la ruota del tempo

Il movimento della ruota del samsara, del procedere del tempo, che immagino cigolante e disassata come quella di un vecchio carro che continua ad avanzare con l’inesorabile fatica del dovere, è immagine dello scorrere.

Da noi c’è il fiume del tempo in cui si perde lo sguardo quando la foglia o il tronco non sono più il punto a cui ancorarsi per impedire d’essere noi stessi scorrere.

Un ruotare cigolante è meglio del flusso dove la scelta è l’essere parte oppure l’osservare?

Si capisce che quell’osservare è lo stesso che Nietzsche guardava nell’abisso: se si guarderà troppo il flusso esso volgerà gli occhi verso di noi e ci guarderà, perdendoci. Quindi sembra che la scelta migliore sia essere nel flusso. Non so se esso coincida con la dittatura del presente, ovvero questa continua ricerca del provare e della coniugazione del verbo essere, oppure se sia un affidarsi, un lasciare che le cose accadano con noi. Il carpe diem, non era privo di passato e aveva un futuro, insegnava a godere di ciò che si conosceva e nel suo farsi con una direzione. Od almeno così l’ho inteso, perché negli apparenti ozi poetici, gli amori si impegnavano, le intelligenze inerpicavano nuove vette, e le armi del potere correvano. Insomma il carpe diem era nel flusso che ricordava la sorgente e andava al mare. Affidarsi per godere del giorno, oppure osservare affascinati lo scorrere, questo il tempo che scorre lineare e non si ripete.

Altrove il tempo era ed è altro. 

Per la ruota del tempo e il mondo, nei suoi fatti apparentemente asincroni, diradare le nubi, capire, implica l’azione. È una condizione strana che accetta e al tempo stesso agisce perché vedere la sofferenza del mondo comporta uscire da quella rappresentazione pratica della paura che è l’indifferenza.

Per entrambe le cognizioni del tempo, nessuno ci chiederà conto con sufficiente forza prima di noi stessi, di ciò che abbiamo fatto per gli altri in noi.

Sankhara dukkha, è la sofferenza che si esprime in ciò che vive, una condizione leopardiana letta nell’oriente che non è mai privo di sofferenza. Noi più banalmente la possiamo confondere con la malinconia della consapevolezza. Ciò che vive esige cura.

La ruota gira e cigolando chiede attenzione, non all’utile ma al giusto per sé e gli altri.

Noi del tempo non sappiamo nulla. Abbiamo desideri, pulsioni mascherate in voglie, e una paura incoercibile che ci riguarda. La ruota vorrebbe ci lasciassimo andare, che assecondassimo il daimon che ci parla, troppo spesso inascoltato. Non bisogna abbandonarsi alla sofferenza ma trovare la traccia che da dentro porta verso un vedere gioioso.

Qui sembra, ma non è così, che le rappresentazioni del tempo trovino una coincidenza, ovvero lo scegliere chi essere.

E il tempo che ci chiede l’abbandono contiene il suo contrario ovvero l’azione che sprigiona il daimon del nostro destino. Abbandonarsi a sé coincide con la consapevolezza che scandiamo il nostro tempo, mai poco o troppo, è nostro e riempibile. Come lo si colma è tema di ciascuno ma a nessuno è risparmiata la malinconia e a nessuno manca il suo antidoto dell’affidarsi a sé, agendo.

http://https://www.youtube.com/watch?v=unlE0BfkL8c&list=PLscGADy0KN4kqDmqQ5OVhrBlYGzJ_-pEf

la festa della liberazione

Il palco era collocato in una posizione inedita, tra l’università e il municipio. Guardava entrambi come se la libertà riguardasse il sapere e l’amministrare. L’università medaglia d’oro della resistenza da cui era partito il richiamo alle coscienze di chi aveva asservito anche il sapere alla dittatura. Il municipio avrebbe aspettato il 28 aprile per cambiare idea, non molti cittadini che ritrovarono nella parola libertà il modo di fare i conti con se stessi e con le proprie scelte. Questo pensavo mentre i discorsi proseguivano e il cerimoniale, così rigido e anacronistico, scandiva il susseguirsi delle corone da porre davanti alle lapidi dei caduti; la retorica evaporava significati che invece dovrebbero essere parte delle vite.

