Passano ragazze e ragazzi. Giovani. Belli. Tanti. Hot pants e magliette, leggings, calzoni alla moda. Tutti più o meno vestiti bene.
Passano in fretta: lungo il fiume c’è festa per un mese. Spritz, birra e cibo, baracchini di fritto, grigliate e porchetta.
Venendo da porta Portello, all’inizio, c’è una festa del PD. Piccoletta, un palco, l’osteria emiliana: gnocco fritto, tigella e birra. Musica e dibattiti per tre giorni e poi si smonta. Stasera parla una loro coetanea. 28 anni, candidata alle europee.
E’ Elly Schlein. Nome difficile da scrivere sulle schede, ma lei ci sorride su. Ha l’entusiasmo dei giovani che si buttano nelle cose in cui credono e che combattono per esse. Parla di lavoro, di problemi dei giovani e di tutti, di creare nuove opportunità e di usare quelle che ci sono. Dice che l’ Europa che è già il paese dei giovani, che milioni di ragazzi la percorrono con gli Erasmus, con lo studio e con il lavoro, ma non basta e deve diventare il luogo dei diritti eguali. Parla di energie pulite e ambiente, di cambiamento. E’ brava e convince.
I ragazzi passano in fretta tra il palco e chi ascolta, la festa è più in là. Qualcuno ridacchia, qualche ragazza sembra imbarazzata, guarda sottecchi, e rallenta, quasi nessuno si ferma. Eppure si sta parlando di loro, ma vanno oltre.
La maggior parte sono studenti, molti di loro saranno disoccupati dopo la laurea. Chissà cosa pensano del loro futuro, come si vedono tra dieci anni. Credo rinviino il problema.
Altri non credono più che serva studiare e l’università perde iscritti. Accade ormai dappertutto ed Elly sta dicendo che fare un dottorato senza una borsa di studio è ormai proibitivo per una famiglia di classe media.
Oltre ci sono i baracchini, la birra, centinaia di ragazze e ragazzi che parlano, ridono, si divertono.
Chissà cosa voteranno alle europee. L’Europa è dei giovani, solo loro possono farne uno strumento a loro misura e di benessere per tutti. Elly è una di loro: due lauree, tanta passione, competenza in ciò che dice, una faccia pulita che parla la loro lingua. Guardano, ma non si fermano.
Chissà cosa pensano della politica. Forse per loro, è una birra e una discussione. Un’opinione che poco interessa, poi il discorso cambia e si pensa ad altro. Forse è così, ma davvero non so cosa pensino, Elly dice che bisogna parlare con i ragazzi, andare in mezzo a loro, discutere e non demordere.
Ha ragione, ma non stasera, è tardi, mi sento stanco e ho freddo. E comunque toccherà a loro cambiare l’Europa.
Il vecchio partigiano Stéphane Hessel c’aveva chiesto di indignarci, ma nessuno non s’è indignato davvero abbastanza a lungo per cambiare il mondo. E’ morto, il vecchio partigiano, senza saperlo, forse sperando che le parole potessero mettere in moto cuori e cervelli, com’è stato molte volte. Ora non funziona, o almeno non sembra.
Confesso che ho vissuto e attorno a me vedo molta difficoltà a vivere. Forse per questo mi confondo, ho l’impressione di avere verità e idee comuni, ma la realtà mi contraddice. C’è sofferenza e non c’è protesta. Il mio secolo è a cavallo tra un secolo che non finisce ed uno che non inizia. Hobsbawm l’ha definito il secolo breve per contrapporlo al lungo secolo 19° , ma chissàà se lo pensava davvero vista l’opulenza di cui si è nutrito il ‘900. Un secolo bulimico la cui voracità si estende a questo secolo. Un secolo che ha divorato e divora, tempo e vite. Non si è concluso nulla o quasi, un secolo inconcludente, abitato da tragedie e persone inconcludenti, da ideologie mutate nel loro peggio, da lotte che si sono placate non nel cambiamento, ma nella stanchezza, forse per questo si è vissuto così tanto.
Indignatevi. Per la velocità che nasconde la ragione. Il secolo breve era cominciato con l’ideologia della velocità.
Indignatevi per tutto ciò che vi lasciate togliere. Oggi fate la spesa la domenica e lavorate sempre.
Indignatevi perché il giusto non è ridurre uno stipendio abnorme, non solo, è abolire il privilegio che l’ha permesso, che discrimina, tra chi ce l’ha e chi non ce l’ha. E’ questo il confine del potere e c’è chi sta una parte e chi dall’altra, io scelgo quella che non ha privilegio.
Aver derubricato la lotta di classe, non ha tolto le classi, ma ha fatto perdere l’idea di eguaglianza. Ha tolto sostanza al rapporto tra le forze che dovrebbero gestire l’equilibrio tra economia e società, tra diritti e ricchezza. Così si è vanificato il diritto comune all’eguaglianza sciogliendolo nell’acido della finanza e della speculazione. Non il lavoro, ma il denaro è diventato il soggetto che riguarda l’uomo. Basti pensare che ciò che si ritiene un diritto non negoziabile, quello alla vita, è ogni giorno, in occidente, come nel resto del mondo, messo in discussione dall’esistenza di un lavoro, di una sua continuità, oppure di una pensione, di un sussidio. La Grecia insegna molto, ma non s’impara nulla.
Indignatevi perché si è accettata la povertà come funzionale, la diseguaglianza come elemento strutturale e come motore della mobilità sociale, seppellendo la possibilità di un’eguaglianza vera di base, di una valutazione del merito. La perdita di diritti ne è conseguenza perché in questa visione, sono stati monetizzati ed era naturale quando si è affidata alla sola parte del capitalismo, all’impresa e alla sua proprietà e non al lavoro, il compito di condurre il mondo. Il denaro compra i diritti e gli effetti si vedono con le diseguaglianze che crescono, con la democrazia che diminuisce.
