Il senso del tempo, allora, era fatto di secondi sminuzzati come coriandoli e di velocità. Con gli orologi delle prime comunioni dei più abbienti, venivano misurati tempi dove il mezzo secondo era un’opinione, come la distanza percorsa, ma chi aveva vinto era certo. Erano sempre scontri impari e c’era sempre un secondo che rincorreva e che era pieno di gloria se mancava di poco la vittoria. Ci sarebbe stata un’altra occasione, la teologia della speranza coincideva con quella del secondo, dello sconfitto di poco che mentre riconosceva il più forte affinava la volontà per un’altra volta.
E sempre emergeva, quel tempo meccanico e malfermo, che sembrava tutt’uno con una velocità ancora irrazionale, frutto di talento innato, senza allenamenti costanti, ma legata profondamente a quella gioia di correre che conosce ogni bambino. Quella velocità che spinge le gambe e chiede ansante una verifica numerica perché alla gioia è bello dare un numero, una misura anche se si sente che essa è nel gesto e pervade tutto ed è totale. La gioia del correre era la risposta a un bisogno prima di qualsiasi gioco o gara, era lo scaricare sul terreno, nel movimento più o meno coordinato di gambe e braccia, la necessità di sentirsi veloci, di generare il vento. Era l’energia di quella scoperta recente, il corpo, che voleva uscire allegramente, trasformarsi in possibilità, forza, misura. E il sudore, la sensazione di fatica, la gola che bruciava d’aria nel correre, erano in quei numeri, senza correlazione certa, che qualcuno diceva: cento metri (ma erano davvero cento oppure novanta o cento e cinque? ) in 13 secondi e 5. Quel tempo così preciso diventava il desiderio di possederlo, di poter misurare la velocità di sé e di qualsiasi altra cosa e avere un cronometro fatto di lancette scattanti, pulsanti che fermavano l’istante, quadranti da interpretare, era un sogno. Il sogno di misurare il tempo, la velocità e quindi dominarlo e dominarla. Adesso gli strumenti di misura sono precisissimi, i nostri erano adeguati più ai minuti che ai secondi e bisognosi di frequenti allineamenti ai segnali orari dell’istituto Galileo Ferraris di Torino che li trasmetteva per radio. Oggi è l’oscillazione di qualche atomo trasmessa da un centro di ricerca tedesco regola simmetricamente gli orologi in tutto il mondo. E adesso che la velocità di due gambette impastate di sudore e polvere sarebbe traguardabile in un oggetto da polso o da tasca in modo precisissimo, non interessa più a nessuno. I ragazzini si mostrano telefonini, giochi, conversazioni, foto, ma avere un orologio che misura la velocità non gli interessa più. Corrono perché qualcuno glielo dice, guardano le olimpiadi e il tempo è un’app.
Per un analogico, quale io sono, che insinua l’errore nella misura, c’è la sensazione che il tempo non sia lo stesso, che sia mutato con gli anni e che nessun desiderio o soddisfazione , possa racchiuderlo. Così vado con tenerezza al ricordo di quel: prontiii, via! Il primo, strascicato per racchiudere tutta l’attenzione e il cuore e il secondo, secco, che per dare inequivocabile inizio a corsa e tempo. E allora le scarpe superga in tela e para, cominciavano a percuotere il terreno, magari non facevano arrivare primo ma riempivano di una gioia istantanea che dai piedi arrivava ai ricci e alla fronte sudata. Si era corso, anzitutto, e il tempo sarebbe diventato più corto domani, dopodomani, chissà quando, ma l’importante era gioiosamente, in modo scalmanato, correre.
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albaro fa omo
Visto dall’alto di quell’albero storto, sotto c’era un groviglio, una pazza matassa di maglie colorate, di calzoncini corti, di braccia, di gambe, di corpi sotto teste sudate, ricciute, lisce, rapate. Era un gomitolo di membra che si aggregava e disfaceva e che emetteva solo tre parole: passa, damea, tira. Tutte urlate assieme, confuse nella polvere sollevata da pedate che prendevano terra e stinchi, indecise sull’amico e il nemico, vogliose di quella palla da colpire e gettare avanti. E quella palla, improvvisamente, sbucava dalla selva di gambette, di spinte, di braccia e allora, sempre visto dall’alto, il groviglio diventava un serpente vociante, con scaglie cangianti di maglioni e camicie, un serpente con una testa appena un po’ più grossa, che si spintonava e si sentiva inseguita da quel corpo incalzante di voci e di piedi.
L’albero fa omo. Era quello da cui avremmo dovuto guardare in basso, un pino marittimo grandissimo e piegato di lato, sopravvissuto, lui, al bombardamento del ’44 che aveva polverizzato almeno dieci pagine di storia dell’arte. E anche quella volta era stato giocatore, mentre attorno gli cadevano pietre dipinte, volavano scaglie del colore inenarrabile di Mantegna, pezzi d’angeli del Guariento, il bronzo delle campane, i marmi delle statue. Aveva fatto omo, sponda, finché la polvere s’era posata e la rovina era apparsa, totale.
