L’antica contrada delle beccherie scendeva verso il fiume, diventava piccolo porto e poi le pescherie. Il ponte continuava la strada medievale tra le case e congiungeva palazzi e torri. Le poche rimaste. Anche la torre a fianco dell’antico albergo al bo era stata prima privata della lanterna, rinforzata con catene e raccorciata, ma teneva ancora le campane che suonavano a carillon l’inizio e la fine delle lezioni e battevano le ore. La casa che guardava le pescherie e il fiume era sorretta dalle altre case vicine. Un crocchio di eterne ragazze che ospitavano artigiani, piccoli commercianti, botteghe, operai. La via era la traccia di un retroporto romano appena fuori delle prime mura medievali e poi inglobata nel reticolo di strade che riempivano di case e orti lo spazio tra i palazzi di professori e nobili.
La notte, complici le ristrettezze comunali, l’oscurità era morbida e si spingeva sotto i portici seguendo le imprecazioni degli ultimi arrivi dal lavoro o dall’osteria. C’era il silenzio che solo le città possiedono. Animato, robusto e sornione, custode di vite che si ritengono appartate e condividono i sospiri. La torre batteva le ore, in mezzo ad esse un respiro profondo di basso si gonfiava e poi espirava il fiato già caldo dei muri. Su quel ritmo e con quell’accompagnare, ogni canto diventava sommesso, ogni nota appropriata, ogni voce era piena di promesse e di possibilità.
Le prime voci che ancora ricordo, furono quelle della mamma, sudata, affranta, contenta. Di mia nonna, che bestemmiò piano perché non ero una bambina, di mio padre che era felice come solo lui sapeva essere. La voce di mio fratello, che uscì dal sonno e in piedi sul lettino cercò di capire il trambusto inusuale, venne appena dopo, Ed era interrogativa. Chi era arrivato a quest’ora di notte?
Se esiste una tavola periodica dei suoni che li sistema assieme ai sentimenti, quelle voci erano nella parte primigenia, quella che trasforma l’energia in materia e nella sua semplicità costruisce l’evolvere delle cose. La complessità di ciò che si estrae dalle possibilità delle vite attinge a quei suoni che sono i primi uditi, tenuti stretti come buoni, conservati per discernere le vicende di ciascuno.
O almeno così io credo sia. E a quei suoni, tanto amati e tenuti da conto, unisco ciò che era fuori di quella stanza con le imposte socchiuse e le finestre aperte. Metto la notte che percorreva la via e che ha ascoltato il mio primo strillo. Unisco il rintoccare delle tre nella campana piccola della torre, i passi di qualcuno che andava verso casa. E senza avere nessuna pretesa di capire, penso che il tempo nato allora, abbia stabilito relazioni con quei suoni, tracciato segni per ritrovare una strada su cui tornare. Sono i suoni dentro che lasciano andare e correre, gioire, capire, dispiacersi, piangere, ricominciare. Quei suoni sono una perfetta circonferenza che riporta il tempo dove è nato e dove ha acquistato il nostro senso. Ognuno di noi li ha.
Io ricordo i miei e così la notte mi parla quando è quieta e nella veglia collega voci e vibrazioni, la prima compagnia, gli amori già prima sbocciati, speciali, mai esauriti.
Penso a come l’avrebbe immaginata Rodari (un comunista allegro), la Repubblica e la sua festa. Una sfilata in cui ci fossero gli insegnanti e gli studenti, gli operai e gli impiegati, i ragazzi e i pensionati, le mamme e i bambini, i medici e gli ammalati ( quelli che han bisogno d’aria e che negli ospedali attendono d’essere guariti), gli avvocati e i poliziotti, i giudici e gli imputati, gli artigiani e gli statali, i ricchi e i poveretti, i santi e quelli un po’ dannati, gli immigrati e i razzisti, gli incazzati e i buoni, gli esodati e i pensionati baby, i disoccupati e quelli che non vogliono andare in pensione, i calciatori e i ginnasti, le ballerine e gli attori, gli evasori e i finanzieri, i ladri e i carabinieri, i clandestini e i rifugiati, i raccoglitori di pomodoro e di carciofi con in coda i caporali, gli agricoltori e i camionisti, i pastori e i lattai, i ciabattini e i commercianti, i fornai e i fioristi, i pescatori e gli artisti, i pasticceri e i salutisti, gli osti e i camerieri, i baristi e i parrucchieri, le prostitute e i clienti, gli scoppiati e i cantanti, gli onorevoli e le badanti, le commesse e i clienti, i postini e i naviganti, gli ignoranti e i sapienti e tutti quelli che non ricordo, ma che ci sono e stanno qui attorno. Certo anche i militari, ma in mezzo a tutti quanti. Solo gli indifferenti terrei fuori, i cinici e i codardi, tanto non verrebbero, troppo impegno essere tra gli altri. E così, mentre le bande suonano, i bambini lanciano coriandoli e battono le mani, il paese sfila, si guarda e scopre d’essere quello d’ogni giorno, finalmente diverso e unito.