Indignarsi qui, oggi, ha un significato ben diverso da ciò che abbiamo attorno, è la protesta che analizza, lotta e cambia la società, ecco cosa manca oggi all’occidente. E ciò che manca contiene la speranza del cambiamento vero, permanente, contiene la maggiore equità, ma nel lessico comune invece, la speranza si è trasferita nella crescita economica. Per questo mi confondo e vedo che i migliori ingegni, la meglio gioventù sente l’estraniazione dall’occidente. Non pochi scelgono di esercitare un cambiamento nel terzo mondo piuttosto che a casa propria, nelle situazioni al limite, piuttosto che nella normalità. Mai come ora la normalità ottunde, e addormenta la speranza. Mai come ora è necessario che sia il quotidiano a verificare se ciò che ci attornia ci va bene oppure no.
Le parole che corrono di più, tra battute e sarcasmo, sono : pagliacciata, imbecilli, figuraccia. Bevono l’aperitivo e ridacchiano, questo è un bar frequentato da poliziotti e si sentono le valutazioni tecniche della retata di indipendentisti veneti, il reato, l’efficacia della minaccia. Sembrano rimpiangere, come han fatto non pochi giornali, gli altri terrorismi, quelli seri che da queste parti non hanno scherzato, le brigate rosse e nere, l’autonomia. E poi ridono sul fatto, la gravità penale che rende tragica una farsa, la futilità dell’agire che diventa segno di inadeguatezza, eppure… Eppure credo si stia sottovalutando un sentire che cresce e si espande in aree sinora immuni. Pensate cosa sarebbe accaduto a Torino se invece di avere una marcia dei 40.000, i quadri si fossero alleati con gli operai.
Provo a ragionare: Venezia è stata repubblica per almeno 900 anni, non c’è stato europeo che possa dire altrettanto, e al mondo non c’è mai stata una così lunga identità sociale tra governanti e governati. Cero è finito tutto nel 1797, ma è davvero finito tutto? Parlo del sentirsi una cosa a parte, conquistati ma non inclusi. Era già accaduto con gli austriaci, il 1848 a Venezia fu diverso rispetto a qualsiasi altra rivoluzione europea dello stesso anno, perché tornava su una bandiera già usata, non su una nuova, le idee erano nuove, non il vessillo. Comunque non molti anni fa, parlo del dopoguerra sino a metà degli anni ’50, le spinte alla specialità del Veneto erano forti ed erano interne alla D.C. che riuscì ad assorbirle. Ma come? Con una modernizzazione delle opere pubbliche e con una disattenzione alle regole che permisero lo scempio urbanistico spacciato per progresso. In realtà chi aveva inventiva e forza per lavorare, faceva quello che gli passava per la testa. Altrove è stato uguale, ma qui incontrava l’idea del far da sé, di uno stato lontano che facilitava una autonomia del fare. Questo trasformò un territorio agricolo in una serie infinita di aree produttive manifatturiere e industriali basate sull’autoimprenditoria. Quella piccola e familiare, anche quando cresceva. Qui si è praticata una autonomia di fatto e un individualismo corretto solo dalla Chiesa.
Senza aziende di stato, con una auto imprenditoria di metal mezzadri che trasformavano le stalle in aziende, per crescere economicamente, lo stato doveva esistere poco, imporre poche regole, consentire una evasione controllata. I consensi plebiscitari della balena bianca in Veneto, hanno occultato lo scarso legame ideale che esisteva tra questi territori e l’idea di Italia, anche perché questa idea non è stata molto esplorata neppure altrove, erano il conformismo e la convenienza i veri leganti tra politica e cittadini e siccome lo sapevano tutti, la politica nazionale ci ha sguazzato alla grande. Anche la lega di Bossi ha adoperato questo sentire, prima eliminando la liga di Rocchetta, uno degli arrestati, e poi spostando il baricentro in Lombardia, evocando al contempo quella bizzarria della Padania che non aveva né cultura né identità possibile. Sembrava al più un nome di formaggio di serie b, oppure una grande pianura alluvionale, ma qui i contadini tengono alla loro terra, è loro e non si confonde con quella lombarda o piemontese, come poteva essere sentita come una comune piccola patria? Diciamo che non aver avuto politici di rango che interpretassero il Veneto è nociuto alla causa della specialità della regione. Perché di questo si trattava e si tratta. Lo stato centrale non è in discussione, se non per le sue perversioni, a cui la Lega e il PdL governando il Veneto e anche il Paese, per 20 anni, non hanno messo alcun freno, anzi attribuendo secondo convenienza le colpe e scaricando le responsabilità. Quindi non si è risolto nulla. Le alluvioni degli ultimi anni, la crisi economica gravissima, hanno fatto risaltare la sproporzione tra ciò che si è promesso e ciò che si è fatto, lasciando le imprese e i cittadini privi della tutela precedente e soli davanti alla crisi. Si dirà che accade ovunque, che da altre parti va anche peggio, ma qui il tessuto sociale era fortemente permeato di un rapporto tra positività: il lavoro senza limiti, la crescita, lo scambio, la banca, la parrocchia. Tutto tenuto assieme da una idea di autosufficienza, ora questa idea è in crisi e l’insofferenza verso uno stato patrigno cresce.
Si confonde il Veneto con Venezia, che è una eccezionalità e un punto ideale con problemi propri e risorse ben diverse dal resto del Veneto. Ma il resto del territorio regionale è attorniato da due regioni, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia, che trattengono rispettivamente il 90% e il 60% della tassazione nel territorio, e gli effetti si vedono. Decine di comuni di confine chiedono di passare, secondo vicinanza, dall’una o dall’altra parte. Per convenienza, naturalmente, ma anche per equità perché non è possibile competere con chi a pochi km ha benefici importanti. E’ un fenomeno che non ha eguali in Italia, eppure nel riformismo urgente anche del governo Renzi, non c’è traccia del palese divario che esiste e che è fonte di diseguaglianza (e di innumeri sprechi) tra regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario. E’ evidente che dove la vicinanza è più forte, l’ineguaglianza emerge con maggiore evidenza e anch’essa provoca insofferenza. E il fatto che ci sia una ineguaglianza tra cittadini già alla nascita, e indipendentemente dal censo, è sotto gli occhi di tutti, ma non viene considerata un problema nazionale.
