il truffatore, e le fabbriche chiudono.

l’età in cui nasce la malinconia e la felicità

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La scuola aveva due sedi, e si frequentavano entrambe. Quell’anno in autunno, ci furono piogge torrenziali e il rione pellettieri, che attraversavo, era interamente allagato. Parti povere della città, anche quando la città frammischiava le case tra poveri e ricchi, ma lì non c’era traccia di ricchezza, una vecchia villa era un postribolo da poco chiuso, poi, verso il canale un’altra villa, trasformata in clinica, per il resto erano case miserevoli, malsane, appoggiate l’una all’altra, in strade basse che s’ allagavano ad ogni autunno e tra esse, una fabbrica di colori, inchiostri e crema per calzature che provvedeva con i suoi scarichi, a colorare i livelli d’acqua sui muri. Così c’era il diagramma del malstare sempre a disposizione. Capivo poco, ma la miseria era evidente e passandoci in mezzo, entrava dentro come umidità, faceva star male al pensiero. La mia casa era modesta, ma linda e piena di sole, c’era legno e terrazzo veneziano, non pavimenti in terra, i miei vestiti erano ordinati e puliti, mi portavo dietro un profumo di buono, ma passando tra quelle case mi sembrava che ciò che avevo fosse in più, tanto da accelerare il passo, per uscire dall’impressione di pesantezza del vivere loro. Poco dopo l’intero quartiere fu smantellato, gli abitanti deportati in condomini e appartamenti sani, con il bagno, mentre lì, nel pellettieri, i bagni non c’erano e finiva tutto in canale, ma dico deportati perché fu dispersa una cultura, non per loro scelta e i vecchi si intristirono, i ragazzi restarono separati dal resto delle bande giocherellone nostre e ne fecero per loro conto, ma più chiuse e cattive, senza più gioco. Accadeva e noi non sapevamo nulla e così ci godevamo le demolizioni, andavamo a vedere gli affreschi sulle pareti della casa di tolleranza e per completare il giro, chi sapeva, ci portava anche a vedere i mosaici di quell’altra di via santa Agnese. Di tutto quel bisbigliare, ridacchiare, capivo davvero poco, non avevo ancora alcun interesse che fosse esplicito a me, non era ancora tempo, vedevo i nudi, ridacchiavo ed avevo un vago senso di peccato, ma la cosa finiva col parroco al sabato e qualche pateravegloria.

Le due sedi della scuola erano davvero distanti. Per raggiungere quella vicina al Carmine attraversavo mezza città. Camminavo tantissimo in quegli anni, con un’abitudine (che m’è rimasta), connessa ad un senso di gioia, come se le gambe e il loro muoversi avessero un potere di allegria, quindi non mi pesava e tornavo spesso a giocarci il pomeriggio. Un giorno, scavalcando un muro, m’ accorsi di un ciliegio coperto di fiori, dei petali che volavano come neve e divenne evidente l’aria fresca, già piena di umori, che veniva dal canale. Fermai una corsa per dirlo, ma non era già più tempo, i giochi nuovi e non più da bimbi, la scoperta delle cose dette a bassa voce, ormai cancellavano la meraviglia dello stupirci assieme, finì con uno spintone e un canzonare che bruciava, ma che mi permette, oggi,di tenere il ricordo di quel bianco in mezzo alle rovine della città che cresceva. Era l’età in cui nasceva la malinconia e la felicità attesa ed io mica lo sapevo. Il quegli anni quello che era stato seminato in me, spuntava, prendeva forma, e accadeva tutto ciò che poi sarebbe diventato forte. C’era una consapevolezza della spinta a crescere che cambiava vestiti e scarpe, ma soprattutto cambiava i pensieri, ed io i pensieri non volevo farmeli cambiare troppo, ci tenevo alla fantasia, alla meraviglia di quei piccoli giochi appena trascorsi, al fabbricare cose che sembravano altro nella mia testa, come quegli aerei di compensato ritagliati già pregustando il loro volo con i razzi, e il parlare seduti all’ombra sulle cose impossibili, e dell’ultimo film visto e il repentino alzarsi e ricominciando a correre, e le figurine nuove da mostrare, e il concitato sovrapporsi di parole dei litigi, e i silenzi improvvisi. Insomma a tutto questo ci tenevo, pur nel mio crescere impellente, eppure fuori tutto mutava, così trasferivo dall’esterno all’interno quell’essere di prima che non voleva morire, ma non me ne accorgevo. 

