Senza pensare a significati religiosi, l’attesa di luce travalica ciò che si conosce e sconfina dove non arriviamo. E il bisogno di luce in questo inverno che continua, dentro più che fuori, è forte. Ma non vorrei l’estate e il sole del Riccardo 3°, no, vorrei che i desideri si ordinassero, che il pulviscolo che da troppo tempo ci fa tossire e impedisce di vederci, calasse. E vedere un ordine disordinato alla luce. Un ordine allegro, un posare le armi, un ordine rispettoso dell’altro. Ben visibile.
Vorrei la luce per capir meglio che fare, la luce per riposare. Siamo tutti nervosi, poco attenti a chi pestiamo, non vediamo la rivalsa che porta il tempo distante dalle nostre vite, lo spreca senza utilità e non lo vede scorrere. Ed io invece vorrei veder bene ciò che accade, ne ho bisogno, come ho bisogno di dimenticare le categorie che mi facilitano la vita e mi chiudono gli occhi.
Vorrei la luce discreta dei doni che non fanno invidia, la luce che permette di vivere a proprio modo. Mi servirebbe anche la luce per cogliere la bellezza che c’è dentro e si rintana. E una luce morbida di penombra che sia misericordiosa, per il molto che non va. Chiarezza e comprensione. Lo si può chiedere alla luce?
Se penso a me, non so dove si finisce, ma non ho capito bene quando ho cominciato. Mi pare, vado indietro, ripesco ricordi che, tenuti tra le mani dei pensieri, devo rigirare per riconoscere davvero, il dono della luce forse non li renderebbe più chiari, ma li collocherebbe al loro posto. Com’è giusto sia. E di questo mi pare di aver bisogno.
Allora a quella zona dove non si capisce bene se sia finito il razionale ed iniziata finalmente la speranza, affido la mia lampada per i desideri di questa notte. Non ho fretta, semplicemente attendo un po’ di luce, perché in fondo ciò che serve è riconoscere il buono che verrà.
Arrivano le feste, metto in un piccolo mantra le necessità:
-raccogliere i piccoli grandi disturbi delle abitudini,
-farne legna per il camino che riscalda la testa prima del corpo, come accade per le passioni nuove,
-non fare bilanci, guardare dentro con spirito nuovo.
C’è un luogo dietro piazza dell’Unità a Trieste, che ora sarà freddo. Scuro della collina che lo sovrasta, scuro della bora che s’infila tra le stradine, passando sotto il volto del municipio, scuro del vento che taglia i visi e che si butta in Cavana, o su per via commerciale verso Opcina, ma non si disperde. Sembra infinito il vento, la bora in particolare. Però in quel pezzetto di strada c’è una libreria antiquaria. La vedi dalle vetrine che semplicemente mostrano il dentro stracolmo di oggetti, e libri, e lampadari, e boccette bicchieri vasi, e tovaglie, e tessuti, e giocattoli, e persone, tutto stipato in stanze che si infilano l’una nell’altra, come una bestia grossa che s’è accoccolata. E dorme. Le persone s’aggirano curiose al calduccio, prendono in mano, stropicciano, guardano in trasparenza, vanno altrove con la testa, annusano la polvere, il sentore di tempo. Lo vedono sulle cartoline, sui libri, sui bicchierini da rosolio, sui pizzi che li hanno accompagnati. Svevo, Slataper, Joyce, Saba e via andare in questi angoli incrostati sono oggetti preziosi caduti in acqua, visti in controluce rilucono di ciò che è stato immaginato e vissuto.