Quindi ci sono una serie di fattori che mettono insieme un mix pericoloso: una identità forte con una lingua ancora molto parlata, una crisi economica, una differenziazione inconcepibile tra territori contigui, uno Stato che non aggrega ed è lontano. Diamanti, Bettin e altri analisti, certamente di scuola non leghista, rilevano da tempo, il sentimento di insofferenza che si diffonde e cresce. E che non è di per se stesso secessionista, ma chiede almeno in parte un autogoverno delle risorse prodotte nel territorio. E proprio in questi giorni c’è un fiorire di altre sensibilità che parlano di questa insofferenza: Cartongesso, ad esempio, recente premio Calvino, oppure il film, Piccola patria. Ma Mazzacurati, Segre, Carlotto e molti altri ne hanno parlato e questi si aggiungono ai saggi, noir, testimonianze letterarie, poetiche e filmiche, che raccontano che si è superata la sociologia di Schei e di Signore e signori. La letteratura, la poesia, il cinema sono sensori importanti perché escono dalla cronaca e interpretano un sentire. Il fatto che tutto questo venga sottovalutato, che emerga solo la farsa di un gesto pateticamente eversivo, ha almeno due pericoli: l’ignoranza del sentire comune e quindi l’assenza di risposte con il conseguente radicamento del problema, la spinta verso atti più perniciosi e meno carnevaleschi. Concludo su quest’ultimo punto. Se da un lato si sottovaluta, dall’altro non si considera che esiste comunque un terreno fertile per teste calde e per radicalismi. Per queste cose serve una risposta legale che metta assieme l’attenzione con il rispetto della legge, che faccia capire che lo Stato esiste e agisce. Insomma fare quello che dovrebbe fare la politica: risolvere i problemi e non ignorarli.
Ti ho detto cose poco rigorose, seguendo il cuore e praticando la razionalità non è una proposta politica, e ho messo in comune con te la difficoltà di trovare un portolano per mettere assieme le idee e capire, in questa orgia verbale, dove sia il cambiamento vero. Oggi si proclama la retorica del cambiar verso, poi ci si accorge che è la risposta ad una fame e un’insofferenza, non un mutare davvero le abitudini profonde, le regole che ci tengono assieme. Poco o nulla viene toccato dei privilegi veri, degli sprechi senza fine, dell’inefficienza strutturale. Come da tempo accade, si risponde ancora una volta alla cosa più volatile che esista, ovvero i mercati. Come può diventare questo, nuova coscienza, nuova eguaglianza, nuova giustizia?
In questi anni di apnea delle idee forti e delle coscienze, oltre l’evidenza di una realtà passata di bocca in bocca, e resa vera, più dagli atti senza razionalità e dalle omissioni che da una sua effettualità comune, la speranza consapevole e la forza del sentimento civile sono rimasti per me, e spero molti, l’elemento guida per continuare a procedere in direzione ostinata e contraria. La sconfitta, amica mia, è lasciare che la notte sia senza sogni, che la disperazione passi di bocca in bocca. In ogni guerra, rivoluzione, direi in ogni amore che si volta indietro, la somma delle speranze, dei mondi possibili, di ciò che poteva essere, si scontra con la morta acqua dei compromessi. E’ successo sempre e ad ogni caduta qualcuno si è rialzato, ha cominciato a pensare e parlare di un mondo possibile, più vicino ai desideri, qualche altro l’ha ascoltato e il mormorio ha alzato la voce. Ha riconosciuto la sua forza, la stessa che oggi tanti giovani o oppressi non riconoscono e mendicano dall’oppressore, come se chi toglie potesse dare. La cosa che ci sconvolge, è l’assenza di un risultato di fronte a tanti sforzi, come se questa scontentezza fosse il giudizio della storia su tutti noi. La misura della nostra insoddisfazione è determinata da chi ci è accanto e non reagisce, non spera o sogna come noi. Purtroppo però tutte queste parole non attenuano l’inverno del nostro scontento: ci manca il caldo sole di una battaglia vinta per determinare il nostro futuro. Eppure penso, amica mia, che questa battaglia non mancherà, come non mancheranno nuove sconfitte perché la razza umana non si è estinta mentre il conservatorismo estingue i sogni e gli uomini. Ti sei mai chiesta cosa sognano quanti votano per conformismo o, ancor peggio, gli indifferenti, quelli che tanto tutto è eguale? Io credo che abbiano sogni concentrati esclusivamente su desideri personali, su traguardi molto vicini e intrisi di realtà spendibile immediatamente. Le loro insoddisfazioni sono fatte di oggetti, di sentimenti negati, della sensazione di non emergere, dal timore di essere sfuocati. Sanno come va a finire ma non sono felici anzi, sono depressi esattamente come chi sogna un futuro che riguardi il bene di tutti. E’ vero, non c’è differenza nel dolore e nelle disperazioni, ma quelle di chi si sente tradito nella speranza sono un lago nero di consapevolezza, ed insieme lo stimolo a ritrovare se stessi. Tu sai dove sei, come sei, spesso quello che vuoi può sembrare semplice e comune ma, in realtà, la differenza è nel tuo sentire che il mondo e la storia non riguardano solo te, ma te insieme agli altri e che ciò che è possibile dovrebbe essere un obiettivo comune.