Quando, nella notte, il sonno si ritrae, diviene fatica il sogno, l’oscurità prende la ragione, allora è forte il desiderio del giorno, unica salvezza per discernere, risposta se vi sia tempo alla vita. Forte è il peso del reale, e non è neppure la verità ma chiede alle dita della bellezza se ancora potranno scorrere, meditando pensose, sugli uomini. Se l’un l’altro potranno unire l’unità che trabocca dal bisogno.
Sappiamo troppo del mondo, ed è solo l’apparenza, per sentirne il dolore vero, la tenebra che avvolge le coscienze, bisogna ascoltare e parole terribili vengono pronunciate: ricada su di noi il sangue, ma siano sterminati. Baratri d’odio vengono aperti nella luce, odio che s’accumula ovunque, odio che rende i corpi, le menti, spazzatura d’umanita, negli sterpi gettata. Odio che toglie luce, che nega la tragedia, odio che vorrebbe essere ragione, odio che corrode, che giustifica ogni crimine, odio che uccide l’ amore che redime.
Sappiamo troppo per non provare e capire che questo non finisce che ci riguarda perché ci muta, perché lacera prima le parole e poi il silenzio. Connivenza, disumana indifferenza. Saremo travolti dall’odio senza un risveglio di pietà, senza un accendere la luce, per guardarsi attorno, vedendo gli affetti che respirano che sono con noi nei sogni. Non basta rinviare al giorno, esso porta tempo e luce e quanti di energia da spendere, per fermare l’abisso, ma vuole che ci sia argine al vuoto, che l’odio si fermi e venga sconfitto, per conservare la capacità di ridere, per amare e fare e disperdere, ma vivere, vivere e far vivere, amare e insieme vivere.
Tu mi parlavi di un’età dell’innocenza. Un azzerare il tempo che tira una riga tra un prima e un dopo, e l’età dell’innocenza non sembrava essere solo quella dell’equilibrio nel desiderio, la soddisfazione piena dove tutto è semplice e possibile.
Credo sia una tentazione (pensai), quella dell’innocenza, a cui non sfuggiamo mai, per un bisogno di essere stati prima dello sfiorire. Partire da un profumo greve di realtà, che è un intelligere il mondo, i rapporti tra sentimenti, le cose, cercando di scrostare vecchie morali consunte che mantengono ben occultati i modelli di una primigenia purezza.
Che fosse per l’uno o per l’altro bisogno, questa parola emergeva tra le tue ed era un sinonimo di bellezza. E la mia testa correva ad altre vite dove la purezza e la bellezza si erano fatalmente scisse in un continuo bere dalla coppa della velocità del vivere ed era un’impressione che nei tuoi confronti non avevo mai avuto.
Come cercare allora la purezza/bellezza (dissi), se non nel gesto puro, nel sentire puro, dove tutto si annulla nel rapporto tra chi sente la bellezza e l’oggetto di quella percezione. E quanto si complica tra umani tutto questo, nell’introdurre la comunicazione, lo stesso sentire che diventa una condizione del condividere nel profondo. Non esistono bellezze asimmetriche che portino alla purezza (pensai), le bellezze parziali sono sempre una copia mal riuscita e chi le vive sa che quel pezzo di sentire ha bisogno di qualcos’altro per completarsi. La bellezza si completa in noi (questo pensai), abbiamo noi il pezzo mancante che ci affranca dalla nostra condizione, ci rende altri.
Chi percepisce la bellezza non può restare uguale a prima e questo mutare lo rende fragile, inerme, consegnato all’incapacità di comunicare ciò che sente davvero.
