dislessia che cresce

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Tra le cose che vorrei fare di più quest’anno, come sempre, c’è la lettura. Però spesso quello che leggo non fa scattare la magia del transfert, l’innamorarmi della storia e allora rimpiango un poco i pomeriggi e le notti in cui non sentivo nulla di ciò che avveniva attorno, le ore volavano e mi trovavo alla fine col viso fiammeggiante e l’impressione d’essere stato altrove, in un mondo comunque bello e differente.

Sarà che leggo cose poco interessanti, non scelgo con sufficiente accuratezza gli scrittori, oppure mi lascio ingannare dalle descrizioni dei risguardi e della quarta di copertina, che al pari dei titoli degli articoli di cultura, poi parlano d’altro. Sarà che ci sono troppe parole e pochi concetti, poca storia e troppo spesso i personaggi vengono presi, fatti vivere e poi abbandonati, riempiendo pagine e pagine di attesa che non conclude. La lettura in questi casi, diventa un lunghissimo coitus interruptus che toglie senso alla passione. Esigenze editoriali, un libro deve avere almeno 160 pagine per costare 16 euro, ma se ne faccio uno di 600 pagine e lo vedo a 20 euro sembrerà un affare.

Certo non è sempre così, a volte, inaspettatamente emergono meraviglie e resto incantato, ma da tempo ho questo senso di disagio, di dislessia crescente che se non mi stacca dal piacere di leggere, lo confronta con altri momenti.  Mi consolo pensando che mi accade anche al cinema, e ormai vedrei più volentieri un trailer mediometraggio che lasci intuire e dica l’essenziale, piuttosto di molti dei film che passano.

La lettura però resta un grande piacere e mi tranquillizzo, perché penso accada a molti buoni lettori che, accanto alla sempre forte voglia di leggere, emerga il bisogno d’ essere attratti, avvinti, stupiti e che il tanto leggere passato abbia prodotto graduatorie personali, che sono poi specchio del sé che muta, e cresce, e che queste graduatorie da un lato rifuggano la critica e l’analisi esteriore, ma dall’altro tengano e misurino la conformità a sé.

Col tempo, la lettura, come ogni cosa che ci sta attorno, diventa sostanza nel vivere e un abito che s’indossa. E pure l’abito nuovo dev’essere adatto a sé. Questo è il leggere e il goderne. Indossare una storia come un buon tessuto sulla pelle che, anche quando si toglie, lascia una sensazione di morbida bellezza.

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Che fare dell’intangibile? E’ tutto davvero scomponibile in segnali, piccole correnti, gangli, mitocondri, connessioni che generano percezione, gabbature d’occhi, di mente, ricordi fallaci, errore e razionalità nel riconoscerlo, ecc. ecc. e poi? La risposta è quasi un inizio di dominio, con le neuroscienze ci si può ancorare allo spiegabile, e quindi a ciò che si tocca, evolve, muta, degrada, ma basta? Perché esiste qualcosa che ci fa restare muti e non si capisce, e allora non è questione di credere, e neppure di non sapere ancora abbastanza, è che la meccanica, i segnali, non esauriscono l’intangibile e chi non crede si trova davvero solo davanti ad esso. Però se non viene da credere non viene e mica ci si può fare un film apposta per tranquillizzarci. Neppure della scienza si può fare religione.

Diciamo che tutto questo aiuta il senso del relativo: se non credo non è che trasferisco sulla scienza il bisogno. Casomai emerge la consapevolezza che essere nel tempo del tangibile e della scienza non ci salva da noi stessi e dalle nostre domande.  E per fortuna che questo accade, perché così possiamo essere preda dell’amore, della gioia, della tristezza, delle passioni. La scienza al più fornisce un’ancora da buttare, ma ci sarà poi un fondo raggiungibile e disponibile? Il rettile che alberga in noi non crede, non si muove a caso, è il prodotto del determinismo ferreo di migliaia di prove evolutive e quando apre un occhio non prova sentimenti, solo bisogni, ma su di lui una pioggia di intelligenza è caduta. L’ha confinato dove doveva stare. Motore, animalità, reazione automatica, istinto. Serve tutto al rettile evoluto in predatore, divenuto specie che sceglie. Evolvendo, acquistando velocità e abilità, sul dorso fatto tigre, là verso il collo, si sono accoccolate domande che corrono con l’animale. Domande dotate d’artigli mentali, non meno acuminati di quelli che aggrediscono, ma poi, retratti, carezzano i piccoli. E allora che fare dell’intangibile mentre si corre, si annusa l’aria ricca di ferormoni, mentre circola il sangue dove s’annidano i desideri? Che fare con gli obbiettivi che rivelano la loro piccola consistenza, con gli assoluti degradati a relativi? Accogliere ciò che non ha spiegazione fornisce una libertà aggiuntiva. Anche il razionale s’arresta e poi partecipa stupito dell’ignoranza di ciò che si sente. Buone le domande, lasciamo largo spazio a ciò che non si capisce: si capirà, in parte, ma resterà il dubbio e ciò che resterà da comprendere sarà una porta aperta, non una gabbia. 