E così guardavo la traduttrice per la lingua dei segni, i suoi gesti che erano parole sintetiche e così esplicite da riassumere, non il ieri raccontato, ma l’oggi. La costrizione, il suo rifiuto, il disastro dei corpi e degli spiriti, l’ascesa della libertà, il dentro e il fuori, rappresentati e chiari nella nettezza delle mani che raccoglievano il senso e lo redistribuivano. Ero affascinato dal suo muoversi controllato ed essenziale, che non era un riassunto, ma il senso per quanti erano sordi. Le sordità e l’indifferenza senza gesti che le richiamino alla coscienza sono nei fatti, sinonimi. Adesso l’oratore parlava delle ultime, ancora più inutili stragi, delle torture efferate che si erano svolte in un palazzo poco distante, e le mani riportavano a sé quel dolore che le parole dovevano esprimere. Non erano cose lontane, in altri luoghi stava accadendo lo stesso. Resistenza e libertà, venivano prima l’una e poi l’altra e non erano gratuite.

Bisognerebbe avere coscienza che gli uomini sono unici quando viene praticata l’eguaglianza, l’asservire toglie ad essi la loro unicità ancor prima della libertà.

Le parole e i gesti della traduttrice aiutavano a riflettere, a considerare che fruivamo  di un privilegio che non era costato nulla ai figli e ai nipoti ma molto ai padri.

La religione della libertà di Croce mi è tornata a mente quando è stato evocato il nome di Antonio Gramsci, il cervello a cui doveva essere impedito di pensare, secondo lo stesso Mussolini. Oggi è l’anniversario della sua morte, ma quel cervello non smise mai di pensare, restò libero preparando la libertà di altri.

Così la cerimonia ufficiale finiva tra battimani e fanfare, si formavano i capannelli di persone che si conoscevano da sempre. Molti sorridevano perché si era sentita una giornata differente. Guardavo la traduttrice che ora parlava con le autorità, c’erano molti militari sul palco e pensavo che le sue mani, ora quasi ferme, avrei voluto spiegassero di nuovo quel gesto che aveva fatto alla fine. Sì, quando era stata chiesta, per la pace oggi minacciata, un’ azione agli uomini liberi, lei con le mani, aveva mimato la colomba che vola verso il cielo e mi era sembrato bellissimo.