(dissi) Forse allora la purezza di cui parlavi, era un rapporto con sé, un accogliere e portare dentro la bellezza e farsene riempire. E non sempre tutto ciò rende lieti (pensai), vedendo la tua tristezza. Però per alcuni era impossibile rinunciarvi, qualsiasi altro succedaneo sarebbe stato inferiore a ciò che si era sentito/provato. Era l’età dell’essere che doveva nascere. Quella che accanto al sentire la bellezza la faceva diventare coscienza di sé. Non è scontato essere sensibili (dissi) e spesso chi lo è, non vorrebbe esserlo, ma senza sensibilità l’essere diventa poca cosa.
Ma non bisogna scindere le cose (pensai), è necessario che il sentire e l’essere si fondano, che la bellezza, e l’acutezza del percepire diventino gesti, forza. Che capire ci renda indipendenti, perché (e questo lo dissi) la nostra purezza/bellezza non può dipendere da qualcuno, ma dev’essere nostra. Perché solo noi la completiamo. Possiamo donarla, se vogliamo, ma dev’essere nostra, una modalità del vivere con noi.
Cosa, quantomai fallace, molti pensano che l’età sia una misura del tempo, che essa deve essere riempita di cose e sentire comuni e che bisogna correre per provare il più possibile. Così nasce l’idea che l’innocenza non sia possibile e casomai un intralcio, che essa risieda in un tempo forse mai vissuto, ma di cui si conserva un ricordo.
Mettendo sempre insieme desideri e realizzazione, (pensai) pensano che questa sia la strada verso la soddisfazione e che questa coincida con equilibrio, pace interiore e bellezza e la scindono da quell’innocenza che sembra far d’impaccio.
E tutto ciò mi sembrò sbagliato, in sé povero di unione tra sentire ed essere. Come essere una cosa diventata che solidifica e non una possibilità che fluida, si attua, e muta in continuazione, e ha questo faro dell’unire il sentire e l’ essere e di farne per sé qualcosa di più alto e privo di connotati.
Puro per l’appunto. Ecco questo pensai e non lo dicevo, ascoltavo, e sapevo che non finiva mai il capire la genesi interiore che era ora povera, corrosa, realtà.
Poi si capisce che non si sa molto, e quel poco, ha avuto importanza un tempo, quel che è rimasto consente di continuare perché la notte è appena fuori e chiede senza mai dar risposte.
Lo ascoltavo parlare e le parole erano precise, scelte, naturali nel suo discorso. Quelle, e solo quelle, andavano bene. Tutto si sistemava in percorsi senza inutili sospensioni, il silenzio era parte del discorso, serviva a rapprendere le suggestioni, ma era la pulizia delle frasi che rendeva bello il capire.
Come in una recita dove l’attore diviene il personaggio interpretato, si vedeva nel gesto, distante dalla sguaiataggine dell’insicurezza o del mostrarsi, che l’armonia era parte di un ragionare acquisito e profondo. Sono cose che conformano il corpo e il viso, rendono gli occhi luminosi, come accade ad ogni bellezza, meritata o meno.
C’era nel raccontare, nella persona, la fusione di quella cultura ordinata dalle letture, dallo studio come mestiere e piacere. Era il buon profumo del sapere che è legno, cuoio, inchiostro, carta. E quel leggero sentore d’aria che viene dalla finestra appena aperta che si posa sugli abiti e rende morbide le lane.
Ed è già tempo e già sole col suo sentire, tostato di luce.
Pensavo in questo piacere che ascoltavo e che anch’io avevo desiderato, ma confusamente, e poi praticato con passioni poco educate e collocate nel disordine. Le mie carenze erano un vissuto mescolarsi di colpe, sudore, piacere, ricordi, fatiche abborracciate nella scarsa soddisfazione di allora. Avevo disseminato il mio tempo senza risparmio, trattenuto con rabbia il poco e perduto altrove il molto ricevuto. E se questo m’indicava che un’altra vita sarebbe stata possibile, non me ne spiacevo, perché altrimenti avevo vissuto. E potevo ascoltare, e capire quel ragionare. Potevo goderne. E pensavo che, in fondo, la vita non poteva essere tutte le proprie possibilità, o avere tutto, ma poter godere del bello che c’era intorno a noi.