Ma l’albero stava adesso giocando, col serpente. E questo dava pedate all’albero, alla palla, alla polvere, al marmo che affiorava, mentre si svolgeva dal groppo di spire, ricomponendosi in linea, in un eroico andare verso una porta dipinta su un muro. Un segno bianco che percorreva la porta antica murata della cappella e lì, tra quelle linee, in attesa, c’era un campione immobile e silente, il portiere, la mangusta che sola avrebbe potuto sconfiggere il serpente, ora diventato biscia sottile con un maglione rosso zuppo di sudore e due gambe marroni di polvere. Tra queste c’era la palla conquistata e dietro la corsa vana dei difensori . Una questione a due, e quelle gambette irte di ferite recenti caricarono rabbia e ingegno da trasmettere alla palla. Partì la pedata, forte, tesa, e insieme alla palla, anche la scarpa di tela Superga sdrucita. La palla veloce puntava verso un angolo della porta e la scarpa sull’altro. Il portiere mangusta si tuffò nella polvere e parò.
La scarpa.
Allora il serpente, che s’era fermato, ammutolì guardando incredulo la sua testa saltellante e il portiere a terra con la scarpa tra le mani, e poi scoppiò in un boato di urla e risate, che di certo arrestò le preghiere delle beghine impegnate nel vespro.
Io non lo sapevo ma avevo imparato cos’era una risata omerica.
buona festa della repubblica

Possedevo una collezione di cartoline. Erano centinaia e centinaia, formato 15 x 10 , in bianco e nero, alcune colorate a mano, quelle recenti a colori. Le tenevo tutte diligentemente in tre scatole da scarpe, conservate nel mio mobile dei tesori, in soffitta. E lì rimasero in un trasloco poco attento.
Per costituire la raccolta, conservavo quelle che arrivavano in famiglia, ma la maggior parte le ricevevo in regalo da chi eliminava ricordi o raccoglieva i francobolli e lasciava il resto. Erano per me la scoperta familiare del mondo, le ordinavo per Paese e per città. Qualche volta, con un epidoscopio, le proiettavo sul muro e guardavo ingranditi, i luoghi immobili, le persone fissate in pose attonite o indifferenti, le fogge d’ abiti e le insegne fuori moda. Le città erano fatte di piazze con statue e caffè, molti Garibaldi e Vittorio Emanuele 2°, tavolini con tovaglie e camerieri in frac, e avventori distratti. Oppure erano chiese, palazzi, presi di mezzogiorno o di notte, quasi sempre vuoti di presenze. Molte terme e file di persone schifate con grandi bicchieri d’acqua in mano. Altre ancora, erano cartoline folcloristiche con donne e uomini in posa nei costumi tradizionali. Il Vesuvio fumava, la curva del Golfo era presa da un angolo che doveva avere un punto geodetico vista la costanza dell’arco. Il mare ovunque fosse, aveva tramonti o albe costanti. Le montagne, a parte qualche appenninica confusione di rocce e bosco, erano scabre: molte tre torri di Lavaredo , oppure le grandi vette del Bianco e del Cervino sbalzate contro il cielo nelle loro nevi immense. Quelle spedite durante il ventennio avevano piazze con edifici squadrati decorati da fasci di marmo e statue del duce. Erano foto di poste, prefetture, case del fascio, in un biancore metafisico che svuotava l’idea che ci fossero state persone attorno. Non poche, durante quegli anni, venivano dalle città nuove dei territori di bonifica: i veneti scrivevano ai parenti rimasti in Veneto. C’erano anche quelle delle colonie che, Asmara a parte, avevano sempre indigeni allampanati con lance e un tucul sullo sfondo. Qualcuna osè mostrava ragazze giovani col seno nudo (a me sembravano bellissime) con un commento allusivo alle libertà sessuali dello scrivente. Venezia era fatta del palazzo Ducale, san Marco, Rialto e la Salute. Torino era la Mole e Palazzo Madama, Milano il Duomo e la Galleria. Firenze, palazzo Vecchio, il David, ponte Vecchio prima della cura. Roma, rigorosamente san Pietro, che in un paio di cartoline facevo fatica a riconoscere in quanto scattate prima dell’apertura di via della Conciliazione. New York aveva la statua della Libertà, il ponte di Brooklyn, e con Chicago condivideva i grattacieli. Era una iconografia talmente codificata che sembrava uscisse da un libro di geografia. Ma a me sembrava un mondo più vero di quello dei libri, perché qualcuno era partito, aveva visto e spedito una traccia che voleva far conoscere. Guardavo e vedevo città lontane, posti inusitati, due cartoline venivano persino da Tien tsin, la legazione italiana in Cina, ed erano di legno sottile, bamboo penso, senza fotografie e con dei disegni sfumati vagamente montani.
Immaginavo i luoghi e chi le aveva spedite. C’erano molti anni di cartoline, dalle prime ingiallite dell’inizio secolo, con molte stazioni e strutture di ferro, fino agli anni ’60. E non mi accontentavo di guardare le fotografie o i disegni, leggevo l’indirizzo, i nomi, le frasi. Le parole si ripetevano, da quelle formali, più antiche che davano del lei, rassicuravano sulla salute e sull’affetto in corso a quelle più confidenziali e recenti, che parlavano di pensieri inusuali (il tanto si ripeteva molto), di abbracci, di desideri (vorrei tu fossi qui), di baci non meglio specificati. C’erano gli auguri, qualche notizia sul tempo o sulla città (di solito bella o bellissima), notizie sui parenti visitati, sul cibo sempre abbondante, sul clima. Molte, le più recenti, avevano i soli saluti e la firma. Le calligrafie mutavano negli anni e diventavano più appuntite, meno panciute e accurate, non di rado all’inizio, c’erano firme malferme che nel tempo si erano mutate in geroglifici. C’erano cartoline di emigranti in sud America e negli Stati Uniti, che raccontavano della voglia di incontrarsi e chiedevano notizie.