10 gennaio

Le ruote dentate del pendolo hanno molti anni. Più o meno un centinaio. Cerco di regolarle, e mi pare di raggiungere lo scopo con l’equilibrio dei pesi e delle oscillazioni, ma poi i minuti mi smentiscono e un po’ accelerano e un po’ rallentano. Il pendolo irride l’ordine proposto e impone un suo ordine. Il pensiero scivola sui ricordi, sulla loro cronicità fallace, sulle stesse cose che occhi diversi vedono differenti e menti diverse vivono altrimenti. Più volte m’è accaduto di ascoltare episodi a cui ho assistito e sentirli differenti nel vissuto d’ altri, le sequenze cambiate, l’importanza di ciò che si disse, e accadde, mutata.

Oggi mio padre compirebbe 100 anni. Se n’è andato troppo presto, come troppo presto era andato via dalla città in cui era nato e non è mai stata sua. In lui la cultura dei nonni era la nazionalità, anzi il luogo da cui provenire e tornare. Se n’è andato quando si capisce a cosa servono i padri: troppo presto per tutte le cose che non sono state dette, per le domande inevase, per i silenzi da condividere vivendo. Ma forse è sempre troppo presto per andare e troppo tardi per dire ancora, così i ricordi sono sentimenti sovrapposti ai fatti. E ora contano molto i sentimenti. Non so se gli sarebbe piaciuto questo mondo, magari i figli come hanno poi vissuto, certamente i nipoti che non ha conosciuto, ma il resto avrebbe avuto la sua disapprovazione. Troppo distante dalla sua vita, dalle idee e dai principi che l’avevano guidato. Penso che nell’imprinting ciascuno di noi diventi unico, perché riassume ciò che c’è stato e ci aggiunge il suo. Ovvero ciò che pensa e sente davvero.

Affiorano le sensazioni, i ricordi riferiti in casa, la distruzione e la ricostruzione del vivere nelle due guerre: la prima che distrusse, la seconda che generò. Eppoi i figli, il lavoro difficile, anche per le idee politiche, il senso di responsabilità, l’onestà verso se stesso e gli altri, la precisione, per Lui, naturale nel proprio lavoro, la tolleranza, le idee di giustizia ed equità, i principi ribaditi. Era  gentile e mite e non erano debolezze, ma forza in chi non arretra e si prende carico di sé e degli altri.

Una direzione ci è stata fornita. Come questo scorrere di tempi che accelera e rallenta e irride la smania di precisione vuota. Così si capisce il tempo dell’occasione, si prendono gli appuntamenti necessari, si accetta l’errore fino a non vederlo più tale, ma riconoscendolo come parte del vivere. I ricordi sono pezzi di sé, abbiamo un puzzle dentro che ricompone in continuazione e non chiede. Casomai mostra soddisfatto il risultato ottenuto. E sorride, contento di sé come un bambino.

la ripetitività dei numeri primi

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Chi l’ha poi detto che il criterio cronologico permette di capire tutto? Ovvero come si sono svolte le cose. Avevo un collega e amico che ogni volta che gli chiedevo notizie sul suo magazzino, di cui era il capo, cominciava un lungo discorso che partiva dalla recinzione. Una volta gli dissi che avevo poco tempo, 5 minuti,  e dovevo conoscere il carico di uno scaffale, cominciò : quand’ero piccolo e mia nonna… Doveva per forza partire da lontano, ci abbiamo scherzato per anni, ma a me non interessava come si estraeva il ferro che era servito a fare lo scaffale, mi interessava ciò che ci stava sopra. 