Ma non m’interessa la libreria, non questa notte. Appena dopo le sue vetrine, c’è un ristorante che ho sempre visto troppo tardi. O s’era appena mangiato, o non c’era tempo, oppure era chiuso ed io, ogni volta, mi ripromettevo di andarci a pranzo. In un giorno di bora. Sedermi, passare le mani sulla bella tovaglia bianca, un po’ inamidata come adesso non s’usa, e attendere che il vecchio cameriere, con la giacca nera e la camicia bianca, arrivasse. Mi sono visto prendere il menù dalle sue mani, guardare, alzare gli occhi mentre aspettava che decidessi, parlare quel tanto che superava un nome sconosciuto, evocare un ingrediente, trascinare un giudizio (qui si va sul pesante), con un sorriso. Poi scegliere e attendere il cibo caldo e lento, sperando che la bora, nel frattempo, dimenticasse dove siamo. Ché quando s’uscirà, il pensiero non sia il che fare fino a sera, sennò si passa da un caffè all’altro, da un piccolo desiderio di vetrina al successivo, così senza meta né luogo vero. E invece il protagonista di questo andare, che poi è essere e raccontarsi, è la solitudine che sta meglio se ha un luogo.
Difficile parlarne davvero, chi la conosce non ne ha bisogno, gli altri ti sollecitano a metterci buona volontà. E invece la solitudine è quella sensazione che ti impedisce di lasciarti andare completamente, di dire una sciocchezza in più, di pensare così leggero che neppure pare, di fermarsi su una sedia lasciando scorrere le parole, o i silenzi, che tanto fa lo stesso, di frequentare il limite della veglia come un vedere senza guardare. E’ tutto questo e altro, insomma le sensazioni che ciascuno porta dietro come sa, e che nel mio pensiero erano il protagonista di una strada, di un luogo preciso, di un andare che essere lì perché non si sa come rapprendersi altrove. Perché la solitudine rende solidi come blocchi di ferro e insieme gassosi. Se guardi un parallelepipedo di ferro ti sembra leggero, ti chini per provarlo e il suo peso ti sorprende, fai fatica a prenderlo con le mani, alla fine, con fatica, lo sollevi e ti sembra già inutile averlo fatto. Non è quel che sembra, ma è ciò che è, eppure tu non sei quel blocco di ferro, però ora ne senti il peso. Anche se ti pare di essere un gas rappreso in una nuvola, qualcosa che sta in aria, che non afferra e non è afferrata. Questa è la solitudine. E quella stradina di Trieste con la sua libreria e il ristorante e il cameriere, è il racconto di tutte le domeniche pomeriggio senza amici, di tutte le letture senza comunicazione, di tutto il cibo mangiato per abitudine, di tutte le ore che hanno atteso qualcosa che si compisse e quel qualcosa non si è poi compiuto. Potrebbe essere una sala d’aspetto di piccola stazione il luogo, ma ormai non ci sono più, potrebbe essere un vicolo che conosci bene a Mantova, o un piccolo angolo di Roma, potrebbe essere ovunque. Ieri sera mi veniva in mente Kiev e la tristezza che vi ho visto. La tristezza è oltre la solitudine, si conoscono, ma non sempre vanno assieme, a Kiev c’erano entrambe. Perché Trieste? Forse per il suo essere sempre passato, altro che è avvenuto, eppure presente. O forse solo perché mi piace, è una città in cui vivrei perché c’è il mare e i triestini sono allegri per combattere la solitudine che hanno dentro.
La solitudine è una turista provetta, una buona compagnia che ti segue ovunque, se a volte parla più forte è per attirare la tua attenzione. Come quella sera in una latteria di Alfama, a Lisbona, a mangiare baccalà tra mattonelle bianche e due signore anziane che canticchiavano il fado e alla fine s’è parlato in due lingue e si sorrideva. Oppure potrebbe essere quella strada di Buenos Aires, dove ti avevano detto di non andare, vicino a La Boca, e finché parlavi con il tassista hai scoperto che erano tutti genovesi e veneti rimasti poveri. Mi ha regalato un coltello, il tassista, e non ha voluto che gli pagassi la corsa, però l’ho ascoltato che cantava un tango di Carlos Gardel e alla fine ci siamo abbracciati.