Fino al 1945, gran parte delle cartoline erano firmate da uomini, oppure da coppie. Erano rare quelle con firme femminili e comunque erano indirizzate sempre a famiglie o altre donne. Insomma le ragazze della mia raccolta, viaggiavano accompagnate, oppure non scrivevano. Immaginavo viaggi e luoghi prevalentemente maschili, avventure di cui però, non riuscivo a percepire le modalità perché non sapevo come si muovessero per davvero. Qui non serviva Salgari, questa era la normalità eccezionale del viaggiare d’allora: c’erano navi, treni, corriere, ma cosa avvenisse durante quei viaggi non lo diceva nessuno. Così mi facevo raccontare. In famiglia si era viaggiato parecchio per lavoro, così emergevano disagi, tempi lunghi, orari molto precari. Capivo però che non era quello che capitava alle mie cartoline. Dovetti leggere per capire di più e per connettere il senso delle frasi che leggevo con le vite. Studiare sociologia mi ha aiutato a ripensare a quel mondo che si muoveva con relativa difficoltà e per il quale ogni viaggio era una cosa singolare da testimoniare. Parecchi anni dopo capii anche perché luoghi, grafie e messaggi erano mutati. Più stringati, più liberi di dire, più frequenti per le mete di vacanza vera, il mare, la montagna. Senza più alcuna restrizione sul destinatario, con allusioni più esplicite al rapporto affettuoso tra chi scriveva e chi riceveva. Dall’Italia Umbertina, si era passati attraverso il fascismo (spesso le cartoline del ventennio riportavano accanto alla data, l’indicazione in numeri romani dell’anno fascista, qualcuna i saluti fascisti), poi nella Repubblica. Le donne e gli uomini avevano cambiato le loro possibilità di movimento, erano più liberi. E cambiavano i soggetti delle fotografie, meno monumenti e più luoghi di vacanza. Insomma si era messa in moto l’Italia e lo scriveva attraverso una cartolina che testimoniava una possibilità, una libertà e non più una necessità.
Non so perché mi sia venuto in mente questo collegamento, ma credo che la festa di oggi c’entri: buona festa della Repubblica a tutti.
l’imperturbabilità del ragno
Per casa girava una correntina fresca. Bassa, a livello pavimento, pian piano raffreddava piedi e caviglie. Tutte le finestre erano sin troppo chiuse, quindi il tutto doveva derivare da quei pertugi, aperti per sicurezza in cucina ad evitare accumuli di gas. Oppure da quella piccola lama d’aria sotto l’ingresso. O ancora, dagli sfiati dei bagni e del fornello. Oppure erano tutti assieme che si parlavano con l’aria, che comunicavano linguaggi misteriosi di molecole, che allegramente si facevano gli affari loro. Che stessero dentro o fuori. Mi sembrava una libertà eccessiva, e a me preclusa, in quanto ben educato, d’inverno non stavo sull’uscio a parlare, ma limitavo al minimo la permanenza nel limite, i convenevoli, anche le affettuosità di saluto.
Loro, i pertugi, invece stavano indecisi. Anzi vivevano d’indecisione. Parlavano attraverso essa, cogliendo dell’uno e dell’altro stato. Poi, i più ciarlieri, o dispettosi, adattati dai diametri, diventavano dei tubi Venturi e acceleravano il moto d’aria fino a generare quella lama costante, pur piacevole d’estate, che d’inverno raffreddava caviglie e piedi. Solo quelli, ma l’effetto invadeva il corpo e spingeva a mettere calzini più pesanti. Inutili dopo un primo effetto barriera. Considerata l’ineluttabilità della cosa, assieme all’alzare le estremità, l’assumere pose accoccolate, o orientaleggianti, oppure tornare il ragazzino che privo di voglia di fare i compiti, si dimenava sulla sedia, raccoglieva le gambe, ci si sedeva sopra, e poi si spostava e s’allungava, in un moto che cercava nei gesti la voglia che non c’era e che pertanto mai sarebbe giunta, nonostante tutte queste manovre, dicevo, il pensiero che quell’aria scambiata contenesse un codice d’ una comunicazione mi affascinava. Perché di certo era così, quell’aria mossa e appena fresca era intrisa di significati, e parte di quel misterioso di cui vediamo solo gli effetti, e cogliamo magari un piccolo sollievo o fastidio, ma di cui ci sfugge totalmente la meccanica e la vera essenza che ci sta sotto. Pollini, microscopiche bestiole, granelli di polvere, gas, profumi, ferormoni primaverili, molecole di carbonio e d’azoto, ossigeno in più forme molecolari, fino a micro spray di vapore e oli, quindi acidi grassi e probabilmente basi e chissà quanto d’altro, si scambiavano informazioni indifferenti o interessate. Eh sì, perché sia pure in piccolissima parte, qualcosa si combinava in nuove molecole, qualche esercito d’ acarucci mangiava polvere e residui organici, qualche ossigeno instabile per i temporali di marzo o per l’eccesso di gas di scarico, trovava nell’aria quieta di casa, modo d’accoppiarsi, di mutare stato. E se anche la temperatura s’abbassava di quel tanto, e solo a livello pavimento, da far sentire i suoi effetti, chissà cos’era accaduto al moto dei gas, alle molecole stanziali e pacifiche come me, alla termodinamica generale della casa. E la mia era una casa moderna, con infissi nuovi, ché in altri tempi ben diverso sarebbe stato l’effetto e soprattutto lo scambio.