Però mi piace la storia. Così ogni volta che inizia una nuova enciclopedia storica, con trepidazione compro il primo volume. Sfoglio le pagine, mi immergo nella lettura, confronto, mi faccio domande, poi constato che è una riedizione, rimaneggiata, di qualcosa che è già uscito e concludo che non c’è così tanta novità per aumentare il peso complessivo delle librerie di casa. Adesso anche National Geographic riedita ? (mi pare di averla già vista) una sua enciclopedia storica e parte dall’Egitto e i faraoni. 

Non se ne può più, dell’Egitto e dei faraoni, ma perché magari solo per confondere le idee, cari esperti di marketing, non partite dalla riforma protestante, dall’impero Ittita, dalle crociate, dall’impero Turco, dalla storia della Cina, che per averne una di decente bisogna spendere un patrimonio con Einaudi.

Partite dal novecento e risalite, così capiamo quante cazzate si sono ripetute nei secoli. Indagate sull’assedio de la Rochelle  e perché gli olandesi protestanti affittavano navi ai cattolici francesi contro i protestanti ugonotti. Fate confusione e parlatemi della battaglia della Marna, e di quello che successe sul fronte russo che così capisco perché abbiamo quasi vinto una guerra ma non ci hanno riconosciuto che era vero.

Insomma parlateci d’altro che ormai di Ramses terzo sappiamo molto, uscite, dai luoghi comuni, estraete il midollo, lo facevano anche gli egiziani, date aria, non alle mummie ma al resto della storia dell’umanità che attende di essere messa in prima fila. E se proprio vi piace l’Egitto e i faraoni, tirate fuori qualcosa dalla sabbia e dalle decine di dinastie, che poi vengono ridotte a dieci nomi, fateci viaggiare nel tempo per davvero.

E per farlo, imparate dalla rete, parlateci di molto, ma senza criteri cronologici (?), che le vite non ci bastano per leggere ogni volta dall’inizio. Diteci dei vostri dubbi fondati, non spacciate per scienza il collage, il predigerito, stupiteci, fate confusione, appassionateci che le pareti ormai sono coperte di primi volumi.

Non fateci abbandonare la storia, guidateci nel dubbio, fateci capire quanto siamo ignoranti, che anche se lo sapessimo non ci gioverebbe per allargare la mente senza una grande curiosità.

Ecco, incuriositeci, e non vuotate i fondi di magazzino riempiendo a caro prezzo le nostre case. Mi ricordo ancora una serie di cd, con tanto di pubblicità dell’editore, su Glenn Gould, ad un prezzo esattamente il doppio di quello a cui li vendeva Feltrinelli. Poi si dice che la cultura non dà da mangiare, certo che lo fa, ma non a chi la frequenta, piuttosto a chi la usa.

Insomma cercate di essere nuovi e adeguati ed evitate la noia. La noia uccide tutto, anche voi.

di musica e d’altro

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Ascoltavo molta musica. Anche quella che inizialmente sembrava difficile e non mi piaceva. Applicavo alla musica gli stessi criteri della lettura, leggevo qualsiasi cosa e dove non capivo, rileggevo, più volte finché mi sembrava di aver compreso, oppure cercavo altrove scomponendo ciò che sfuggiva. A lungo, con caparbietà, prima di arrendermi. Ascoltavo dovunque. Avevo l’abbonamento alle stagioni concertistiche, ma questo era solo l’evento eccezionale, nel frattempo c’era la radio, i dischi, i nastri, le prime cassette.

Poiché la musica mi provocava emozioni forti, non mi opponevo, e abbandonandomi cercavo di capire cosa agitasse la gioia o la tristezza che provavo, da dove venisse quel momentaneo senso di pienezza che mi faceva muovere le braccia e cantare a voce alta. A volte dopo aver provato sensazioni forti mi sentivo caricato, pieno di energia, altre svuotato, come ci fosse un’ assenza disperante e senza nome.