Prima ci furono cortei, discussioni, dibattiti, scontri. Ma erano nelle grandi città, con minoranze rumorose, la gran parte del Paese era contraria a una guerra. Lavorava, faceva fatica ad arrivare a fine settimana senza fare debiti, cercava di crescere i figli sfamandoli e tantissimi neppure sapevano di che si parlava. Così a molti sembrava che le voci di guerra fossero cose distanti. Quel vociare, quei proclami e articoli infuocati, non avrebbero cambiato le vite. Nei giornali si scriveva che erano state confermate amicizie con Austria e Germania, ma l’Italia restava neutrale. In segreto si stipulavano nuovi patti segreti, ma questo non si diceva e il popolo non sapeva. Capiva però che comunque, altrove, la guerra era scoppiata. Sembrava ancora qualcosa di lontano, un rombo di temporale che mostra un fulmine senza pioggia e intanto si spera che ci girerà attorno. C’era timore perché sentivano che non ci sarebbe stato nulla di buono in ciò che arrivava, ma si sperava che il parere contrario dei molti sarebbe stato ascoltato, e non era evidente che era meglio la pace?
Poi qualcuno decise perché pochi interessi grandi contano più di tante piccole speranze e vite, perché pochi rumorosi contano più di tanti silenti.
Così cominciarono i preparativi, le cartoline di precetto, le esercitazioni. Ma anche in questa situazione che cambiava, tutto doveva durare poco. Intanto erano mutate alcune opinioni, per i più convinti c’era una ragione altissima, per tutti gli altri un obbligo e l’impossibilità di sfuggirgli.
Forse questa era la prima violenza.
Scoppiò il 24 maggio e vennero gli addii, che dovevano essere arrivederci. Tantissimi addii, come mai prima ce n’erano stati.
Poi ci furono tantissime giornate senza pericolo e tantissimo pericolo in poco tempo. Ma tutto questo, in quell’abbraccio ai piedi di un treno, ancora non si sapeva. C’era già una lacerazione da lontananza di affetti in chi si abbracciava, un bisogno che cresceva con la paura, e ogni saluto aveva il sapore dell’ultimo. Ogni ricordo nei giorni, nei mesi successivi, sarebbe stato avvolto da quella paura, nata a partire da un abbraccio.
E allora, ovunque, una solitudine infinita avvolse donne e uomini. Non bastava essere assieme ad altri, aver cose da fare, figli da crescere, lavorare. E d’altro canto, al fronte, non bastava spostarsi o stare fermi, scavare trincee o sparare a ogni cosa che si muoveva. Non bastava perché ciò che doveva finire non finiva, ciò che si desiderava non accadeva, e la solitudine diventava immensa e con essa cresceva un’atonia che prostrava, un dover motivare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto la speranza.
Sfuggiva la speranza e restava la solitudine e la paura.
I giorni di quiete al fronte erano tantissimi, mentre quelli della paura infinita, pochi, ma così concentrati che le vite si consumavano a balzi di dieci, venti anni in un giorno, in un’ora. Quando tornarono, chi tornò, erano tutti vecchi.
Una cosa già si sapeva il 23 maggio: sarebbe accaduto un disastro. Ma anche un disastro si spera passi presto, che le cose tornino come prima, ciò che non si sapeva era che sarebbe durato talmente tanto da non avere mai fine.
Per questo una banchina di stazione dovrebbe diventare il simbolo, il sacrario delle speranze infrante.
Il luogo, il tempo, l’amore in cui gli affetti si saldarono in un abbraccio fu l’unica cosa umana in tutto quello che stava accadendo.
Se ogni uomo sogna d’essere Odisseo, almeno in qualche parte della sua vita, esso porta alla coscienza il desiderio e lo trasforma in agire. È ciò che pensa e fa, questo è la cifra di ciascuno. Nel romanzo “col soffio delle piume” di Francesca Sapienza, l’avventura del vivere è nel percorso apparentemente limitato del protagonista. Non ci sono le grandi distanze ma le “stanze” degli uomini e delle donne che sono oltre i personaggi. Ciascuno di essi incarna la risposta a una domanda esistenziale e ciascuno di essi ha una risposta che s’addentra nello spirito del protagonista. Se Ulisse è un costruttore di cose che sono altro dall’apparenza, maestro d’inganni, il protagonista è raccoglitore di verità che sente diverse da sé, costruttore di barche destinate a percorrere e a racchiudere la vita nel loro interno.