Ragionare sui modi del comunicare non formale, partendo dai piedi, non era proprio un elegante esercizio di pensiero, e il pensiero che Dickens scrivesse a letto i suoi primi capolavori, attanagliato da spifferi e gelo londinese, di certo non lo nobilitava anzi dimostrava le vite parallele e indifferenti del genio e dell’ambiente. E non essendo il mio caso il primo, ciò mi portava a considerare che i pensieri inutili erano una pigra percezione di quel gps che possediamo tutti e che dovrebbe dirci, oltre al dove siamo, chi siamo davvero, con la divertita autoironica percezione del proprio limite. Poi lo sguardo era corso a quell’angolo vicino alla trave, dove un modellino di biplano sembrava oscillare appena. Ma era un’impressione. E lì c’era una ragnatela, piccola e perfetta, immagino sfuggita alle attenzioni delle pulizie per la fragilità dell’oggetto. E nella ragnatela, un piccolo ragnetto imperturbabile, attendeva, e capiva che in quell’aria accadeva molto. Capiva e attendeva che qualcosa di sufficientemente grosso arrivasse nella sua rete. Non so quale livello di intelligenza abbia un ragno, ma per la sua capacità di attendere e di capire quanto accadeva attorno, di certo era maggiore della mia. E di certo non aveva i piedi freddi.
senza tema giovinezza
Ero giovane. Pensavo che in principio ci fosse l’equilibrio di una forza conchiusa in sé, l’ordine racchiuso in un guscio di noce, poi il caos e la fatica del ricomporlo. Non pareva una cosa foriera di autoritarismi, anzi, era un bell’esercizio di libertà. E mi sembrava di avere davvero un inizio a cui fare riferimento. Lo traducevo nello scrivere. Avere un inizio ordinato, forte ed equilibrato. Una frase che da sola riassumesse, senza insegnare nulla, era come aprire una porta per intuire e ragionare assieme. Tutto poggiava sulla solidità della logica e l’imprevedibilità dell’intuizione. Venivano fuori cose assolutamente banali: oggi c’è il sole e non è il solito sole, ho attorno un verde che scende dentro, dell’acqua non vorrei conoscere la memoria ma l’intuizione della sua benefica freschezza, la sete è un sentimento così atavico che saliviamo quando scorre un ruscello e della sete di conoscere che dire, se non la commozione davanti ad una biblioteca, e così via. Un inizio aperto in cui poi accadesse tutto: l’equilibrio dell’energia, la sua esplosione, la faticosa ricerca dei cocci.
Mi sembrava che tutto questo avesse un significato profondo, che interconnettesse tante cose apparentemente distanti, che fosse necessaria della pazienza e si sarebbe compreso tutto. O quasi. O almeno quello che davvero interessava. Ma, lo ripeto, ero giovane e la tentazione di un inizio fulminante era così seduttiva che alla fine ci cascavo. Cosi tutto poi doveva giustificare quell’inizio, essere all’altezza. Consequenziale. Non era così e allora mi stancavo, mettevo tutto da parte e mi affidavo a tempi migliori, a ispirazioni migliori, a intuizioni migliori.
La liberazione dal tema era già stata percorsa, in musica non esisteva più l’armonia, in pittura e scultura la figura e poi neppure la forma, due guerre mondiali e innumerevoli conflitti regionali avevano decostruito il senso benevolo della storia. Per questo anche la provvidenza era entrata nel welfare. Tutto si spezzettava ed era come fosse avvenuta quell’esplosione di cui bisognava rimettere in ordine i cocci. Solo che questi non avevano più un ordine. Era possibile un’era in cui si riscoprisse un senso, visto che erano i frammenti a contare?
Il momento era il dominus della situazione e non per carenza di tempo. Non era la preoccupazione sulla caducità del corpo e della vita che esprimeva il Magnifico, anzi era avvenuto un fatto strano, la giovinezza si spostava in avanti e, più che fuggire, trascinava tutto. Ma chi era al potere l’aveva gia capito: non era incapacità di guardare avanti, era volontà di perseguire il momento dicendo che faceva parte del progetto. Di fatto non si voleva rimettere assieme nulla, e togliere senso significava dare senso. Ma non era il tuo senso. Insomma non c’era un progetto, un traguardo di cui dire le tappe, gli obbiettivi, e soprattutto erano piu importanti le narrazioni della realta’ stessa. Quindi perché raccontare quando altri lo facevano tanto meglio di me? Per la verita? Ma io lavoravo sulle sensazioni, avevo bisogno di un tutto che le contenesse. E siccome non lo trovavo piu, mi misi a meditare sul quant’è bella giovinezza. Cosi mi scoprii vecchio per il prima e per l’adesso..
Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arïanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti;
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
sono allegri tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate;
ora insieme mescolate
suonon, canton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi,
oggi sìan, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi.
Ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun suoni, balli e canti,
arda di dolcezza il core:
non fatica, non dolore!
Ciò che ha esser, convien sia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
ragazzi di fatica
Le case delle maestre avevano facciate rigorose e solide, erano come il sapere, fatte per durare. Assomigliavano alle loro scuole, con soffitti alti, infissi scuri e tende pesanti e se non erano belle nei particolari, si riscattavano nelle proporzioni e nelle misure ampie dei portoni, nelle scale larghe, rigorosamente senza ascensori. Per aspera ad astra. Faceva bene far le scale, era parte di quella ginnastica povera e concreta delle scuole e arrivare col fiatone, incontrare, giusto il necessario, i vicini, scambiare convenevoli, gli esercizi di cortesia, e poi ciascuno nella sua casa, era parte dell’educazione al riserbo.