Cantare le canzoni, la musica che ci stava attorno, era quasi naturale, mi ero lasciato travolgere dalla mescolanza del testo e della melodia quando avevo capito che si potenziavano assieme. Non capivo nulla o quasi di musica, mi aiutava l’orecchio. L’adolescenza aveva fatto il resto: con la musica si socializzava o ci si separava. La musica classica era stata una scoperta personale, quasi un atteggiamento finito male, perché poi l’oggetto mi aveva preso. E sembrava pure di facile ascolto questa musica così piena di suono, di colore, densa e a suo modo naturale. Altre volte solenne, lunga, impervia e poi placida, comunque sempre sorprendente. Fosse la magniloquenza dell’organo, naturalmente ero partito da Bach, o la gioia della nona di Beethoven, oppure il barocco,  che scoprivo in Vivaldi, qualunque cosa fosse, la compitavo, e la riascoltavo fino ad assorbirla e sentirla dentro che suonava per suo conto e all’unisono con me. Compitare e memorizzare vanno assieme, riconoscevo gli stili, azzardavo. Nella mia ignoranza, mai migliorata col tempo, pensavo per blocchi, ascoltavo per collocare e discernere. Mi sembrava che inzialmente, nel barocco in particolare, le contaminazioni fossero tante e che la brillantezza o il colore scuro appartenesse prima al luogo che al compositore. Cominciai a pormi il problema degli esecutori più tardi, perché sentivo differenze grandi sulle stesse note e non era solo questione di tempi di esecuzione o di registrazione, qualcuno mi sembrava più bravo di un altro, ma non ne sapevo il motivo. Come un rompighiaccio procedevo, l’ignoranza restava, acquisivo nozioni e il mare anziché restringersi diventava più vasto. Mi mancava la teoria, le basi che avevo erano talmente vaghe e consegnate alle esperienze di canto corale, che non ne vedevo alcuna utilità. Certo conoscevo qualcosa di gregoriano, qualche nozione di base di notazione musicale, ma non seguivo uno spartito, se non ascoltandolo con la musica. La carta non mi suonava dentro. Eppure capivo che era questione di lessico, anzi di lettura. Se nella mia ignoranza grammaticale comunque riuscivo a leggere cose strane e difficili (almeno per me lo erano) e assorbirne significato e musicalità, mi illudevo che lo stesso funzionasse nel linguaggio musicale, ma in realtà non era così perché mentre scrivere era relativamente facile, tradurre in note quello che mi passava per la testa era impossibile. Comunque continuavo la mia esplorazione, naturalmente erano i brani più popolari, però in un insieme di rimandi e collegamenti finivo in altre epoche, stili, generi, autori, interpreti. Un’autentica scoperta fu la musica medioevale, a cui arrivai attraverso Respighi.

Questa piccola passione un po’ mi allontanava dalla musica dei miei coetanei, anche se continuavo ad ascoltare canzoni, a cantarle da solo e in compagnia. L’altra musica era però una scelta personale e solitaria. Un poco me ne vergognavo, quasi mi stessi collocando fuori dalla mia età sociale. Non riuscivo a parlare delle emozioni che provavo, era un fatto privato come leggere certi libri, fare certi pensieri, scrivere certe cose.  Credo che questa modalità di ascolto e di ricerca, facilitasse un isolamento e una riflessione personale e siccome la musica, come tutto il resto la trattavo a sensazione, lasciandomi prendere, ne accettavo una sorta di potere, di magia su di me, per cui le attribuivo capacità terapeutiche.

Mi si era formato in testa un pensiero: la musica ti salverà. E da cosa mi avrebbe salvato, lo identificavo nella fatica di crescere, nella difficoltà di comunicare le proprie emozioni agli amici (la famiglia non serviva più per questo) e che erano più compagni di gioco o di scuola, che compagni di sentire. La musica mi avrebbe guidato nelle pulsioni nuove che sentivo, nella paura del disamore, avrebbe mitigato ed esaltato in accordo con me. Insomma mi avrebbe tolto in maniera assolutamente singolare dalla solitudine.

Poi, ma fu molto dopo, ho capito che qualsiasi cosa ci risuoni dentro, sia essa una melodia, o dei versi, o un pensiero che legge ciò che sentiamo, sono ausilii che ci vengono donati. Siamo noi che ci riconosciamo in un gioco di specchi e così noi soli ci possiamo salvare. Ma se portiamo con noi la capacità di riconoscere la bellezza, allora le boe, le zattere, le navi con cui percorriamo i nostri mari sono strumenti che ci vengono donati da altri inconsapevoli amici, che ci fanno sentire meno soli anche se la fatica di andare nella vita, è nostra. Ho capito anche che ci salveremo lasciandoci andare a noi, riconoscendo le nostre ferite e lasciando che guariscano, pur permettendo che ciò che ci appassiona lenisca. E questo perché ci è dovuto e siamo importanti a noi.