Potrebbe essere ovunque, basta che la porti con te, l’importante è parlarle, stabilire i desideri reciproci, strapparle una sensazione positiva o almeno la promessa che qualcosa si proverà assieme e che da questa condizione per un poco, oppure per sempre, si uscirà. Chissà che significa non provare più solitudine, chissà come si vive semplicemente vivendo. Chissà. Non riesco ad immaginare una vita senza questa presenza, non so neppure se mi piacerebbe sempre. Quello che capisco è che questa vita potrebbe esistere, che altri la vivono, ma io non so che cosa sia. E così convivo, mi tengo l’ironia per sorridere, uno scuotere del capo per non dare troppa importanza e capisco che questa presenza spinge a trovare qualcosa che manca, che è un motore, allora mi pare che non ci sia un’età dell’innocenza in cui essa non c’era, ma che ci sia sempre stata e che l’importante è viverci bene assieme. Ecco perché una jota bella calda stasera spazzerebbe via la bora, allungherebbe le gambe sotto il tavolo, alzerebbe un bicchiere di refosco in più, fino al sonno. Poi domani si comincia.
Poi alla fine ci si stanca un po’ di tutto, o quasi. Dello stesso bar, della stessa strada, dei colori di un negozio, del giornale quotidiano, delle amicizie che sono rimaste in superficie. Ciò che era nuovo, promettente, invecchia, acquista una patina che è unto di tempo, smog di parole e pensieri, e risa e solitudini usate, vita che si è svolta e scivolata oltre. E’ stato scritto un tema (a proposito di vite letterarie) tra gli oggetti e le cose che riconosciamo, non di rado sugli stessi corpi, e alla fine è sembrato che non ci fosse più nulla da dire. Può sembrare una considerazione amara, invece è solo il crivello di sé che trattiene ciò che davvero conta e il resto lo tiene come passato. Ed è pure la spinta del vivere che agisce, oltre alle abitudini, alle ricerche che erano desideri da raggiungere, mostrandoci altro che si apre e si offre a noi. Nel cercare non è la stessa strada che percorriamo che ci porta al nuovo, ma quello scarto della testa che ci fa vedere vecchio tutto quello che abbiamo fatto fino a quel momento e ci spinge ad uscirne, ad imboccare un cammino che sia conforme a noi, come siamo adesso. E’ un progresso di quell’indagare profondo che ci ha fatto capire qualcosa in più di quello che ci riguarda. Non sono forse i superficiali, i supponenti che non vogliono mai mutare il loro modo di guardare il mondo? E quella stanchezza di cui parlavo all’inizio, non è forse il disvelamento che altro attendiamo da noi, che le felicità non si sono consumate e che neppure la vita si ripete, se non quando vuole sottrarci il tempo con il suo scandire di pendolo.
Omnia vulnera ultima nexit vale per quanti seguono i riti che sembrano scorciatoie, i modi di pensare e di cercare che non evolvono, il guardare privo di vedere. Sembra una questione di sensi, di cose da provare, una ricerca del nuovo come inaudito, e invece accanto a queste modalità che si esauriscono con la facilità d’un fuoco d’artificio, ci sono tracce nuove che esigono pazienza e uscire dal tempo cronologico. Magari non si concluderanno, il tema non avrà una frase che lo finisca, e non sarà perché il tempo ci ha rubato qualcosa, magari una sensazione in più, perché una fine che doveva pur essere scritta e vissuta. No, sarà perché era davvero il percorrere la strada il vivere e il suo gioirne per il nuovo che si depositava in noi camminando. In questo essere in cammino, che non è andare, la stanchezza per i percorsi che si ripetono è salutare, spinge a verificare dentro una direzione. E allora tutto quello che sembrava necessario per tenere in piedi una giornata, non regge a una domanda: perché lo faccio? Così diventa accessorio e marginale. Resta ciò che conta, e ciò che saremo, non quello che siamo stati. Per questo il tempo cronologico diventa finzione, un limite che ci si pone per dire che è tardi e così arginare la voglia di esplorare, di percorrere, di vivere. Altra stanchezza, altro modo di generare una noia da cui non si esce. Non a caso quel tempo, non il kairos o altri concetti di tempo, è stato scelto dalla civiltà dei consumi, dal possedere, dall’essere in quanto numero di ciò che si vale in un mercato dove tutto si compra. Per quel tempo è sempre troppo tardi, e tutto deve essere superficiale, combusto non assaporato, gettato per essere sostituito e non superato. Non dobbiamo coincidere con il tempo, ma con noi stessi, sembra facile, eppure non lo è, costa la fatica delle domande, del mutare. Ci si può provare.