La lunga facciata guardava una strada larga, nata dopo l’unità d’Italia, nel 1875. Una strada che prima aveva occupato il canale dei Gesuiti, interrandolo e poi aveva lasciato spazio alla modernità della Ferrovia provinciale con la stazione di santa Sofia. Quindi le case erano sorte in un posto nuovo e ben servito, e pur dentro le mura del ‘300, erano aperte alla nuova linfa portata dal positivismo: accanto a piccole case d’artigiani, che conservavano tracce della città vecchia, l’edificio lungo e nuovo degli insegnanti era diventato una nave che si spingeva verso l’altro sapere, quello universitario, un baluardo della città nuova, del nuovo apprendere, della modernità. La facciata era il nuovo confine della città che cresceva e si rinnovava, quindi un fondale per la semplice ripetitività di motivi geometrici. Facevano eccezione per aggiunta d’importanza ai nuovi possessori, ch’erano alfieri d’un mondo di principi e d’eguaglianza fondata su censo e merito, di pochissimi terrazzini, che sancivano un privilegio da condividere. E pertanto, questi, erano condivisi, a cavallo di due appartamenti, ma erano tagliati a metà da elaborate divisioni di ferro battuto che finivano in punte acuminate, come ci fosse qualcosa da difendere da scale d’assedio visto che erano a sei metri d’altezza. In realtà erano solo le difese dai vicini, anche loro insegnanti e pari, ma dotati di bimbi molesti, chiassosi, scherzanti, male educati e incuranti della proprietà privata, un bene che il regno aveva ribadito ed esteso a loro attraverso cooperative e stipendi certi come la casa che abitavano. Non tutti erano insegnanti allo stesso modo e c’era una differenza tra chi figliava e chi si dedicava solo alla scuola, di fatto sposandola e investendo in essa tutta la forza educativa che veniva dalla missione del far apprendere e crescere i cittadini di una nuova Italia. Oltre l’impero austroungarico, oltre la Serenissima, il Regno era il nuovo e l’educazione elementare il suo apparato culturale di massa. Eppure se i maestri si fossero visti nelle case, com’erano davvero, avrebbero notato che quei ferri battuti, quelle punte acuminate, difendevano basilici e rosmarini, rose un po’ stentate, un sostegno per la bandiera, e qualche piccola cianfrusaglia in spazi davvero minuscoli, quindi nulla. Ma nel nuovo regno il privato era rimasto eguale all’impero, era nata una borghesia che era sì modernista in pubblico ma difendeva le sue abitudini e convinzioni, e con esse, piccoli tinelli e tappeti e mobili scuri e note di pianoforti verticali sempre al limite d’intonazione. E il pianoforte e l’enciclopedia erano uno status, che quasi tutti avevano e mostravano. E a volte suonavano (il pianoforte, naturalmente), facendo salotto prima che discussione. E come pesavano quei pianoforti, e posso dirlo per esperienza come pesa e come fa male portare su e giù pianoforti per scalini pepe e sale. Qui il Sommo soccorreva noi venuti tanto dopo, che ci facevamo risate allegre su quelle scale di graniglia, assoldati dal prete o da qualche padre d’amico che avevano ricevuto in eredità casa e oggetti. Così ebbi modo di conoscere i figli vecchi degli insegnanti dell’età umbertina. Di vedere salotti rigorosamente in velluto Bordeaux, i poggiatesta impreziositi di merletti di Burano, lampadari di ferro con i beccucci del gas adattati alle lampadine (sempre fioche, da 20 candele, foriere di generazioni di talpe per risparmio), e le grosse stufe di ghisa, le parisine, messe nell’angolo, per sicurezza, anche se c’erano immensi termosifoni del Silurificio di Napoli, perché non si sapeva mai con questi impianti moderni, vuoi mettere la sicurezza della legna e del carbon coke?
Le vecchie maestre ci chiamavano tosi o ragazzi (di fatica era sotto inteso), facchini non era appropriato, perche potevamo essere stati loro scolari. Ci offrivano cioccolatini dallo spiccato sapor di muffa, noi eravamo parchi e ben educati, sperando nell’intestino forte e che fossero solo delle regalie dell’anno prima. Però erano Streglio e La Torinese e superato il primissimo moto di rifiuto, una qualche attrazione l’avevano mantenuta, non sputavamo di nascosto, insomma.. Avevamo sempre fame e questo ci rendeva invincibili. Poi per chiederci qualche piccolo spostamento di mobile, le maestre ci facevano indossare pattine con feltro lucidante e allegramente pattinando su pavimenti in terrazzo veneziano, parquet di noce, mattonelle bianche e nere, sollevavamo ridendo, mobili pesantissimi, rischiando sempre la spaccata sugli strati di cera Fila, deposti con cura maniacale. Eravamo danzatori involontari e irriverenti, ma infine utili. Guardavo i libri rilegati, le edizioni Ricciardi di letteratura, una sontuosa copia dell’enciclopedia Pomba, le librerie invetriate, i cassettoni, i mobili scuri, le specchiere maculate, i tendaggi pesanti che filtravano aria e rumore di strada in una perenne sonnolenta, penombra. Guardavo, finivamo e passavamo al lavoro vero, negli appartamenti di quelli che erano stati i vicini. E portavamo giù per le scale cose identiche a quelle viste, sempre pesantissime, libri e mobili, attaccapanni e pianoforti.