Con parole che ora mi sembrano troppo tronfie per qualcosa che è semplice, penso sia importante che nella ricerca costante di amore ci sia una colonna sonora, che parole efficaci ci accompagnino, ma poi spetterà a noi trovare strada. Insomma essere forti e ripetersi: in dulci jubilo come fosse davvero rivolto a noi.

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Mi ricordo bene quando l’ansia di provare era forte, quando tutto era a disposizione e tutto meritava d’essere assaggiato. Mi sembrava che essere coincidesse con esserci, che sentire fosse qualcosa di fugace come la felicità, anzi che sentire spesso coincidesse con l’essere felice. È durata molto a lungo questa sensazione e motivava la corsa senza fine. A volte mi trovavo stremato da continue sensazioni, sembrava che il tempo non fosse mai sufficiente, che ciò che non provavo sarebbe stato definitivamente perduto.

Qui ci si potrebbe aspettare una conclusione, ovvero quando è cambiato tutto ciò. In realtà questo non lo so dire, forse neppure è cambiato, solo capisco meglio cosa vale la pena di provare. E non è accaduto per assuefazione, non mi sento di essere diverso, ossia lo sono ma non per qualche motivo che non sia la naturale evoluzione del mio vivere, che tutto sommato non è granché differente negli anni. Non sono particolarmente stanco, annoiato e neppure ho smesso di sentire, anzi direi che ho raffinato questa capacità, forse quello che è mutato è il rapporto con il tempo. Ho sempre pensato che c’era tempo, non poteva essere diversamente perché la spinta a fare non poteva mai esaurire tutto ed ero incapace di mettere da parte ciò che non era possibile in quel momento, volevo tutto. Però era un tempo ansioso, dove tutto accadeva in fretta, mentre ora c’è calma e il tempo è cosa mia.

La mia vita è così, le persone hanno sempre da dirmi molto più di quanto dicano, e l’interesse per il profondo fa coincidere quello che provo con quello che mi porto dietro. Non è una collezione di sensazioni, ma un cammino dell’essere a cui donano molto alcune persone, non tutte consce di farlo, altre in misura minore, con una graduatoria, non del sentire, ma del condividere. E condivido senza mettere limiti di tempo. Non uso volentieri gli avverbi di tempo assoluti, i mai, i sempre, forse perché so che, molto spesso, questi rassicurano chi li pronuncia. Rinuncio a questa sicurezza perché ho fiducia in ciò che accadrà, ormai mi conosco un po’ e so che il mio essere fedele a ciò che sono/sento è una costante della mia vita.  In tutto questo gli assoluti non sono mai necessari, perché non sono come tu mi vuoi, ma come sono davvero e in quel sono ci sei anche tu. Anche nel mutare, nel pensare diversamente, ciò che conta non viene scartato e resta ben radicato per tenere solida la mia casa. Se mi chiedo chi sia la persona a cui devo essere più fedele, nel senso che a lei devo moltissimo e concludo che sono io stesso e questo aiuta a porsi in verità, come si è. Alcuni lo capiscono come un prendere o lasciare, se si fermano a questo, hanno ragione, se invece hanno tempo e voglia di mettere in comune qualcosa di consistente allora inizia la comunicazione vera. E comunicare non ci lascia mai come si era all’inizio. A cosa si riferisce allora, la fedeltà a sé, semplicemente a quello che si sente come propria essenza, il rifiuto delle mode, delle cose troppo facili, delle ingerenze, del mercimonio del proprio modo di pensare in cambio di qualcosa, foss’anche un piacere. Se si capisce che noi valiamo a noi stessi, la fedeltà a sé è naturale, anzi solo quella è possibile e ci salva.

una sola vita non ci basta

Una sola vita non ci basta, chissà se è per questo che la inzeppiamo di sensazioni, di parole, di gesti, di cose. Distrazioni, qualcuno afferma, ma da cosa, da chi? Non è forse un modo per metterci in colpa rispetto all’efficienza che dovrebbe occultare un fatto semplice: una sola vita non ci basta.