La casa spoglia in cui vive è la raffigurazione del partire. Ogni casa può divenire una stazione e in essa si può accoccolare il possibile, il kairos, ciò che può ancora accadere. Così il confronto con l’inconoscibile, il segno delle piume, diviene un percorso parallelo dove la strada è indicata dalla presenza della proiezione di sé, di ciò che è ancora vincolo per lo spirito, una sorta di discesa senza inferi e dove la forza di Odisseo è quella di conservare il senso del proprio andare. Questo gli consente di navigare con i propri dubbi tra le domande e le contraddizioni degli altri personaggi. Non c’è una verità, c’è una strada, un insieme di debolezze e di ribellioni, di tensioni che fanno vibrare l’aria pur usando parole che sono nel lessico di chi legge. Il protagonista compie un percorso interiore che non finisce, le scelte fatte sono occasione di un nuovo ordine vitale. Come un’analisi ben riuscita, tutto muta ma nulla è definitivo. Questa analisi dell’animo maschile fatta dall’autrice, mi affascina proprio perché nasce in una donna, c’è una pietas che osserva e capisce. Le donne del romanzo sono portatrici di ribellione e di conformismo, ma sembrano cercare più una pace, un consenso interiore che coincide con la sosta definitiva in un luogo, piuttosto che il viaggio. Risolti i problemi che annodavano le loro vite, ora possono essere se stesse. Questo non appartiene a Odisseo, che è un ordinatore, un costruttore, a lui resterà l’andare. Sia pure per stanze, per incontri, per persone che si rivelano spesso altro dall’apparenza, per lui è la strada che scioglie gli enigmi, che concilia lo spirito con la materia, con il corpo. Sono passi successivi che diventano stati di coscienza. E anche quando trova in una persona semplice l’equilibrio del vivere, una piuma gli ricorda che anche quella condizione deve essere in sé stessi, non può copiarla o farla propria perché il confronto è con il proprio profondo.
Il bisogno di andare è il bisogno di trovarsi, di costruire ciò che può navigare nella vita dove lo sconosciuto è sempre un volto di sé non ancora esplorato e con cui trovare una nuova sintesi vitale.
Ho letto e riletto il libro con il piacere della scoperta di sentirlo parlare con accenti diversi. Sono grato a Francesca Sapienza per avermi distolto dalle analisi e dalle vite delle mie letture, portandomi nella riflessione. E questo in un fluire che diviene denso quando le vicende si annodano nel dolore delle storie e nuovamente scorrono nel procedere delle vite. Anche i luoghi della serenità non sono definitivi, ci sono altre tappe da raggiungere. Altra vita da vivere. I disegni dell’autrice sono parte del romanzo, li avrei preferiti senza lo sfondo grigio, in quel bianco che è la pagina non scritta e che incontra i dubbi di chi legge. Credo che ogni lettore possa trovare nella scrittura fluida e apparentemente semplice, il genere che lo rappresenta, perché “con il soffio delle piume” è una guida interiore in forma di racconto, un giallo che ha materia e apparente colpa, un romanzo che conduce per racconti di personaggi che si rappresentano e compongono una coralità. Ulisse non ha nome, è nessuno e quindi tutti, naviga tra le vite e le domande che esse esprimono, è affascinato dallo spirito che lascia tracce e trova in esso la materia per continuare il proprio viaggio, anche dopo le colonne d’Ercole, anche dopo ogni epilogo che non è mai tale finché vita continua.
La palla volò altissima. Le teste dei piccoletti sollevarono il naso e la videro ben oltre le cime degli alberi. Ventidue piedi confusi, furono disattivati dagli occhi. E che occhi! Prevalentemente neri, grandi, intenti a parlare con i pensieri bambini e con qualche preoccupazione saettante. Logica della palla e previsioni senza scotto d’errore. Cadrà? E dove?
Devo tornare a casa, ha pensato qualcuno, improvvisamente sommerso dai divieti infranti.
Che bel sole ed è quasi sera, ha pensato un altro, innamorato del tempo per giocare, per stare assieme.
Entrambi e chissà quanti altri, volevano vivere come sanno fare i bambini quando il tempo non conta e gli occhi vedono tutto.
Verde e gialla, la collina retrostante, era velluto d’erba ed alberi pieni d’ombra.
La videro anche i due vecchi, e si allungarono sulla panchina al bordo del campo, scambiandosi un silenzio. Tra chi aveva già detto molto, succedeva, ed era solo la noia del sentirsi dire.
La palla infine cadde (solo il tempo era sospeso), con uno sbuffo di polvere, due rimbalzi stanchi e si fermò in attesa. Allora tutto si rimise in moto: piedi, voci, sudore nuovo di zecca e tra pedate e speranze il pallone s’ avvicinò all’unica chiazza d’erba, vicino al corner di sinistra.