Era l’estate, la stagione dei traslochi d’eredità ai parenti disattenti che volevano far cassa, dei lasciti alla parrocchia. Così finiva un’epoca, si svuotavano gli appartamenti pagati con mutui infiniti, le porte finestre venivano aperte e quei terrazzini ormai abitati solo da piante rinsecchite, rivelavano la prigione in cui erano state costruite le vite.
finestre aperte
Un tempo le case avevano le finestre aperte e serramenti precari. Spifferi ovunque. Non era meglio, solo che girava l’aria. Si fumava dappertutto, dalle cucine venivano vapori lunghi di bolliture, oleosi e lenti. Gli odori si mescolavano e così si apriva. La primavera cominciava così, con la finestra della cucina socchiusa tutto il giorno. Il vetro era sottile, 4 mm, semidoppio. Non capivo quella parola, perché semidoppio? L’accettavo, sembrava di entrare in un gergo da adulti, di conoscenze del fare che non avevano bisogno di troppe ragioni. Le cose avevano un nome e questo bastava. I figli dei professionisti e degli impiegati ignoravano tutto questo, era qualcosa che metteva ciascuno al suo posto. Fumare era da grandi. Sigarette forti per essere più adulti. Nazionali esportazione senza filtro, pacchetto verde, eccezionali, ma costose, più delle Alfa spaccapolmoni. Quando eravamo colpiti da improvvisa ricchezza: Gauloises (la libertà sempre, ci stava scritto sul pacchetto, bello no?) e Pall Mall. Tutto nature, senza schermi di filtri, tabacco, bocca, polmoni, espirazione. Accartocciare il pacchetto era il segno del vizio soddisfatto. Ne fumo un pacchetto e mezzo al giorno. Non era vero, al più quattro o cinque, ma faceva grandi. Poi vennero quelle fatte a mano, la pipa e il resto. Ma ormai ero grande davvero. La pipa era snob, con tabacchi dolci che piacevano alle ragazze. Poi le misture: Revelation, trinciato medio, un po’ di virginia (Virginia on my mind), bicchierino di brandy. Si fumava dappertutto, ma in casa di amici si chiedeva. Sembrava un bisogno, probabilmente non lo era perché è sparito. Si sapeva che faceva male, ma si era così giovani e con così tanta vita da vivere ancora… E poi si aprivano le finestre.
L’aria in primavera, da greve diventava fine. Si sentivano i profumi non gli odori. Mia madre metteva all’aria cappotti e coperte, si sbattevano molto i panni, polvere e acari dispersi. Odori di fumo e bacilli d’inverno, via tutto che l’aria risanava. Aria, tanta aria, e colori nuovi, pastello. Sentivo che il tempo passava perché crescevo, ma gli anni sembravano già ripetersi, l’autunno, la scuola, l’odore di carta e inchiostro, il profumo delle matite, la neve, le bufere di vento e pioggia contro quei vetri sottili, il vapore su cui scrivere, il natale, la befana, e poi tutto in discesa verso i colori e la luce. Era passato prossimo e remoto, assieme. E mia nonna, con un gesto antico, apriva la finestra vicino alla stufa economica, usciva il vapore, entrava l’aria che portava profumo di verde. In dialetto si diceva che ‘a sa xa de verde, sa già di verde, e il fatto che l’aria sapesse, avesse coscienza, era significativo, non portava solo, lei era già primavera.
Mio padre fumava, anch’io lo facevo nel mio piccolo, ma lui ancora non lo sapeva. O almeno faceva finta di non saperlo. C’erano rumori quieti che entravano dai cortili assieme all’aria. Col dito scrivevo sui vetri e tra le gocce, che s’ingrossavano scendendo, vedevo nella nuova trasparenza il verde dagli alberi che emergeva. E mi pareva che quello fosse un mondo da conservare, da tenere uguale per quando sarei tornato, stanco di corse, di luce, di sudore, di felicità momentanee, innominabili, senza predeterminazione. Immaginavo percorsi lontani, avventure, un futuro ricco di vita intensa e sconosciuta, ma c’era sempre un ritorno, un luogo dove stare, riposare, una felicità quieta e durevole, calda; anche nei suoni, anche negli odori di legno, di vapore, di casa, di primavera dai cortili. Lì sarei stato sempre tenuto come importante, prezioso. Questa era la cura, anche se ancora non lo sapevo.
l’odore della bachelite
Ho preso un vecchio Luxman analogico, l’ho collegato con un sintonizzatore Sanyo, di molti anni fa, con una sintonia a condensatore variabile e l’ago demoltiplicato che corre su una scala grigio verde azzurra illuminata, ho aggiunto un vecchio lettore di cd per musica che mi segue da 25 anni, lamentandosi appena un po’, infine due Kef per sentire e ho spento la luce. Così la magia si è compiuta. Un suono caldo, ricco di armoniche, si è diffuso con le Suites per Cello di Bach, e nel buio, lo strumento sembrava a un passo. Poi il piano di Ricter, la voce di Diana Krall, quella di Jessie Norman. Tutto così datato, ma preciso, brillante. E la memoria è corsa indietro, alla mia prima radio a valvole, una Minerva, all’odore di legno e di polvere scaldata che emanava, all’occhio magico verde della sintonia che mi sembrava quello di un rettile assonnato.