Penso a chi, uscito dalla guerra di resistenza tornò semplicemente a fare ciò che faceva prima, convinto che quello che lo aveva coinvolto fosse solo una necessità normale, di persone normali. Nella retorica della resistenza a poco a poco si è smarrito l’oggetto della lotta, non si è detto che in fondo era servita più ai fascisti costretti a misurarsi con la democrazia e con le opinioni altrui e che erano tranquillamente riemersi dopo la guerra, più che a chi era salito in montagna perché non tollerava più la propria condizione di non umanità nel tacere, nel non essere ciò che sentiva. Ricordi la notte di san Lorenzo dei fratelli Taviani, la battaglia nel grano e l’atrocità di chi si conosce e si uccide? Dopo gli eccidi sono rimasti gli uomini, ma quelli che più ne hanno avuto vantaggio sono stati proprio quelli che erano dall’altra parte. Credo che anche oggi sia così ogni volta che si fa la fatica di impegnarsi per cambiare e soprattutto ci si impegna in un sogno di un mondo possibile: chi ne beneficerà di più sarà chi è dall’altra parte. Avrà più diritti, più giustizia, più possibilità. Ma noi lo facciamo per noi, ti pare poco? Per questo val la pena di tirarsi fuori dal disperare, perché il bisogno di cambiamento e di equità è infinitamente più importante della fuga o del rinserrarsi in casa, perché abbiamo sensi che hanno bisogno di vedere e sentire e perché, nonostante tutto, crediamo sia possibile il cambiamento e ancora ci commuoviamo e sentiamo il sangue scorrere e il cuore battere forte per un’idea, un simbolo, una musica che racchiude tutti gli altri. Gli stessi che vorremmo come noi e insieme diversi. Credo che abbiamo diritto alla disperazione e all’amore e che questo non ce lo possa togliere nessuno. Tantomeno questa finta realtà fatta di mode che cambia con una frequenza e indifferenza comune, e noi siamo più noi stessi quando mostriamo alla realtà che c’è un’ alternativa, una possibilità, un motivo per trepidare ed amare. Non è neppure più necessario avere una ideologia, ma piuttosto condividere un disagio, una voglia di cambiare e oggi se questo spinge a capire e poi ad esserci, non è davvero poco.
Prima delle parole, colpisce il fumo. E’ una tribuna politica e il giornalista, che rivolge a Berlinguer la domanda sulla possibilità di cambiare nome al Partito Comunista, sta fumando in televisione. E quel fumare, non la domanda (che pure farebbe riflettere in questa stagione in cui i partiti cambiano nome con più frequenza della biancheria intima) , rende consapevoli del distacco tra questi e quegli anni. Distacco di abitudini, distacco culturale, distacco di parole e di idee. Credo che una parte del film di Veltroni, sia incomprensibile a chi oggi ha meno di 40 anni, e che parole come eurocomunismo, U.R.S.S. , i nomi dei protagonisti, la stessa parola comunismo, non abbiano significato pratico, cioè non corrispondano a nessuna esperienza vera. Questo iato generazionale si è consumato senza che la mia generazione se ne avvedesse, continuando a pensare che i suoi termini di esperienza, e quindi le parole, fossero comuni mentre, in realtà, queste perdevano consistenza per le persone a cui parlavamo. Quindi non si è trasmesso nulla o quasi e ciò che ha caratterizzato una parte importante della storia comune del Paese diventava, intanto, materia per storici, non tessuto vivo su cui innestare il nuovo.
Non è una constatazione amara, è una consapevolezza. Quello che ha infiammato discussioni, provocato sconvolgimenti collettivi, cambiamenti e mobilità sociale non esiste più come cultura comune. Di certo i fallimenti dei partiti, provocati da quella questione morale che Berlinguer aveva indicato con tanta acutezza, facevano parte di un ordine possibile delle cose, ciò che non si era messo in conto era il fallimento contemporaneo delle idee. E non perché queste fossero staccate dalla loro possibilità di modificare il futuro del Paese, e quindi di tutti noi, ma perché quelle idee non erano più materia di passione, non erano in grado di cambiare le vite dei singoli, prima che quelle di tutti.
Quando c’era Berlinguer, parla di un uomo e di una generazione, che non importa fosse o meno comunista, ma che viveva tutta in un confronto di futuri possibili, di alternative alla insoddisfazione del presente. E questo si collocava in un situazione nazionale e internazionale che era comunque movimento del’umanità. Due blocchi e due prospettive, e tutte le varianti nazionali. Quando Berlinguer davanti al 63 congresso del P.C.U.S. rivendica la libertà dei singoli partiti comunisti nazionali da quello sovietico e rifiuta il ruolo egemone dell’ U.R.S.S. defininendo la democrazia e l’alternanza, come ambito politico per governare gli Stati, nell’enorme sala c’è il gelo, ma in occidente se ne parla ovunque. Ovunque significa non solo nei giornali, ma nelle case, al lavoro, nei bar e diventa materia di ulteriore confronto, di idee personali, e infine di consenso politico. La politica e le vite hanno un legame, le parole conseguenze e sono veicolo di cambiamento. Mi è stato chiesto cosa significasse allora essere comunista. Per me e per molti altri, voleva dire avere un’idea in grado di orientare una vita, il suo impegno sociale, il lavoro, lo studio, la famiglia e il coinvolgimento riguardava il singolo per un obiettivo di tutti. Non era un’idea angusta, era un modo grande di vedere la società, i suoi rapporti, il suo evolvere verso forme più giuste ed eguali. Credo che Gaber lo abbia sintetizzato mirabilmente nel suo qualcuno era comunista, parlando di una generazione che voleva spiccare il volo.
Il film di Veltroni è fatto bene, era importante farlo, non per la ricorrenza dei 30 anni della morte, ma per la testimonianza che qualcosa è accaduto. L’inizio dice tutto, con quei ragazzi che non sanno chi era Berlinguer, non sanno nulla di ciò che c’era, e ci fanno capire che se si spiegano delle vite, milioni di vite, con parole solo nostre, in realtà si racconta una storia. Quella che si legge sui libri, non quello che si sente dentro, quindi una nozione. Ecco il motivo per cui un film che mi è piaciuto, mi ha reso malinconico, oltre al ricordo e all’esperienza diretta: avevamo ricevuto un testimone, comunisti o democristiani che fossimo e non siamo stati in grado di passarlo, non è passata nessuna idea di mondo alternativo, si è lasciato darwinianamente fare. Sembrerà strano, ma c’era più libertà allora, più possibilità di crescita, più alternativa di adesso, dopo che una parte ha perduto e l’altra è dilagata. Ma anche questo lo si capisce per confronto e i ragazzi non lo sentono e non è il loro modo di vedere il mondo e neppure la loro idea di cambiamento. Questo fa sentire il baratro che si è aperto e lascia quella sensazione che si sia davvero chiusa un’epoca. Non nobis domine, non più, tocca ad altri che abbiano le giuste parole.