Lì, per qualche oscuro disegno del creato, la vita e l’acqua avevano trovato un accordo e il campo da gioco assomigliava a se stesso con l’erba fresca e rasata.
Pensieri di un perditempo ai bordi di uno sperduto campo da calcio mentre mira l’anestesia del particolare, e dilaga ricordi la sera.
Figlio caro, questi anni sono scuri, pozze immani di disumanità che sembrano non finire. Non ci sono certezze, mentre vorrei per te una stagione di grandi speranze dove la tua vita, quella dei nipoti e poi avanti nelle generazioni, fossero un crescere di umanità che si riconosce, collabora, convive. Può essere questa, la migliore delle età, la prima di altri tempi e stagioni buone perché mai come adesso abbiamo conoscenza e tecnologia che possono essere portate al benessere comune.
Come quando eri bambino, la sera, vorrei raccontarti le storie in cui entrambi credevamo, usare le parole squillanti della speranza che ritrovavamo al mattino e invece ho capito che la speranza è una conquista quotidiana, che ha bisogno di riflessione per farsi trovare. Non è che non ci sia, ma ora c’è una fatica maggiore della speranza che la mia generazione non ha conosciuto. La mia età giovanile ha avuto negli anni ’60 una speranza che non solo alimentava il fare, ma faceva trovare occasioni vere, lavori solidi che permettevano di costruire futuro e progetto personale, ed era lì, ogni mattina che ti attendeva. Per questo forse potevamo criticare così profondamente il sistema, le convenzioni dei nostri padri, il potere, le parole vuote che ci circondavano. Potevamo ribellarci perché il futuro era a portata di mano, lo si poteva toccare e cercare di cambiare, mantenendone la possibilità che ci riguardava. Quella che è stata sottratta a te e ai nipoti è stata anche questa capacità di critica profonda, il credere che cambiando la politica, il potere, cambiassero i rapporti tra le persone, e che insieme si stesse più bene. Non riesco a capacitarmi come noi, padri, madri, non siamo stati in grado di vigilare mentre il Paese andava a rotoli. Per egoismo, forse, ma ancor più per incapacità di capire, isolati come eravamo, nel pensare alle rivoluzioni tradite, persi nei nostri libri, nella musica che parlava di noi, nel pensare la nostra meglio gioventù, mentre ci sfuggiva la vostra giovinezza, la vostra capacità di creare il nuovo. Noi quel nuovo che cercavate di mostrarci, fatto delle prime difficoltà della nuova stagione della politica, non lo capivamo, eppure avevamo e abbiamo bisogno di voi, ora come allora, ben oltre l’amore. Abbiamo bisogno della vostra freschezza, della vostra visione del reale. Siamo diventati ciechi e la realtà ci sfugge e così ci sfugge la percezione di ciò che è necessario fare. Non può essere altrimenti visto che abbiamo lasciato precipitare la situazione al livello attuale. Un Paese, il nostro, nelle mani della destra e di donne e uomini che non colgono i problemi veri, ecco quello che siamo stati in grado di produrre con il nostro non vedere. Eravamo già ciechi prima. Quando cadde quel muro la polvere invase tutto. Non solo la politica, ma la vita, quella di tutti i giorni. E tu, voi, eravate piccoli, mentre noi pensavamo, non eravamo, pensavamo che sarebbe finito presto, che si sarebbe riaperto tutto dopo gli anni craxiani della Milano da bere e dei rampanti. E che quell’ondata di pulizia, così diversa dalla nostra, fosse rigeneratrice proprio per quel suo provenire dall’interno, dai giudici per bene, non quelli fascisti che avevano per decenni insabbiato tutto. Un Paese nuovo senza corruzione né raccomandazioni, e questa cosa riguardava anche te, voi, che eravate adolescenti, ma sareste cresciuti in un futuro pulito. Vostro e nostro, assieme. Ci sbagliavamo. Noi, i padri e le madri usi ai cortei, alle manifestazioni, ci sbagliavamo. Quel muro crollato lontano, in realtà travolse noi, non il malaffare e i ladri di futuro, mascherati da giustizialisti uscirono allo scoperto. Chi si era già intruppato ne approfittò per emergere, gli altri, noi, cercavamo di capire. E non capimmo. Le nostre vite si sono riempite di bugie, fuori bugie