Alcuni giorni alla settimana li trascorrevo nell’altra scuola. A fianco dell’ingresso, appena oltre al portico, c’era un salumiere di quartiere, con un bancone così alto che mi sembrava un muro. Ed io non ero piccolo, ero il più alto della mia classe. di quella di prima almeno, perché nella nuova c’erano un sacco di ripetenti, perfino uno che aveva fatto il militare. In quella salumeria si entrava durante l’intervallo, si veniva investiti da un odore fatto di cento odori diversi, di pane, di canfora, di mortadella, di spezie, di diluente, di stoffa, di prosciutto cotto, di baccalà, tanto da restare per un attimo sospesi a decifrare, ma era un attimo, poi cominciava l’acquolina e l’attesa, finchè si usciva con un panino fresco, ripieno di tonno e cipolline sbrodolanti e gocciolanti. Gusto. Puro gusto e piacere. Era una novità assoluta: l’intervallo, l’uscita furtiva dalla scuola, il panino, il rientro. Una bricconata da cuore in gola da celebrare come una vittoria, un essere grandi prima del tempo, una libertà, un disporre di sé e del poco denaro raccattato tra mancette e borsette compiacenti. Tutti spiccioli, anche le giornate, solo la vita era davvero piena, colma, traboccante, da passare con la lingua oltre al bordo per non perderne nulla. E invece veniva disperso talmente tanto, scialacquato con allegria il vivere quotidiano che, più che una vita, era una scia di fatti, impressioni forti, flash nel giorno che rischiaravano i visi e sfumavano i contorni, sovraesponevano, ma restava tutto, oh sì che restava. Ci fu un fatto, un incidente, una chiazza di sangue larga, la segatura ad assorbire, come stessero pulendo il pavimento, il corpo portato via subito, l’impressione fortissima, poi il racconto di chi c’era e aveva visto, noi eravamo appena fuori, in cortile, al grido. E nel dire concitato, si sovrapponevano le vanterie dei testimoni, ma un peso che non aveva nome, e avevamo tutti, toglieva ogni enfasi ai discorsi, anche le parole altisonanti si schiacciavano per terra. Il pensiero di casa, di noi, della vita e del suo interrompersi per la prima volta, almeno per me, aveva un valore diverso. Non erano più angioletti, come li chiavano prima, un compagno di giochi, una peritonite, forse, e non c’era più, e ancora, il fatto dove pure noi esploravamo il fiume, uno scoppio, corpi dilaniati, il ripetere in casa che le cose strane non si raccoglievano, che la guerra che non era ancora finita negli oggetti letali, ma allora la morte aveva un altro significato, forse non ne aveva, accadeva, non era una vita a cui veniva tolto il futuro, non lo capivo così prima. Solo nella nuova scuola, in quel fatto, si palesò, nella sua definitività ed era la prima vera percezione, la morte.

Di allora, mi pare tutto eccessivo, un pullulare di contrasti, quiete e fermenti che schizzavano ovunque, continuo a pensare che tutto già c’era, che nella pallina di energia che si era accumulata pochi anni prima qualcosa si stesse srotolando, un refe, rosso, forte che prendeva dentro e attorno, cucendo tutto. L’ho capito allora che contenevo il tempo, non quello dei libri di storia, non quello sequenziale dei doveri, degli obblighi e dell’attesa di un piacere circoscritto, no, contenevo il tempo arruffato e circolare, il mio tempo, quello fatto di una crescita multiforme, di un andare, di un obbligo alla visione che non è microscopio, ma neppure sguardo distratto, un elaborare continuo di stimoli, di sentimenti, di possibilità, piacere che resta, un tempo che solo io avevo e che durava, si rivoltolava in me, urgeva e cresceva, come quelle torte senza lievito che faceva mia mamma, mia nonna, tutti: la torta margherita. Un tempo che abbuffava e soffocava, che faceva tossire per la fretta, e poi si scioglieva e lasciava pasciuti, in attesa di un nuovo essere, anzi dell’essere che si svolgeva. Ecco, lì, mentre nasceva la consapevolezza dell’esistenza della malinconia e della felicità, oscuramente cominciavo a capire che l’essere mio si sarebbe d’ora in poi, svolto, e che io scrivevo il tema.