Non ci basta per correggere le svolte che ci hanno portato nei vicoli, però una vita diritta non ci piacerebbe. Non ci basta una vita per respirare tutta l’aria che vorremmo, per vedere tutto ciò che desideriamo, per sentire tutto quello che pare meraviglia e a volte lo è davvero. Sembra non ci basti il tempo, ed è l’unica cosa che invece c’è sempre a sufficienza, ciò che spesso manca è la voglia di viverlo. Quanta noia ho usato per consumarlo? Eppure anche la noia aveva molto da dirmi, l’ho negletta solo perché era priva di fare, perché generava sensi di colpa per ciò che trascuravo, perché riportava a quel punto in cui si guarda davvero ciò che sta attorno e non se ne vede il senso. Così pensando di non avere tempo ho eliminato dal sentire positivo, la noia, l’ho confusa con l’accidia e ho pensato fossero peccati contro me. Non era vero, ma questo dipendeva dal fatto che avevo una sola vita e le cose da fare, da sentire e da vedere sembravano davvero infinite.

E ho voluto pure tenermi i ricordi, ciò che mi ha scaldato, colpito, cambiato, ho voluto tenerli per riconoscermi ogni giorno, per ricordarmi che ho vissuto, per capire che la vita, era un unico flusso e ciò che avrei provato non avrebbe assomigliato a nulla che già conoscevo. Ma non c’era fretta, c’era tempo, lo dimostravano le tante cose fatte e vissute e gli anni di cui non ricordavo nulla, o quasi, le lunghe teorie di false ricorrenze, ciò che era stato senza lasciar traccia.

Il tempo è circolare, come l’amore che è curvo, si avvolge ed attorciglia, mette assieme pelle e pensieri. L’hai mai pensato? E così genera passione, voglia che le cose tornino, ma sempre differenti, con il vago sentore di ciò che sarà e spinge a provare, ma sempre nuovo nel curvarsi assieme nell’abbraccio. Potrei dire che la passione è multivariata, che ha equazioni che tentano di descriverla e poi si arrendono abbandonandosi nel piacere del sentire. E’ il conflitto tra razionalità, limite e ciò che sconfina e dilaga. L’amore ha bisogno di matematiche nuove perché è semplice, e quando lo si racchiude in una formula, si ribella e deperisce.  Quindi i percorsi lineari saranno pure rapidi ed efficienti, ma quanto perdono per strada, se perdono l’amore, i sentimenti. Alcuni li sostituiscono con il provare e il sentire. E’ un modo per sentirsi vivi, riempire gli spazi contro la domanda che assale: cosa sto perdendo se la vita è una sola? La mia risposta è curvare il tempo, togliere l’ansia di ciò che verrà e camminarci verso, anche se vorrei che le vite si moltiplicassero. Così vivo quella che ho a disposizione come se ci fosse sempre tempo per fare ciò che desidero. Ogni mattina vedo la giornata che si apre, annuso il primo caffè, mi lascio prendere da ciò che sollecita, da un pensiero che intenerisce, accolgo una piccola felicità. E’ una giornata, è mia e di chi la condividerà con me. Una giornata che si riempirà seguendo percorsi curvilinei mentre procedo, torno, in realtà mai fermo.

Mancano le vite che spengo per seguire quella che procede. Ma non le perdo del tutto, le cerco sui libri, nelle storie che immagino, capisco che per bulimia del vivere, servirebbero più vite, non per sbagliare di meno.

porta ticinese

Parecchi anni fa frequentavo, a Milano, una trattoria a porta Ticinese. Vecchi camerieri, piedi piatti e passo strascicato, foto autografate di personaggi che ormai non dicevano più nulla a nessuno, legno alle pareti e mattonelle per terra. Segni di un qualche momento di gloria, quando le trattorie qualcosa significavano nella vita e ne facevano, rara, ma consolidata parte. Allora il mangiare in trattoria aveva due significati: la festa, l’eccezione, oppure la solitudine di chi non aveva nessuno a casa. Anche ora ho amici che descrivono come un’impresa il riuscire a prepararsi da mangiare, che hanno vite, specie dopo le separazioni, di trattorie ovunque e comunque. Vite in grado di competere con il gambero rosso per conoscenza diretta e che tra piatti e conti, nascondono l’incapacità di star soli a cena.