Mi chiama all’ora di pranzo. Sono mesi che non ci sentiamo, ogni tanto un moto d’affetto, gli auguri, come un abbraccio e poi si vive ciascuno per suo conto. Sorrido per l’ora che richiama abitudini antiche: un tempo era impensabile telefonarsi in orario di lavoro.
Ci vediamo giovedì 27, ci sarai? Ho già chiamato altri, vengono tutti. vediamo il film e poi una pizza. Saremo in parecchi, immagino. E’ bello rivedersi, come allora…
Il film è quello di Veltroni su Berlinguer. abbiamo età comparabili e c’eravamo tutti allora, prima e poi. Anche quella sera di giugno. Difficile spiegare cosa fu Berlinguer, volergli bene era voler bene a noi. Era la vita diversa che volevamo, una società in cui ci fosse posto per quelle parole che risuonavano dentro, dare sbocco a ciò che ci metteva assieme. Era un’altra cosa Berlinguer, era il coraggio, la dignità, la volontà di cambiare che avevamo. O almeno credevamo di avere. Si poteva perdere ma non era mai per sempre. Ancora una volta, ancora in piazza, ancora a pensare, discutere, proporre, lottare. Anche davanti alla Fiat perché era giusto. Battaglia di retroguardia ci dissero e poi via i punti di scala mobile, ma se si guardano gli incrementi di produttività e l’incremento dei salari anche degli ultimi dieci anni si capisce che il Paese cominciava allora ad impoverirsi.
Eravamo, credevamo, sentivamo, sembra un discorso da reduci, ma è la storia di una generazione che ha perso e non voleva perdere, una generazione nata dopo la guerra, cresciuta in un Paese dove sembrava possibile il benessere per tutti eppure c’erano le classi sociali. Un’Italia dove sembrava possibile passare da una classe all’altra, da una condizione all’altra; bastava lottare per un’idea comune di equità, di crescita, di cambiamento condiviso. Questa dell’idea comune di futuro era la visione della politica, bastava essere rigorosi, fare in maniera diversa, essere conseguenti e le ruberie, il malaffare, sarebbero stati sconfitti. Non c’era l’impressione dell’inutilità, si poteva e si doveva cambiare. E gli strumenti erano quelli della democrazia. Un popolo. Parola grande, ma ci sentivamo un popolo. Il popolo della sinistra. Molti di noi erano passati per il ’68, poi ci eravamo divisi. Molti nel PCI, altri nei vari partiti di allora, ma era la lotta di massa che era emersa come vincente: in molti si poteva cambiare. Per questo i congressi di partito erano partecipati, appassionati, fonte di discussione che durava. Per questo alla fine emerse lo scontro con Craxi e con i socialisti. Erano due visioni concorrenti della società, da un lato quella dell’ascesa dei singoli, del consumo, della società da bere, dall’altra l’idea collettiva dei diritti di base, di pari opportunità in cui inserire il merito, ma prima veniva l’eguaglianza per vivere con dignità. Berlinguer era per noi il rappresentante di tutto questo, il carisma non il potere. E con Pertini era l’idea stessa del rigore e della giustizia vissuta.
Difficile dire la quotidianità di chi ci credeva, di chi si sentiva parte di quel progetto. Era la vita che ne veniva mutata, che aveva regole proprie, rifiuti orgogliosi, volontà. E non era per niente triste, si rideva, si andava in vacanza come si poteva, molti campeggi, canzoni comuni, voglia di vivere. Difficile pensare che sia stata tutta una fantasia, una illusione disciolta nel benessere di quella classe media che allora stava meglio di adesso. Anzi per un po’ sembrò che potessimo vincere, poi si scatenò l’inferno. La P2, i servizi, le stragi, le brigate rosse, la violenza come prassi politica. Man mano cresceva la possibilità di arrivare al governo democraticamente, aumentavano le difficoltà e la violenza politica. Per Berlinguer che aveva proposto l’unione delle grandi forze cattolica e comunista per cambiare il Paese e rammentava il rigore, la diversità di un vivere e di una crescita che non consumasse uomini e pianeta, diventava difficile, ma non demordeva e noi con lui. Non fu casuale che in quel clima di attacco contro il PCI, maturasse il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Eppure anche dopo quell’assassinio che ha cambiato la storia d’Italia, la battaglia non era ancora perduta. Berlinguer rappresentava una via d’uscita da quel marasma, noi lo sentivamo così: coraggio e dignità nella politica.
Come oggi si può trasmettere tutto questo se non lo si vive? Sembra basti chiedere in politica, ma non è così, fare politica è soprattutto dare. E Lui dava senza limite e noi lo sentivamo. L’hanno definito un’icona poi, invece era uno di noi, lo sentivamo così, autorevole come può esserlo un fratello grande, vicino e al tempo stesso in grado di guidarci con sicurezza. Come le spieghi oggi queste cose? Sembrano discorsi da reduci, magari giovedì qualche lacrima verrà fuori, ma resta una cosa vissuta non solo da noi, ma da un’intera generazione. Poi bisogna che il tempo faccia il suo corso, che maturi un’idea comune e la volontà di realizzarla, che qualcuno raccolga una bandiera, rappresenti una volontà, un entusiasmo che giustifichi il mutare delle aspettative, delle vite. E’ sempre accaduto, accadrà.
Pensiero un po’ greve del lunedì, poi si migliora.