Ci sono cose che sorprendono con poco, basta una data e ci si chiede cosa sia stato del tempo sinora. Forse per questo bisognerebbe vuotare cassetti e armadi da ciò che si mangia e s’indossa, perché uno scontrino, una scadenza ci mette davanti a un grigio che fluttua: cos’è accaduto in questo tempo? Gli specchi, infedeli e benevoli amici, non aiutano, troppo lenti nel misurare ciò che accade in noi. Spesso neppure i volti sono sinceri. Guardo una fotografia e so che ero io allora, ma ciò che c’è stato in mezzo si è smarrito in miliardi di connessioni e di nodi ed è lì che attende, confuso nella sensazione di un’ innocenza d’antan.
C’è una beffarda tirannia nelle date: un sacchetto di pasta dimenticato, un conto di ristorante si possono buttare con facilità, ma ciò che ci separa da quelle date è in noi, eppure non ha consistenza, restano poche evidenze e il resto che ci ha fatto come siamo ora dov’è? Cos’è accaduto del nostro tempo, delle passioni d’un giorno? Ricordi che nel loro sciogliersi tra poche pietre miliari ci celano ciò che veramente siamo stati. E da sempre, inermi, puntiamo sull’eccezione, lasciando che i giorni si sciolgano senza tempo.
Credo che la solitudine sia sostanzialmente incomunicabile nella sua essenza/sentire. Se ne vedono gli effetti come in una malattia, chi tiene a noi dà consigli giusti, assennati, medicine che aiutano a vivere, arginare, ma la guarigione è solo interiore, solitaria . E spesso non viene mai poiché passa, credo, attraverso una catarsi che scuote e muta profondamente, ci porta ad essere altro da ciò che in fondo siamo abituati ad essere. L’amore è un buon antidoto alla solitudine, il bene è un argine, ma penso che chi soffre di solitudine sia in realtà un solitario per condizione primaria e di ciò soffra senza saper bene come uscirne. Fa tentativi, si sforza, ma la solitudine interiore lo riporta a sé, a volte può sembrare anaffettivo perché non si lascia andare e limita il bene per sé anzitutto. Ma il bene lo conosce a menadito, per bisogno e contiguità ed è forse perché ne ha a troppo che teme il legarsi: non avrebbe limite. Comunque sia chi soffre di solitudine vera tende ad allontanare tutto ciò che minaccerebbe la solitudine di fondo, così non sta bene in nessun posto per troppo tempo e sopratutto capisce che ciò che prova è incomunicabile anche a chi gli vuol bene.
Un problema, non da poco per il solitario, è nel suo stancarsi di comunicare se non viene capito nel profondo. Gradualmente giudica esercizio inutile questo disvelarsi e scivola, o nel silenzio, o in comunicazioni meno emotivamente coinvolgenti. Bisogna tener conto che la frequentazione lunga con sé porta ad essere egoisti, narcisi ed esigenti, ma sarebbe sbagliato pensare che chi sente molto la solitudine frequenti la fascia alta dell’egoismo o del narcisismo, il solitario vorrebbe bastarsi, ma non si vede se non per riflesso ed anche quando cerca d’essere bastevole a sé introduce una critica severa verso di se stesso, un senso forte di insufficienza anch’essa incomunicabile. Torri di pietra con molte aperture, quindi attenti al mondo, i solitari vivono nella società, ne sono dentro e al tempo stesso fuori, sperano di trovare il modo di mutare una condizione che è inquietudine e noia, assenza di pace. Eccedono, sono compagnoni, allegri, sorridono e dopo un po’ diventano riflessivi, la testa si perde altrove. Se si alzano e se ne vanno, non è per scortesia nei vostri confronti, ma stanno seguendo sé e questo li porta lontano, neppure troppo lontano, oltre una porta, tra le vie di una città, dentro una casa, un libro, in un bar affollato, comunque verso un silenzio che deve dialogare con chi sembra capirli, ovvero se stessi. Poi tornano, un giorno o l’altro tornano. E se non trovano chi li aspetta se ne fanno una ragione. Capiscono, i solitari che soffrono la loro solitudine, capiscono.