Mi piaceva quel posto, la sera ci arrivavo da un corso oppure dall’albergo, quasi mai da solo e con non poca allegria preventiva. Il posto metteva di buon umore. Mi piacevano le tovaglie pulite, di cotone pesante, a volte di lini antichi e un po’ lisi, le stoviglie retrò e le posate pesanti. Mi piacevano i consigli del cameriere, la cucina commentata, milanese e toscana, la cassoela, i pici. Mi piaceva il parlarsi tra tavoli, i cappotti appesi alle pareti, il fiasco di chianti al consumo, la scelta di pane tra quello con il sale e quello sciapo.

Nell’angolo, tra pareti rivestite di legno e fotografie, c’era un tavolino singolo. Non era l’unico, ma lì ho sempre visto il ragioniere. Cenava con il cappotto addosso e il Borsalino grigio sulla sedia. D’estate aveva un gessato e una cravatta con il nodo troppo stretto per essere fatto di fresco. Ordinava a monosillabi, alzando un sopra ciglio o un dito, non i piatti ordinava, ma una sequenza. Le pietanze erano sul suo menù personale, dove c’era solo l’estate e l’inverno. D’inverno un brodo di pollo, con pastina sottile, consolatoria, poi le patate lesse o il purè e la costatina. Ben cotta. D’estate, un minestrone e gli stessi secondi. A volte un insalata o un pollo lesso. Un bicchiere di vino rosso, il caffè. Sempre solo. In mezz’ora mangiava, cinque minuti per pulire i denti e poi si alzava, salutando con un bnsera e usciva. Il mercoledì arrivava più tardi. C’era il varietà, e al ragioniere piacevano le ballerine. Il cameriere faceva sempre la stessa domanda e otteneva sempre la stessa risposta. Sorridevano entrambi.

Un anno, ero lì l’antivigilia di natale, guance arrossate dall’aria precedente e dal chianti, a mangiare verze e cotechino e ridere parecchio, quando entrò un’orchestrina di fiati. Suonavano canzoni natalizie con tromba, trombone e bassotuba. Uno strepito incredibile nell’ambiente ridotto e pieno di persone. A me la cosa mise un’allegria irrefrenabile, e così a chi mi accompagnava, ma credo a tutta la sala perché gli occhi e i commenti si scambiavano ridendo, ad alta voce. Tutti ci affrettammo a dare mance generose perché la smettessero e loro, i musicisti, ringraziavano, accennavano a qualche bis di ringraziamento, finché ci fu uno scambiare di sfottò e accenni di note in risposta in un’allegria generale. Solo il ragioniere era rimasto imperturbabile. Mangiava il suo brodo e alzava appena gli occhi, poi rivolgendosi al vuoto disse distintamente: ma come l’è, di nuovo il natale? E ridacchiò.

Ecco, allora ho capito che la mia solitudine era un lusso.

bricole

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Vi guardo uno per uno attorno al tavolo. Fisso le espressioni nella mente, come in una fotografia. Siamo un gruppo d’amici che mangiano assieme, abbiamo appena visto un film, ci conosciamo. Forse la parola conoscersi è superficiale, meglio sarebbe usare il riconoscersi, non ci conosciamo davvero ma ci riconosciamo, nel senso che qualcosa di profondo di ciascuno è tenuto in noi. In me.

Guardo i volti. Le espressioni intente oppure svagate, a volte assenti.  Qualcuna/o sta pensando ad altro. Incrocio gli occhi, insisto, ottengo un sorriso e uno scuotere di capelli interrogativo. Ascolto brani di discorsi che s’intersecano: si parla di politica, di cinema, di scienza, di cose lette da poco. anche di vita quotidiana, disavventure, fatterelli a dimostrazione di qualcosa. Mi perdo in questo dentro/fuori. Il clima è bello, le candele, il cibo e il vino buoni, c’è molto calore. Mi chiedo se sarà così per i prossimi anni o addirittura migliorerà. Quali cose e pensieri ci terranno assieme, come invecchieremo legando la gioventù, quello in cui abbiamo creduto, con quello che succede. Aver avuto pezzi comuni di vita ha giovato, ma non è stato così essenziale, parecchi dei presenti li conosco da non molto. Ma forse, pur distanti, l’aver condiviso sogni comuni, modi netti di pensare, ideologie ha esaltato la necessità di un insieme in cui convivessero le differenze. In fondo è un riconoscersi oltre le storie personali questo ritrovarsi assieme. E ci esploriamo, pur sapendo spesso quello che ciascuno dirà, interessa la differenza, il modo di vedere che ci colloca assieme da una parte della balconata della vita e il guardare condiviso e non coincidente. E’ così che s’invecchia? Provando noia e attrazione reciproca e nel non poterne fare a meno?