Viviamo in un mondo imperfetto, conduciamo la vita attraverso l’approssimazione e l’errore, impariamo da esso eppure lo rifiutiamo nei pensieri. E’ difficile pensare di sbagliare, molto più facile pensare in termini di perfezione. La perfezione fa perdere la nozione del reale, lo idealizza e visto che questo è lontano dall’uomo, lo porta verso quell’età dell’oro e dell’innocenza, che magari non è mai esistita, ma è quantomai necessaria per pensare alla perfezione. Quasi un liberarsi dalla fatica del percorso delle vite per essere migliori, ma che restano pur sempre umane. La perfezione elimina la contraddizione, quella che ci portiamo appresso con l’errore insito nel fare e che sembra non riguardare il mondo pensato, desiderato. Ma il mondo che genera questa perfezione sarebbe un mondo vuoto, privo delle imperfezioni degli altri uomini, un mondo in cui saremmo soli, persi nella contemplazione della perfezione. Un mondo francamente noioso.
Questo è un mio pensiero imperfetto, ma che ha conseguenze pratiche. Se penso alla minaccia alla pace di questi giorni, all’Ucraina, capisco che categorie ideali vengono applicate a un paese reale. Chi conosce quel paese, sa che è una pentola in cui sta bollendo di tutto, eppure come per l’Egitto, la Siria, la Libia, la Tunisia si accoglie l’idea che la rivolta di popolo sia la palingenesi della politica: dalla dittatura alla democrazia senza passare dal via. Salvo poi accorgersi che la democrazia è essa stessa imperfetta, che non genera automaticamente quello che vorremmo e allora si accettano le violazioni delle regole se esse sono convenienti. Così in Egitto un presidente, democraticamente eletto viene deposto e l’occidente, Stati Uniti in testa, riconoscono il regime che lo sostituisce. In Libia (chi si ricorda più della Libia?), milizie armate si muovono indisturbate, parlamentari e cittadini vengono uccisi, il governo non è in grado di controllare il paese, nulla o quasi di quanto sembrava possibile, ovvero una democrazia che assicurasse diritti, benessere, tolleranza, accade, ma in fondo basta che arrivi il petrolio. In Siria, ci si accorge troppo tardi che il cambiamento può portare verso la creazione di uno stato islamico, jiadista, quindi ancora più privo di freni, antidemocratico e antisemita del regime di Hassad e non lo stato libero favoleggiato. E’ possibile continuare, quasi ogni teatro di conflitti genera risultati diversi da quelli ipotizzati: è questo il mondo perfetto che si evoca nell’immaginario? Accettare l’imperfezione a livello collettivo, non significa rinunciare ai diritti, a un mondo migliore, ma partire dal mondo che c’è e chiedersi come esso possa essere mutato dicendo la verità. In Ucraina, ad esempio, la diplomazia occidentale si è mossa più con l’intenzione di creare difficoltà a Putin e creando attese difficili da esaudire piuttosto che dire la verità agli ucraini, ossia che l’Europa non ha soldi per loro, che se vengono in un sistema capitalistico la casa e il gas dovranno pagarli, che l’occidente non è un prestatore di denaro a fondo perduto mentre una parte importante del 45 milioni di abitanti vive di assistenza e di rimesse dall’estero. Ma si sa quant’è la pensione di un professore universitario in Ucraina? (0 dollari al mese, gli stipendi sono poco oltre i 150/170 dollari, come si pensa che questa realtà sia immediatamente integrabile con l’Europa? Non a caso la Polonia preme per una soluzione, perché ci saranno masse di profughi verso l’occidente, da accogliere, a cui dare lavoro, se il cambiamento sarà repentino. La Germania considera, da sempre, il territorio ucraino almeno un proprio mercato e si comporta di conseguenza, ma qualsiasi azione che non sia solo commerciale, troverà per forza la reazione di Mosca, e non solo per la Crimea. E la Russia è un mercato ben più grande e ricco dell’Ucraina. Per questo non si comprende, se non in termini di strategia militare perché l’azione dell’occidente e degli Stati Uniti, non sia stata quella di favorire passsaggi che fossero contrattati tra i veri attori della vicenda, ovvero l’occidente e la Russia. Difficile dire in un mondo perfetto che le sovranità nazionali e le democrazie contano fino a un certo punto, ma non è forse così anche per le economie, tra cui la nostra, dove trattati e diktat contano molto più dei parlamenti eletti? Se si parte dalla realtà e dall’imperfezione si possono trovare compromessi imperfetti che portano avanti, che approssimano le soluzioni e creano un mondo possibile dove le varie spinte vengono contemperate, altrimenti si gioca, come sempre si è fatto da secoli, agli aprendisti stregoni. Si è citato spesso l’esempio della Finlandia, un paese che aveva, ed ha, problemi non dissimili da quelli dell’Ucraina, neutralità e funzione antifrizione ne hanno fatto una regione tranquilla. Gli stati cuscinetto hanno una funzione per la pace, ma gli strumenti attuali sono troppo ideologici e rozzi per renderli politicamente assimilabili alle nostre concezioni di governo democratico. Questa è una delle tante imperfezioni insite anche nella democrazia, che non evolve se non è applicata alle situazioni e che non è libera se non attenua il suo essere funzionale all’economia capitalista. Capire che c’è un problema non significa avere una soluzione, ma agire per trovarla. Ecco, sinora questo approccio è sotto traccia e così ci si muove dicendo una cosa, che magari eccita gli animi, ma non ha la struttura e la forza per essere vera, e poi se ne pratica un’altra. La verità è imperfetta, per questo bisogna dirla, a partire da se stessi.
Rischio Kiev sul rally delle borse, così titolava il Sole24ore di ieri. Come al solito salgono i titoli dell’industria e delle armi, ci si stupisce che l’oro non abbia già fatto un balzo e si valutano le esposizioni delle banche occidentali su quelle ucraine. La finanza non ha principi, solo pulsioni.
Oggi mi sono sentito offeso. E lo dico a me perché se parlo con chi mi offende questo direbbe che non esisto, che sono uno zombie.
Come mai? Prova a cercare dentro le ragioni dell’offesa. Cos’è che ti fa male?