Mi turbano inezie, l’insipienza verso i disastri dell’agire quotidiano nei confronti del mondo in cui viviamo, il debito pubblico che toglie ogni prospettiva a tutti fuorché ai furbi, il tirare avanti sperando che qualcosa risolva tutto, il girarsi dall’altra parte, il dire sono tutti uguali, la politica e la sua incapacità a reagire, la difficoltà a perseguire il possibile come alternativa all’obbligato. Mi turba l’inerzia che accompagna gran parte delle passioni collettive, l’incapacità a vedere oltre il proprio interesse, l’esposizione delle persone in mondi fasulli, l’illusione degli amici che si possono cancellare, la difficoltà a sentirsi parte di un insieme vero, di un popolo. Mi turba l’incapacità di legare esterno e interno, la mia vita con le vite degli altri, la scelta di una dimensione piccola perché quella grande si fa fatica a capire, il rifugiarsi in ciò che si ha, il chiudere gli occhi e gli orecchi, il rifiutare ciò che sta fuori delle nostre vite. In definitiva il non capire. E tutte queste sono inezie perché gran parte delle persone cercano ogni giorno di affrontare i problemi del quotidiano, cercano di salvarsi oppure rifugio nella soddisfazione dei desideri, non si pongono più il problema del mutare, casomai se sono giovani, pensano di andarsene. E allora temo che stiamo tutti invecchiando velocemente, che abbiamo rotto gli specchi per non vederci, che nel difendere la nostra casa non ci accorgiamo che la città cade. Tutto questo pensare oltre è sciocchezza se non è pensiero collettivo, è solo dolore personale, incapacità che rende inani di fronte a ciò che è troppo grande per uno o pochi, ma che sarebbe risolvibile da molti. Ecco quel sentirsi soli o pochi traccia il limite della sciocchezza, la porta a colpa individuale, irrisolvibile e quindi senza speranza di soluzione personale. La sensibilità quando prevale l’egoismo è sciocchezza e purtroppo il turbamento nasce da lì.
C’è differenza tra vivere e lasciarsi vivere. Lo dici mentre cerchiamo un luogo dove fermarci. La città di mattina si muove a fiotti, come le tue parole, che spiegano e si gonfiano finché parli, sembrano scavare a ondate, con furia che si ferma indecisa e poi riparte. Infatti esiti a volte, usi quelle forme che servono a prendere fiato, i come dire. Mi pare che tu stia cercando più a fondo. Così, mi pare, frasi dubitative… Mi pare.
Così si riflette sul vivere e si cammina. Sul serio e metaforicamente, e io ti dico, che è vero che le nostre storie non sono solo storie. Le leggiamo dopo così. A volte anche finché sono in corso. Ma mai nello stesso momento in cui con precisione millimetrica ciò che sentiamo accade. Si immaginano le evoluzioni, anche un fine talvolta, però appena dopo. E se si è aperti a ciò che c’accade, la storia va ancor più per suo conto, ne siamo immersi, ma è una strada intrapresa, una direzione da assecondare con lievi movimenti di guida. Un obbiettivo intermedio che consegna alla nebbia una destinazione non determinata.