Siamo tutti diversi da come eravamo un tempo, uomini e donne. Il fatto di essere qui, assieme, è indice di qualcosa che ha cucito oltre gli accadimenti. E infatti altri mancano. Si sono rinchiusi nelle case o in altri cerchi d’amicizie estranee, chissà cos’è accaduto e perché. Se lo sapessi avrei il segreto di ciò che resta e ciò che se ne va, ma quello forse non è un segreto, è un’evidenza che non si vuol vedere. Nei discorsi, stranamente, affiora il tema del permanere oltre le separazioni, come se con gli anni non si volesse cancellare più nulla e ciò che ci serve è sapere che chi è stato, semplicemente non c’è, ma ancora conta.

Guardo i volti uno a uno, imprimo il momento e ciò che accade, chi parla, chi ascolta, chi è altrove, mi pare che così nasca un ricordo che importa, che resterà. Scorre tutto così in fretta che i momenti in cui il tempo rallenta e non è eguale, sono bricole a cui attaccare la barca. Poi si ricomincia a remare piano.  

gli storti con la panna

Da novembre fino a febbraio, c’era la possibilità di ricevere un dono improvviso. Era un moto di golosità di mia madre o un capriccio di mia nonna: mi prendevano per mano e mi dicevano: ‘ndemo a tore i storti (andiamo a prendere gli storti). Erano gli storti con la panna, cialde croccanti avvolte a cono da immergere nella panna montata, e da consumare in casa nel pomeriggio della domenica, oppure, ai tavolini, ben tovagliati, del gran caffè Sommariva. Anche se dovevo star fermo mi piaceva il caffè, con il suo caldo e il brusio alto di voci mescolate, le vetrine appannate che davano sul corso, il parlottare, ridere, fumare, tutto mescolato. Guardavo appoggiare le schiene sulle seggiole, come per meditare qualcosa e poi scattare verso l’interlocutrice per riprendere. Una grande varietà d’uomini e donne, nell’atmosfera calda, il vapore delle macchine per il caffè, il fumo degli uomini e delle ragazze. Come un respirare sincopato singolo e collettivo che si separava in momentanea comunità dal fuori dai vetri, dove le figure si distinguevano appena. Ed era tutto un entrare, uscire fatto di cappotti bordeaux, neri, blu, qualche rara pelliccia, trionfi di spinati, marroni e grigi per gli uomini. E lobbie, guanti, tra incedere frettolosi o veloci determinati dal freddo più che dalla voglia di sostare o tirar via innanzi alle vetrine sfavillanti dei dì di festa che stavano sul corso. Innocue esse, festa al vedere: i negozi erano chiusi, ma perniciose per i desideri che riuscivano a sollevare, per i buoni propositi, per le attese che avrebbero creato. E argomento di conversazione, estensione a ciò che accadeva nella città, confronto tra ricchi e poveri. Perché questa era l’essenza del discutere sociale, ovvero ciò che avevano i ricchi e ciò che avevano i poveri, lì dimostrato e possibile o impossibile. 

Di tutto questo capivo poco, per me la ricchezza era quella sorpresa inattesa della sera e così immergevo il primo storto croccante nella panna densissima e riempivo la bocca di dolcezza. E ancora, ancora, finché nella ciotola di vetro restavano solo le striature bianche, che non si dovevano raccogliere col dito perché non era creanza. Mica si mangiavano gli storti per fame, ma per piacere, e la sazietà che inducevano era solo un effetto collaterale. Dagli storti ho capito che il piacere dava sazietà e rompeva consuetudini, il pomeriggio della festa sarebbe stato allegro, la cena il di più distratto, che si poteva mascherare di inappetenza.  

Chi mi conosce sa la mia ammirazione grande per Kleiber, la gioia e l’autorevolezza che c’è nel suo gesto di direzione, mi affascinano come rappresentazione del vivere. E’ la competenza di chi non si dà oltre quanto vuole: sazietà ma alle regole di chi dona.