Credo sia la mancanza di rispetto, la protervia. Tu sai che non condivido quello che accade per fare un nuovo governo. Non ero neppure d’accordo sul governo Letta, figurati adesso per il modo e la maggioranza che viene scelta, ma l’incontro(?) Renzi- Grillo mi avvilisce. Mi dice che quelli che si oppongono, che pensano di cambiare le cose restando nelle regole democratiche sono degli illusi. Che io sono un illuso. Mi chiedo perfino se sono conservatore, se non capisco davvero quello che accade. Eppure sono immerso nella realtà, la cerco e devo fermarmi nei giudizi, perché mica accetto facilmente che un milionario mi faccia la paternale, mi dica cosa non va in questo paese. Tu sai che di alcune cose ho un minimo di conoscenza diretta. Ebbene si spacciano idee che non hanno alcun riferimento con la realtà, i mi piacerebbe con il reale. Si parla di green economy senza conoscerne consistenza, possibilità di occupazione, realtà economica. Si parla di cose sovvenzionate che vengono spacciate come modelli principali di crescita. E chi paga se non i consumatori, i cittadini. Si parla di uscita dai mercati come fossimo nell’800, di schiavitù dell’uomo alla macchina. Se una persona non ha mai visto una fonderia non può capire che le macchine lì sono il modo per rendere compatibile il lavoro immane, il pericolo che esso contiene, che l’uomo senza macchine è schiavo della fatica, che questo accade in ogni parte del mondo e che casomai bisogna inventare cose nuove per creare lavoro non togliere le macchine. Se una persona conosce ciò di cui parla per averlo sperimentato, non dice sciocchezze, casomai migliora il modo di lavorare. Ma vedi che mi monta la rabbia e non sono sereno?
E ti sei chiesto perché ti sale la rabbia, il rifiuto?
Credo di averlo capito oggi, pensandoci dopo l’ incontro e il comizio successivo travestito da conferenza stampa. E’ l’impotenza, il buttare all’aria la possibilità di una protesta che costruisca. A me non piace distruggere, mi piace costruire, modificare le cose, renderle conformi all’idea di giustizia ed equità, e il costruire non ha scorciatoie, neppure chi demolisce ci crede perché per ogni cosa che sparisce bisogna fare la fatica di rimpiazzarla con altro. Ci sono gesti e modalità d’agire che mi ricordano l’assalto ai forni del pane. Quando la gente ha fame abbatte barriere, regole e la farina viene buttata per strada, il pane nel fango, perché non si può passare dalla fame all’indigestione. E’ la cultura della rabbia e dell’attimo, mentre io penso che per cambiare le cose occorra costanza, forza nel tempo, rigore dopo aver davvero capito come le cose funzionano. Ma così mi pare di giudicare le persone ed io non voglio giudicare chi protesta, solo sento che vengo violato anch’io che mi oppongo. Penso a come si sono comportate persone come Gramsci o Pertini, i tanti che con un regime vero hanno cercato prima attraverso le regole e poi attraverso il pensiero strutturato di cambiare le cose. Cambiando le abitudini, le persone, cercando una giustizia che fosse tale. Ma qui neppure ci si ricorda di ciò che è stato, di queste persone che si opponevano nel rispetto della casa comune, anzi vengono messi in disparte, derisi come incapaci nel modificare davvero le cose. Collusi perché il mondo non è mutato.
Forse ti dà fastidio il turpiloquio, la violenza del linguaggio, il fatto che non ci siano proposte, ma ultimatum.
Può essere anche questo, ma in fondo ne ho vista di violenza a partire dalla fine degli anni ’60. Ci sono stato in mezzo. Sai proprio in questi giorni c’era l’anniversario del comizio finito male di Lama alla Sapienza, con gli insulti degli indiani metropolitani e degli autonomi, la cacciata di Lama che diceva che non bisognava dividere lavoratori e studenti, e poi la conquista del palco, la sua distruzione da parte di chi contestava. Cos’è rimasto di quegli anni, di quelle persone? La cronaca, non un gesto successivo, un’opera che ci abbia resi diversi davvero, niente che potesse mutare il Paese, perché non c’era una proposta, c’erano velleità e voglia di rompere uno schema, ma quale fosse quello alternativo era un desiderio. Comunque a me non interessa il passato, è questa incapacità di rispettare la casa comune che mi mette in difficoltà. Mi chiedo quali siano i limiti della democrazia, se essa possa contenere la sua distruzione e ammetterla come forza positiva. Insomma mi sento vecchio e conservatore con il mio oppormi democratico, con il rispetto delle regole, e questo mi mette in un profondo disagio. Ho l’impressione che i giornali per conformismo e interesse spicciolo, una parte non piccola di altri interessi anche economici, liscino il pelo al gatto perché quando l’attenzione è sullo show passano sotto silenzio ben altre cose.
Insomma ti senti arruolato tra i governativi.
Peggio, mi sento arruolato tra gli stupidi, tra quelli che non capiscono, tra gli utili idioti di qualcosa che pensano di combattere e questo mi interroga e infastidisce profondamente. Devo togliermi dalla testa che in realtà sono persone privilegiate che cercano di conquistare il potere per imporre le loro regole, e che queste non sono migliori di quelle che ci sono. Perché questo è un giudizio, e i giudizi non servono a capire cosa c’è sotto, da dove nasce la rabbia. Oggi ha detto che non è democratico, che vuole una dittatura morbida. Sono impaurito da queste affermazioni, dal fatto che non ci sia un contraddittorio, una qualsiasi comunicazione. Mi inquieta che si dica, noi e voi, ma voi non esistete, dovete morire perché solo così potrà nascere il nuovo. Io non sono voi e se penso in maniera diversa continuo ad essere noi, questa è la società, non la democrazia, la società. Per questo mi fa paura il dividere tra amici e nemici, perché c’è chi ci crede e la cultura del nemico rende fragile la democrazia anche quando sembra forte. La democrazia non ha antidoti contro la violenza di massa che non rispetta le regole comuni. E non è solo la crisi che rende questo terreno, fertile per le avventure, è lo scarso senso del bene comune. Il fatto che l’evasore additi il privilegio, che il comportamento deviante voglia che la sua condotta sia riconosciuta come prevalente. In questo le responsabilità della sinistra, parlo di quella perché Berlusconi e la destra hanno favorito questo processo di relativizzazione del giusto, del privilegio come norma, ci sono e sono importanti. Dov’era la sinistra quando già c’erano i segni del disastro, perché non si è fatto tutto quello che si poteva fare? Per paura di essere moralisti? Perché comunque i privilegi si sono spalmati in talmente, tali e tante, forme che toccarli poi davvero significava mettere in discussione il proprio elettorato? Credo che nei comportamenti che hanno ignorato, girato la testa altrove, ci si sia giocata una grande occasione di riforma in senso giusto ed efficiente del paese, ma detto questo come posso pensare che l’unico modo per uscirne sia demolire tutto? Comunque se questo è il ragionamento che prevale, se questa è l’opposizione, mi sento inutile. Inutile a una possibilità di cambiamento. E questo mi offende ed avvilisce. Ecco questo è il sentimento, oggi mi sono sentito offeso ed avvilito nel mio impegno contro questo stato di cose.