Non volevo ricordare per forza, è venuto. E così è riemerso l’odore della bachelite con cui facevano i condensatori, un odore di liquirizia tostata, acuto e fermo nell’aria, persistente. Forse esistono i sommelier del passato, quelli che, come si fa col vino, possono raccontare come si sono fusi i profumi, passando dalle vite attorno alle cose e dando loro un nome e un posto nella memoria. Chissà se ci sono, magari tra i vecchi antiquari, ci sono quelli che davvero sentono oltre l’oggetto, oppure tocca a noi e solo noi possiamo farlo. Chissà…
E intanto nel suono e nel buio, c’era anche la vecchia casa, un rumore tenue di cose che accadevano dietro porte di legno pieno, fessure di luce, presenze e profumi nel ricordo. Come fosse ora.
“piccoli maestri”
Oggi è iniziata a radio 3, la lettura ad alta voce dei Piccoli Maestri di Meneghello. Ho amato questo libro, e pure molto, per il contenuto, la scrittura, la lingua e per l’apparente semplicità. Sembrava mi parlasse direttamente, come accade tra amici nelle sere in compagnia, dove si cena e poi si racconta. Forse l’ho letto nel momento giusto, quando potevo capire, cambiare, sentire che c’era un senso a quel resistere prima, e al resistere poi, con molte mancanze e umanità. L’umanità è quella cosa che uno si sente addosso e che gli fa sentire gli altri oltre sé, è piena di sbagli, ma ha una direzione, è come se sapesse che qualcosa è giusto, e lo fa, ma senza forza o cattiveria, perché è quello che si deve fare anche se non si sa bene cosa ne verrà.
All’inizio Meneghello dice: non eravamo buoni a fare la guerra. E dirlo è un amore per la pace, non per la quiete, un fare quello che è giusto. Forse questo non lo capirono quando il libro venne pubblicato. C’era la retorica della Resistenza, che era rossa o non era. E anche per me era così, perché vedevo che i partigiani rossi non avevano fatto carriera, non occupavano i posti importanti dello Stato, non erano a capo delle aziende pubbliche, erano tornati a fare gli operai, i muratori, i contadini, oppure se facevano politica erano funzionari di partito, con la miseria sempre a un passo. Quindi chi aveva pagato di più non erano i borghesi, i professori, ma la povera gente e così mi pareva che la Resistenza degli altri fosse meno importante, meno resistenza perché non aveva in sé il riscatto, il cambiamento. E senza cambiamento, tutte quelle speranze erano state tradite. E si vedeva, oh sì che si vedeva, perché se c’era il miracolo economico, non erano poi cambiati i rapporti di forza tra chi aveva e chi non aveva. Con una testa così confusa, mi sembrava naturale parlare e sentire un tradimento della Resistenza, come cosa vera, ma anche di sentire la necessità di un riscatto, di un completamento oltre la retorica. Ma forse era una cosa mia, perché altri avevano già superato tutto e quella retorica la consideravano come una palla al piede e un’ incapacità di leggere la realtà.
Piccoli maestri mi aiutò a capire che la Resistenza era rossa per tutti quelli che l’avevano fatta e scoprii l’importanza del Partito d’azione, che non c’era più, ma era un assente-presente nella vita pubblica. E quando un azionista di allora, pur confuso, parlava della sua Resistenza, senza grandi eroismi, ma forte di necessità, mi sembrava che raccontasse un pezzo della verità che mi riguardava. Che riguarda questo Paese anche adesso.
Piccoli maestri è un libro che ha 50 anni, eppure dice ancora molto. Solo che non si legge, oggi si cerca altro. Alla mia generazione, poteva dire di più, e se non dice nulla ai nostri figli, è colpa nostra. Il rosso della primavera, è diventato grigio, non abbiamo comunicato passioni che servono. Queste cose però basta leggerle, a questo servono i libri. Qualche anno fa, ne hanno fatto un film senza nerbo, girato anche nella mia città, forse non hanno capito che non c’era nulla da dire e molto da sentire, che le vite sono tali quando si vivono, che sono i sentimenti che devono emergere, ma questo non fa scena. E se gli eroi erano persone comuni, cosa volete che ci fosse da raccontare quando combattevano e desideravano la pace, quando cercavano di assomigliare a quell’umanità che avevano dentro. Niente, che fosse così importante da cambiare davvero tutto, però le vite le cambiava, eccome se le cambiava. Ecco, Meneghello era bravo a raccontare com’era cambiato, come aveva fatto Fenoglio, Calvino, Levi e qualche altro. E questo mi piaceva, perché mi diceva che fare ciò che si sente, ci fa assomigliare a noi stessi e ci cambia da come ci hanno indottrinato. E’ un metodo che vale sempre, anche adesso, forse per questo sarebbe una buona cosa che chi è giovane lo ascoltasse leggere e magari lo leggesse.