Ti ricordi Ulrich, l’uomo senza qualità? Mi dici. Quando spiega che vorrebbe vivere come un opera letteraria, con una vita che si svolge e si interpreta, senza tempi inutili, per vivere di più? E che se poi se lo osserviamo, leggendolo, di Ulrich, si colgono le abitudini, l’amante, gli obblighi di un incarico da portare innanzi, molta quotidianità, insomma? Ecco, credo che il pensiero di trasformare la vita in racconto lo facciano tutti quelli che leggono molto. Forse anche quelli che scrivono. Meno i pittori o i fotografi che hanno bisogno del reale per farsene attraversare e sentirlo. E anche chi ama solo il piacere è così. O magari ne dipende solo quando emerge la pulsione e la sua soddisfazione diventa più forte di un fine che la comprenda, e poi tutto torna nei ranghi. I lettori invece, confrontano le storie che leggono con la propria, si riconoscono nelle parole, nelle situazioni, nei personaggi. Cercano la realtà che per loro coincide con la verità. In fondo avere a disposizione tante vite vissute aiuta a verificare la propria. Costruirla. Riconoscerla. L’analista dice che quelli che procedono a questo modo non si vedono sino in fondo, scelgono un modo di interpretarsi e basta.
Adesso taciamo, ciascuno per suo conto, la vita attorno è più svelta di noi. Essere seduti fa scendere i pensieri lungo il corpo. Cambio discorso. Hai mai osservato, ti dico, che se guardi una bella donna in piedi lo sguardo e l’attrazione sono rapidi, uno scatto d’occhi e sensazioni. Senti che ti prende e cerchi un senso d’insieme come in una fotografia. Da seduti, la stessa donna diviene più morbida, procede per somma di attrazioni, ti soffermi sul viso, sul corpo, assorbi la bellezza lentamente, aggiungi pennellate, e lasci lavorare i sensi in modo calmo e intenso.
Non abbocchi.
Quando non si sa che fare si accavallano le gambe. Lo faccio con frequenza. Ci sarebbe bisogno di silenzio e invece tutto attorno ci sono rumori che mostrano le vite altrui. Cose, fare, identità, storie che si svolgono per loro conto. Una immensa biblioteca di caratteri di cui non resterà traccia comune. La raccolta delle vite avviene in silenzio e si confina in cerchie ristrette. Penso a parole scambiate, a sensazioni che restano. Il voler bene resta, ed è assieme la propria storia e la storia di qualcun altro. Abbiamo paura a legarci, troppo invasivo, siamo troppo nudi nello stare assieme, non è per questo che attrae il piacere che mette assieme sensazioni che poi si spengono e ricominciano finché si può? Mi chiedo se sia questo il principio di piacere. Intanto hai ripreso a parlare, m’ero distratto un po’ troppo.
L’analista sostiene che vivo in modo letterario.
Lo dici guardando le persone attorno, non me. Dice che quando gli racconto qualcosa seguo una trama e questo lo fa sentire in superficie. Credo semplicemente che sia in difficoltà perché le storie raccontate e vissute non lasciano troppi margini. Sono conseguenti, già decrittate, e io ho un rapporto particolare con i ricordi e il presente, questo lo so, ma davvero non saprei come vivere diversamente. Non si può essere diversi da ciò che si è, se ci si racconta la verità. Ossia lo si può essere per costrizione, per convenienza, ma che vite sono in definitiva, vite d’altri vissute nostro tramite.
Magari viviamo tutti in modo letterario, ti dico, o forse chi consideriamo notevole vive così. E magari letterario significa avere un filo che conduce le cose. Eppoi non è così per tutti?
Conosco così poco degli altri che adesso mi pare di non conoscere nulla di me. Più si procede e meno certezze restano. Vengono a galla le sensazioni, i sentimenti, ci si fa guidare da essi, ma se appena guardiamo sotto si vede che sono ancorati a principi forti che risalgono a chissà chi. Noi ne siamo portatori e in parte sono nostri davvero. Per questo lasciamo che la confusione galleggi, spuma per pelle e cervello per vivere capendoci qualcosa, sotto è tutto così torbido, c’è solo forza che tiene e si confronta. Bisognerebbe dare un nome alla forza per capire qualcosa. Ma dimmi, tu sai perché il piacere non è storia, perché si smarrisce e mal si ricorda? Ecco, vedi, questo ti dà misura della mia confusione. Sul piacere si orientano le vite e io non so capire cosa significhi davvero. Sembra un ornamento di qualcos’altro che avanza con fatica. Si adoperano piacere e felicità come sinonimi, eppure non lo sono, l’uno si può perseguire, l’altra è una condizione che movimenta tutta la persona. Ma entrambi non durano, però significano molto. Forse quel modo letterario di cui parla il tuo analista è la ricerca della felicità sempre e del piacere a volte, e il primo è una direzione verso cui scrivere la propria vita. Come si può, in balia dell’esterno, del caso e dell’interno con le sue forze oscure. Forse è il tentativo di un ordine, una storia.