E’ riemersa la categoria dell’ utile idiota, magari adesso riscopriranno pure lo scemo di guerra, il marrano, il minus quam… Utile idiota è colui che viene manovrato per un fine da cui non trae vantaggio. Credo che quasi tutti quelli che si sono scambiati l’epiteto, abbiano, in realtà, tratto vantaggio, c’hanno sguazzato, eccome se c’hanno sguazzato tra leggi ad personam e carriere altrettanto ad personam. Confesso che la cosa mi lascia indifferente nell’epiteto, ma molto meno in quello che è accaduto. E sta accadendo. Perché in realtà una possibile utile idiozia è davanti a quella parte di sinistra che appoggerà un governo che tratta solo con la destra. Di fatto da almeno tre presidenti del consiglio, gli ultimi, continua l’apertura a destra e non è come dal sarto che ti chiede dove lo porti per regolarsi, no qui si sta prendendo una piega innaturale dove la sinistra porta avanti programmi liberisti. Allora il mio dubbio è: qual’è il vantaggio della sinistra del PD ad appoggiare un governo che tratterà solo con lo schieramento a destra nel parlamento? Perché per le definizioni di cui sopra, un qualche motivo bisognerà trovarlo. Può essere un buon motivo salvare il Paese? Sì, lo è, ma se lo si salva davvero, ovvero si salvano i cittadini. Proviamo a chiedere ai ceti medi, agli operai, ai milioni di disoccupati se è stato salvato il Paese; questi qualche dubbio ce l’hanno. Poteva andare peggio? Per molti è difficile andasse peggio, per alcuni certamente. Ecco allora che bisognerebbe chiedersi chi si è salvato e perché.
Il nuovo governo farà una patrimoniale? Una legge sul falso in bilancio? Sul conflitto d’interessi? Oppure punterà a ridurre i contratti nazionali, riformare la costituzione, cambiare il titolo V e la legge elettorale? Perché c’è una differenza sulle priorità e sugli interessi preminenti dei cittadini e su questa differenza si capisce se si è utili a qualcosa che non ci appartiene e quindi idioti. Ma l’idiota che lo sa non è tale, quindi è meglio emerga questa utilità che non si vede, perché con l’emergenza si sono nascoste altre cose. La paura di votare, ad esempio, se si fosse andato a votare anziché aver fatto il governo Monti o Letta, qualcuno avrebbe vinto e portato avanti un programma di parte e certamente chi l’avrebbe votato ne avrebbe avuto utilità. Quindi non di idioti ma di persone intelligenti e determinate, abbiamo bisogno. Quello che non ha queste caratteristiche serve solo a portare avanti i problemi, a salvare chi non ha saputo fare. Ma gli italiani sono immemori, di queste cose non si ricordano e se si andasse a votare ancora una volta voterebbero per chi non ha fatto i loro interessi. Strano allora che vi sia confusione nella politica? No, purtroppo, no.
Ma quanti comunisti ci sono ancora in Italia? Ieri il numero dei novant’anni de l’Unità è andato esaurito presto, tanto che lo ristamperanno domenica. Nella mia ricerca, gli edicolanti dicevano che di buon’ora erano rimasti senza ed erano loro stessi stupiti. Strana questa cosa in un Paese in cui anche il partito a cui il giornale fa riferimento, il PD, si guarda bene dal considerarlo un modo per tenere assieme idee ed elettorato. Strano che tanti ancora ricordino con piacere e nostalgia, anche se votano altro, il tempo in cui il PCI italiano era il più grande partito comunista occidentale, difendeva i lavoratori, i diritti dei cittadini, le pensioni, e diceva che il capitalismo rende gli uomini ineguali e alimenta l’ingiustizia. Strano che la generazione dei sessantottini, che poi leggeva il Manifesto, si ricordi con piacere de l’ Unità, perché da questo giornale era partita. E’ vero quello che dice Guccini, alcuni audaci in tasca l’ Unità, era un’ostentare una diversità, un’appartenenza. Tanto che la domenica mattina si diffondeva casa per casa, anche dai cattolici che, mai e poi mai, l’avrebbero comprato in edicola. Forse sono solo i vecchi che ricordano le spinte vitali dell’ideologia, le battaglie per il lavoro e i diritti di tutti, la risposta quasi pavloviana tra bisogno e lotta, però la settimana scorsa a parlare di costituzione, i giovani non mancavano, esprimevano disagio, voglia di essere visti oltre che ascoltati. Che bello sarebbe se il giornale che porta nel titolo l’idea dell’essere insieme, della solidarietà, diventasse la palestra delle idee dei giovani, il luogo del confronto oltre le notizie. Gramsci, quando lo fondò, voleva parlare a tutti, ma soprattutto a chi non aveva parola. Era il 1924, l’anno in cui sarebbe stato assassinato Matteotti dal fascismo, che pur vincente, non tollerava la critica e il dissenso, e quindi la libertà. Sembra che la data si perda in un nulla di secoli, eppure se ci guardiamo attorno eguaglianza, diritti, libertà, hanno bisogno di voce, di essere vissuti assieme, di incoscienza dentro al basso ventre. Buon compleanno a tutti i “comunisti” che ancora lo pensano.