elogio della verza
Con i primi freddi, anzi con la prima brinata, le verze che erano ben presenti in ogni orto, diventavano più buone. Così si diceva, forse perché la fibra dura delle foglie esterne, ghiacciando, diventava morbida. Mio nonno allora cominciava una cura a base di zuppa di verze, il broeton (gran brodo, forse per la quantità di liquido che accompagnava le foglie), e di verze soffegae (soffocate dal coperchio, stufate). Sembrava fosse una dieta dimagrante e depurante in preparazione degli stravizi delle feste, ma soprattutto era un antidoto al freddo che entrava da ogni interstizio (e ce n’erano molti) nella casa. Di sicuro qualche effetto l’aveva perché qualche chilo lo perdeva. Lui sosteneva che la verza aveva proprietà sgrassanti visto che si accompagnava così bene con il maiale. Le spuntature, le costicine, i cotechini, insomma dove c’era grasso la verza assorbiva. Così diceva mio nonno che tutto era fuorché un nutrizionista. Di certo gli piacevano i sapori forti, quelli di pianura, da nebbia e da gelo. Tornando a casa col tabarro, sul birocio col cavallo o in bicicletta doveva avere un freddo terribile. Tutto era frammisto nelle diete di periferia che era già campagna. La verdura aveva dominato estate e primavera, l’autunno era stato un po’ più parco, ma col gelo c’era poco. Era tempo di carciofi, radicchi di campo, trevigiano da imbiancare per marcitura delle foglie esterne e poi le verze, i broccoli. Le patate erano scorta di carboidrati che non mancava, ma la verdura fresca serviva, eccome se serviva, visto che le vitamine della frutta erano precluse. Quand’ero bambino ricevevamo due casse che a me piacevano come contenitori per i giochi, erano fatte di vimini e scorza d’albero intrecciate, piene di arance, limoni e mandarini, mandate da amici di Latina ed sempre manomesse perché gli agrumi, come datteri e banane erano merce rara e costosa. Ma erano una festa a parte, che non era frequente né diffusa.
Per trasmissione culturale, credo, i nonni mi iniziarono alla cultura della verza, università essenziale del sapere padano. Non quello di Bossi e Salvini, ma quello che scorreva da migliaia d’anni nella valle più produttiva e a quel tempo povera, d’Europa, la pianura padana. La verza la si trova ovunque nelle ricette invernali delle regioni della valle, nella cassoela milanese, nelle ricette piemontesi ricche d’agli, fino farle parlar slavo e mescolarla con i fagioli nella jota delle valli friulane dove l’Italia non si distingue più dalle propaggini dell’est. A casa sarebbe stata, assieme al baccalà, ai radicchi con pancetta e gli gnocchi, una costante invernale. Come il freddo e la neve. Credo che poche piante siano generose e umili come la verza e che poche si prestino altrettanto all’estro: dall’essere bollite per stomaci deboli, sino al trionfo della stufatura e al sapore sapido che da chissà cosa viene estratto considerata la semplicità che l’accompagna nella preparazione. Quindi semplicità, umiltà, generosità, doti che accompagnavano i popoli della pianura, avvezzi a conoscere invasioni d’altri e forse per questo dotati di un relativismo salutare. Dalle mode culinarie straniere, dalle culture, traevano quello che poteva essere coltivato e incontrare il gusto. Credo che gli gnocchi conditi con zucchero e cannella di tradizione tedesca e triestina difficilmente avrebbero attecchito in alcune parti povere del veneto, nel polesine o nella bassa padovana ad esempio, se non fossero stati il succedaneo festoso ma compatibile dei blasonati agri dolce, dei saor raffinati, della repubblica del leon. E così per il cren che nelle ruvide basse accompagna ancora i bolliti, mentre nelle parti più raffinate e pedemontane il dolce e il pepe si mescolano nelle mostarde, nella pearà, nella pevarada e poi mutano sino agli gnocchi con le susine e nelle brovade di confine .
Una cucina povera e ricca di sapore, accogliente e discreta, era la più bella metafora delle persone che ho conosciuto da bambino. Metto due ricette semplicissime, che faccio abitualmente e non per nostalgia, ma perché mi piacciono proprio nella loro ruvida schiettezza:
La verza, meglio grande, viene lavata e privata delle foglie esterne con la costola più dura, queste vengono sminuzzate in pezzi più piccoli o affettate a strisce corte. In una pentola capiente, si mette a soffriggere una cipolla tagliata sottile con uno spicchio d’aglio, appena il soffritto è biondo si mettono le foglie sminuzzate, poi si aggiungerà anche il torsolo tagliato a pezzi. Si lascia che le foglie si insaporiscano per bene e poi si aggiunge acqua in relazione alla consistenza della zuppa che si vorrà ottenere. Si mette il sale grosso e si copre e si fa bollire molto a lungo. In pentola a pressione almeno 40 minuti, oppure un’ora e 20 e più in pentola normale. E questo è il broeton che va servito caldissimo, con olio crudo, pepe e formaggio. Una volta si usava polenta fredda dentro il brodo, oppure pane biscotto.
Oggi l’ho fatto con il cous cous alla faccia del sindaco della lega della mia città che non riceve il console del Marocco e devo dire che era proprio buono.
Per fare invece le verze soffegae si taglia il resto di verza in quarti, con la parte delle foglie più tenere e centrali, mondate del torsolo, e poi a strisce sottili. In una padella si soffrigge cipolla e aglio e man mano si mette la verza, si condisce con pepe e sale e con un po’ di dado granulare. Si copre e si mescola ogni tanto. Alla fine, quando le verze sono color giallo carico (25-30 minuti) si spruzza d’aceto e si consuma a fuoco alto per un minuto. Vanno bene come contorno per carni o anche da sole se arricchite di salsiccia sbriciolata e cotta assieme.
A casa usavano strutto, ma si può benissimo farne a meno. Con le foglie più tenere si può cucinare la verza lessa e condirla con olio e sale, oppure con la parte più interna, i cuori, tagliatii sottili e soffritti farne un brodo per i risi e verze. Insomma ci si può sbizzarrire nella semplicità.
Questo al nonno scappato di casa perché amava i cavalli a 14 anni e ritrovato dopo sei mesi in un circo a Napoli, sarebbe piaciuto.