E forse chi non scrive e si affida, cerca le stesse cose. Lo dici guardandomi. Semplicemente spera la felicità e il piacere, ma lascia fare alla volontà che dura un attimo, alla decisione del momento. E’ un altro modo di vivere, con la storia che si scrive da sola. Hai notato quanti forse abbiamo adoperato? Si capisce poco e quel poco sono i comportamenti di tutti. Ci assomigliamo tutti, ma ciascuno vuole le cose in modo differente, come dici tu, capisco poco anch’io e se mi guardo dentro ancora meno. Vivere letterariamente significherebbe rispettare un teorema, arrivare a una sintesi filosofica. Cose d’altri tempi, ora è tutto relativo, solo noi in fondo non lo siamo.
Stasera il vento comincia a ricordarsi che è pur sempre novembre. Domani prevedono pioggia (mi piace l’immagine di questi che prevedono, chissà dove sono, immersi in carte del tempo oppure che sghignazzano chiedendo al nonno se ha i dolori), bello godersi la bicicletta tra le strade illuminate di luce pubblica e dai negozi. Tra poco inizieranno le luminarie, ma quella non è la città che sento domestica, è la città in spolvero, che mostra la propria voglia di festa, di ricchezza. Meglio le falivete delle caldarroste che volano verso l’alto e che sono stagione, cosa di casa.
Gli occhi del ricordo investigano i segni, un refolo di tramontana riporta ad altri autunni ben più freddi, persone chiuse nei cappotti, sfoggio e necessità di lane, adesso ancora ci sono giacche e al più cotoni pesanti. Capricci del clima. La città non sente freddo, è ancora aperta, accoglie ovunque, le persone per strada che si fermano a parlare, i non pochi seduti all’aperto anche di sera. Si intrecciano voci, appuntamenti, risate e i toni si alzano, si mostrano. Sono distintivi i toni del dire, apparenza, voler essere e mostrare. Attorno è tutto un intrecciare relazioni, dare appuntamenti, proseguire affiancati, costruire reti. Un sociologo inglese ha definito la cultura come l’arte di intrecciare canestri, mettere assieme il dentro e il fuori come si fa con i rami di salice o di nocciolo e ricavarne qualcosa di solido e utile, un contenitore che raccoglie altro, con una sua bellezza. La cultura della città è questo: stabilire connessioni nuove.
Nella piazza si affacciano nove bar, in quasi tutti si può mangiare. In un paio pure bene. C’è ancora qualche tavolo in cui mangiano all’aperto, ora però è il tempo delle sale che si gremiscono. Tavolini vicini, voci che si sovrappongono, chiacchiere e progetti che prendono consistenza. Tutto assieme. Una coppia approfitta del tono alto di due donne per trovare una intimità difficile.
Questa è mia figlia. E indica una ragazza che approfitta dell’interruzione per consultare il touch screen. Ma dai, sembrate sorelle. Piccole ipocrisie, complimenti tirati e la figlia alza gli occhi infastidita. Tra un’insalata d’orzo e un prosecco, le reti si annodano, costruiscono immediati futuri. Alla coppia luccicano occhi e sorrisi, le promesse mute prendono assai e lo sfiorarsi, lo stringere di mani, i baci fugati, intrecciano possibilità. Questa è una cultura che prescinde dal luogo, così diceva Ulf Hannerz, più o meno. E invece a me piace l’idea che il luogo sia parte dell’intrecciare.