grandi per occultare, dentro bugie piccole, omissioni, per vedere ciò che ci sarebbe piaciuto. E le bugie oscuravano la realtà. Mi sono chiesto come questo Paese abbia potuto diventare tanto indebitato e ineguale. Sono giunto alla conclusione che l’ineguaglianza è l’indice della perdita della misura del giusto. Mi chiedo dove eravamo mentre la giustizia veniva vilipesa da un uomo che si faceva beffe dei giudici e dei tribunali. Dove eravamo quando le grandi aziende, il sapere del fare cose complicate, venivano vendute. E quando la chiesa riprendeva a dettare le agende di governo, scopertamente, senza ritegno, dove eravamo. E quando cadevano i nostri governi per mano amica, quando non si facevano le leggi sui conflitti d’interesse, quando si taceva sulle quotidiane bugie sull’economia, dove eravamo. Eravamo confusi, sembrava che bastasse attendere e tutto sarebbe passato, che quanto accadeva fosse esterno alle nostre case, che dentro non succedesse nulla. Non era così, Figlio caro, e mentre la muffa fuori ricopriva le cose e le idee, quella stessa muffa penetrava nel nostro modo di vivere. Abbiamo via via accettato l’idea di non essere molti e determinati, ma singoli dentro al nostro naufragio ideologico. Sì, ci siamo lasciati convincere che noi eravamo i naufraghi, il nostro mondo, i nostri valori. Gli stessi che vi avevamo trasmesso e allora abbiamo cercato di proteggervi di più. Ci siamo illusi di potervi bastare, di essere sufficienti perché la muffa non entrasse nelle vostre vite, finché qualcosa, noi o il tempo, avrebbe rimesso in ordine le cose, pulito il mondo comune. Per questo eravamo impegnati a difendervi e difenderci. Ci siamo sbagliati, quel mondo che per noi era sbagliato, stava diventando il vostro. Abbiamo vissuto in un’altra realtà, in altre speranze, ma il mondo vero, in cui agire, era il vostro, quello che diventava sempre più grigio, sempre più chiuso. Ciò che era stata una conquista, la scuola per tutti, diventava un’ulteriore diseguaglianza tra chi, dopo, avrebbe avuto un “padrino” e chi, invece, sarebbe stato affidato a se stesso. La stessa sanità per tutti, si avviava a non essere tale e diventare fonte di un potere inscalfibile. Questo ci faceva abbarbicare alle cose, al già stato più che immaginare il nuovo. Quello che era il nostro mondo migliorato da tante lotte sembrava non bastare. Eppure noi volevamo per voi vite normali e felici, esistenze che passassero attraverso la realizzazione di sé in una società amica. E invece quel mondo e quella possibilità cambiavano e noi non l’abbiamo capito, forse persi nell’illusione di bastare, di riuscire a conservare il buono raggiunto e cambiare le cose con la volontà. Ci siamo lasciati separare, scindere le vite e la comunicazione, mentre avevamo e abbiamo bisogno di capire e camminare assieme a voi, di condividere la realtà e la speranza. Quella nuova, quella da costruire. E’ tardi, ma non ancora troppo tardi, siamo vecchi e non domi, tu sei sano, molti di voi sono sani e non ancora rassegnati. Non basta più attendere che passi, abbiamo bisogno di voi. E voi, forse, di noi, perché ci sia qualcosa di nuovo, perché tutto non sia già visto e scontato. E’ con amore che lo penso, l’amore fuori discussione che non impedisce di vedere la realtà. Il mio può sembrarti un discorso da reduci, ma non siamo tali perché la guerra non è finita e non abbiamo vinta una sola battaglia. E poi sono così noiosi i reduci, raccontano il passato e non sanno vedere il futuro. Spero che tu capisca che abbiamo bisogno di voi e non siete soli, ma che dovremo fare uno sforzo per immaginare qualcosa di nuovo, qualcosa che spinga avanti, che ci porti fuori dalle case, che faccia cambiare l’umore del Paese. Ne abbiamo bisogno tutti, voi per immaginare un future che vi appartenga, noi per non aver sbagliato troppo. Per questo ti chiedo di camminare assieme, di riprendere ciò che si è lasciato cadere e che sono i nostri ideali, di unirli ai vostri, in una visione del mondo che sia più grande di noi e che meriti i nostri sforzi, il nostro impegno. Con amore e con speranza al lavoro e alla lotta.