il grafo della fine dell’infanzia

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In fondo erano poche strade, anche se a me parevano tante, il grafo dei miei percorsi l’avevo in testa, con relative priorità e gradi di piacere, ma allora non sapevo cos’era un grafo ed erano solo strade e luoghi di congiunzione tra necessità e libertà. Avevo 11 anni, quasi 12, come il millequattro quasi  millecinque di non ci resta che piangere. Casa, campo da pallacanestro, patronato, scuola, i giardini di certe case in rovina, case di amici, il Prato e gli zii, i giardini dell’arena e le piazze. Percorsi con i calzoni corti, di corsa, da solo, in compagnia, nel sole delle estati afose di città, piano, sotto i portici, d’inverno. Alcuni pensieri ancora li ricordo, erano di attesa di cose buone, di futuro. E poi quella nuova scuola. Tetra come sanno essere i conventi strapazzati dagli usi civili, ricca di superfetazioni, laboratori, cemento e aule ricavate in spazi che un tempo dovevano essere belli. Una scuola professionale, perché questo aveva pensato per me il maestro, ed era stato pure ascoltato; che stupidaggine vista la mia manualità e la fantasia solitaria e galoppante. Comunque era un’ altra scuola e a me bastava per uscire dall’infanzia. Non più l’elementare vociante dei bambini, dei grembiuli e dei fiocchi, dei nonni in attesa, delle dita sporche d’inchiostro. Non più le aule che odoravano di vecchio e di legno, i finestroni altissimi che si riempivano di pioggia, le tende pesanti, nocciola di sporco e di canapa, gli alberi visti mentre desideravo esser fuori e lontano una voce spiegava, spiegava e io sognavo di tagliare un ramo del tasso che vedevo per farne un arco (come Robin Hood), non più lo stesso maestro, gli stessi compagni, gli stessi percorsi: tutto nuovo, strade nuove, occhi nuovi per un’età che cresceva troppo piano e troppo in fretta rispetto ai pensieri e al corpo che s’inerpicava nell’età prepubere. L’età informe e indecisa, la terra di nessuno in cui sarebbe accaduto molto, troppo, e capito nulla o quasi. l’età delle trasformazioni in cui scoprivo la libertà, la possibilità d’essere solo e felice. Eppure in quel vivere mi sembrava di non imparare nulla di confrontabile con il prima ed erano pochi i ricordi che restavano dei giorni, delle cose, quasi a negare l’età precedente, perché il ricordare è faccenda personale, un riposarsi nel passato, cosa davvero poco interessante quando si cresce o si esce da un’età e si entra trionfanti e timorosi nella successiva.

Eppoi c’era una nuova casa, perché in quell’anno traslocammo, nuovi pensieri e nuovi luoghi di gioco. Ambienti più grandi da odorare, un sole diverso che irrompeva da finestre disposte secondo nuovi orientamenti, odore di calcina e di lacca, pavimenti di legno a lunghe tavole, il terrazzo veneziano nel soggiorno, una televisione, un frigorifero, un giardino, un muro alto che separava da un convento pieno di ragazze che cantavano canzonette, una terrazzetta, due scalini di legno su cui mi sedevo guardando il Santo, con le sue cupole e l’angelo con la tromba che si muoveva con il vento e la soffitta e i mobili in cui nascondere fumetti e un tumulto dentro con la scoperta della malinconia. Forse mezzo chilometro, ma il mondo era davvero cambiato. Io ero davvero cambiato.

E continua…