Sugli scalini della gran guardia, altre reti, persone, ragazzi. Cultura come rete che intride persone e luoghi. E’ solo un’idea, una suggestione che mi piace perché penso che nei muri, tra le case, si conservi qualcosa di questa cultura che nasce e ha un passato. Che questi ragazzi, e chi ne è preso, disseminino ciò che apprendono, lo portino con sé per il mondo. E che quella rete non sia solo sentimenti fugaci, ma lingua, sentire, vedere, sensi che nascono in un luogo. Suggestioni, un modo di leggere i rapporti, tenerli, farne esperienza e conoscenza che si trasmette non con i libri, ma come si può, come viene. Anche perché è sera e non fa ancora freddo, ma di calore umano c’è sempre bisogno.
Perché dopo essere stato comunista, tutto quello che è venuto poi, in politica, è stato meno? Un progressivo adattarsi a una realtà che diventava sempre più irriformabile, dove la speranza si affievoliva e per questo il fare diveniva relativo, incapace di suscitare le stesse passioni, speranze, volontà di cambiamento di un tempo. Forse questo approccio alla società, al sentirsi parte di qualcosa di più grande, era tipico dell’età giovanile, che si portava innanzi con quella carica di passione e d’assoluto che scorre dentro quando il proprio mondo è da fare, diviene contenuto dell’oggi, si sostanzia in progetti, scadenze che fanno ritenere tutto vicino. E anche il camminare diveniva una certezza che coincideva con la strada che si percorreva. Quell’entusiasmo però aveva caratteristiche profonde, come tutti gli idealismi, ed era capace di incidere sulle vite mettendole dentro una interpretazione etica di ciò che era buono per tutti, cambiava i comportamenti, la gestione del tempo, gli affetti, ciò che si faceva e si sceglieva. Ciò che è venuto poi è stato insieme una libertà nuova e un relativo che le ha tolto gusto, riportandola su un sé talmente isolante che non era più possibile dire noi e sentirsi parte di una rivendicazione condivisa, di una forza che cambiava. Credo una scelta politica allora somigliasse a tutto quello che ha capacità di incidere dentro di noi: gli amori, le emozioni forti, le paure. E che essere stato parte di un progetto che voleva cambiare il mondo e la vita delle persone verso una maggiore giustizia e condivisione, in una libertà mai raggiunta prima, restasse, pur senza i risultati che si sarebbero voluti, la possibilità di una vita alternativa. Più piena, condivisa e felice di quella vissuta poi.
Certo il comunismo attuato era altra cosa, lo vedevamo nei viaggi all’est. Negli anni ’70 arrivavano i primi esempi terribili che si assommavano a quelli passati, di regimi inumani, coercitivi oltremisura. Ma noi pensavamo, e uso il plurale perché con varie gradazioni lo pensavamo in molti, che si potesse riportare sulla giusta via quello che non andava, raddrizzare le storture, eliminare i culti della personalità, le resistenze che impedivano di avere una società cooperante e meno burocratizzata. In fondo eravamo anarchici e il comunismo era solo il passaggio verso quell’individuo libero e solidale che era il vero punto di arrivo della società realizzata. Del resto il capitalismo, con la sua libertà e democrazia, per lo più raccontate, veniva da guerre ed eccidi terribili, era lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo teorizzato e visibile. Credo che questa fosse una ragione che ci spingeva comunque a credere nel comunismo, spinti forse da quella tradizione romantica che non si esauriva. Ed ora che non si crede più, che il capitalismo ha vinto, migliorare sembra sia un problema da risolvere assieme al fondo monetario internazionale o la BCE, cose distanti che rispondono a un mondo che include solo il denaro e relativizza gli uomini, cose che non hanno una possibilità di riforma vera, si autogovernano e non rispondono a nessuno pur determinando il benessere e le vite di ciascuno. Di fronte all’impotenza, senza più un ideale che spinga a governare le proprie vite resta la ricerca del meno peggio, per questo una nostalgia di quell’amore che durò a lungo relativizza tutto e rende stanchi quando si deve affrontare una nuova battaglia. Anzi non ci saranno più battaglie se non c’è una bandiera per cui combattere e vincere. Al più qualche san Martino che taglia il proprio mantello e condivide.