a proposito di auguri

Gli auguri han iniziato ad arrivare mercoledì. Prima quelli automatici di chi non ti conosce, la scelta è urbi et orbi, ovvero messaggi standard e ognuno ne fa quello che vuole. Funzionano lo stesso gli auguri così? Non so, non credo. Giovedì c’era già una discreta raccolta di messaggi. Però iniziavano i consapevoli, ovvero quelli per cui sei un viso e un nome associato. Però restavano standardizzati.
Se restiamo all’ambito religioso glovedì, per chi crede, c’è la cena Domini e deve ancora avvenire la passione. Il corpo del Cristo è integro, non c’è ancora flagellazione, dileggio, tortura, solo incomprensione con i discepoli e una solitudine estrema con la consapevolezza del destino proprio e l’angoscia. Lo ricordo ad uso dei cristiani o dei presunti tali. Insomma di giovedì si dovrebbe meditare su altro, ovvero sulla condizione dell’uomo piuttosto che togliersi il pensiero degli auguri. Ma se le cose diventano rituali è meglio prendersi avanti, arrivare primi dà soddisfazione e toglie un peso. Cosi in questi giorni il flusso di auguri è aumentato e credo raggiungerà il massimo domani ma a chi e perché vanno questi auguri, chi li fa dovrebbe chiedersi cosa significano per chi li riceve, se è un ateo, un agnostico, un appartenente ad altro credo religioso. Dovrebbe chiedersi se un fatto importante può essere condiviso in funzione del simbolo e dell’umanità sottesa. Dovrebbe ma non avviene, e così gli auguri non hanno alcun significato e si va da un estremo all’altro, dal proliferare di auguri di buona Pasqua ai non credenti come il sottoscritto, sino alle iconografie buone per la scampagnata di lunedì con raffigurazioni di agnelli, uova e gatti. Qualcuno la butta sull’umorismo che ripesca qualche vecchio luogo comune sui comunisti, questo magari mi conosce e mi mostra Stalin che consiglia di salvare gli agnelli mangiando bambini.
Quindi una congerie di messaggi con la parola auguri destinati a tutti dove ognuno prenda ciò che più gli aggrada e soprattutto eviti di riflettere e trarre conclusioni da ciò che viene evocato.
Strano perché mai come ora l’umanità è in una fase di passaggio, va verso qualcosa e quindi la festività ebraica dovrebbe evocare qualcosa. Forse se si parla di umanità sembra che parliamo di qualcuno che è distante e non comprende le nostre vite, e invece ci siamo dentro tutti fino al collo: dove stiamo andando? La morte e resurrezione dei cristiani non era una novità nel mondo antico, più o meno tutti cercavano una scappatoia per evitare la fine del proprio tempo, anche i paradisi non erano infrequenti, magari con diverse gioie ma una restava comune ovvero il reincontro di chi era stato caro. Ci si era dati da fare con la testa per cercare una soluzione all’irreparabile. Ho un grande rispetto e sento il fascino di questa religiosità che cerca di mettere assieme il trascendente con la vita, la sofferenza e il tempo. Il cristianesimo propone la morte del Cristo per espiazione del male compiuto da altri e la resurrezione, mica cosa da poco in una visione basata sull’oggi, sul transeunte che vuole diventare materialmente eterno. È questo che viene augurato? Non lo so proprio, forse dove c’è consapevolezza delle parole si augura un inizio, un nuovo che si apre come conseguenza del passaggio.
E allora se questo è l’augurio che non chiede di credere, vediamo un po’ dove siamo visto che siamo in cammino.
Il mondo è sull’orlo di una nuova guerra, ci sono prove di forza e apprendisti stregoni all’opera. Vengono sperimentate armi inaudite, la tentazione di usare l’arma di cui dispone è sempre troppo grande per un militare e per un innamorato del proprio potere. Vale in ogni parte del mondo e genera effetto domino. Troppo complicato parlarne? Parliamo d’altro. L’umanità è arrivata al più alto numero di componenti mai registrato sulla terra, 7.2 miliardi di individui. Siccome le risorse disponibili, pur sufficienti per tutti sono mal distribuite nasce un problema di logistica, non arriva il necessario dove serve e chi si trova ad abitare in quei luoghi si sposta verso il necessario. O così o muore. In questa fase di passaggio loro sanno dove andare ma gli altri che non hanno lo stesso problema dove vanno? Troppo complicato anche questo per collegarlo agli auguri? Passiamo ad altro. La tecnologia confusa dai più con il progresso ovvero l’avanzamento comune dei popoli, continua a sfornare prodezze, una è quella da cui sto scrivendo. Non ha limiti di applicazione la tecnologia e genera ricchezza e quindi entra in medicina e risana, nelle comunicazioni e fa del mondo un villaggio globale, entra nel lavoro e innova le modalità del produrre oltre che i prodotti. Le fabbriche automatiche cominciano a diventare realtà e quindi il costo del lavoro non sarà più il motivo per delocalizzare, la tecnologia riporta a casa i prodotti ma non crea lavoro, anzi ne distrugge. Verso quale lavoro stiamo andando? Questo è un altro dei temi del passaggio in corso. Potrei continuare con l’evoluzione dei sistemi politici, le biotecnologie molecolari, l’insicurezza crescente nei grandi agglomerati urbani, l’inquinamento e il cambiamento climatico, ecc.ecc. ma a che servirebbe se non a dire che stiamo andando verso qualcosa di nuovo e non necessariamente buono. Il Papa dei cattolici da tempo enuncia questi temi, lo cito perché mi pare l’unica voce alta che si pone un problema molto laico ovvero la vita e l’equità. E mi pare che dica che i problemi dell’uomo devono essere risolti dall’uomo secondo buona volontà e giustizia. Gli uomini di buona volontà non mancano solo che sono disgregati, non si riconoscono come comunità, fanno e non chiedono mentre dovrebbero anche chiedere a chi sta sopra di loro di essere più giusti, di vedere che non si sta bene, che l’insicurezza cresce e diventa fonte di ingiustizia, di separazione tra gli uomini. Se l’augurio che ricevo riguarda queste persone, quelli che sono in passaggio ma si pongono il problema di dove andare e di star bene allora li accetto e lì ricambio sennò risparmiate tempo e caratteri, lasciatemi perdere.

 “Pasqua è voce del verbo ebraico ‘pèsah’, passare. Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste”. 

Faccio mie le parole di Erri De Luca e a chi è in cammino dentro e fuori di sé, auguro giorni nuovi, coscienti, sereni, oggi e sempre.

amo l’inutile e il suo riempire la passione

Amo l’inutile che riempie di fretta le passioni:

inutile come le cose che ci cambiano davvero
inutile come le parole che sono solo nostre e di chi le ascolta,
inutile come parlare nel buio,
Inutile come una lingua morta che rivive dentro,
inutile come tutti i libri che contano davvero e parlano di noi,
inutile come essere la minoranza della propria ragione,
inutile come il presente che non osa,
inutile come una recensione,
inutile come l’amore che non può crescere,
inutile come il tempo non usato.

Inutile, amo l’inutile, il privo di senso che si cerca, il limite che si supera, la paura che lo precede, il tempo che verrà e quello che ho usato senza senso. Apparentemente.

In questa immensa catasta di inutilità incombuste arde il senso che solo nel gesto gratuito ci sia grandezza e che quando si è troppo ragionato, l’intuito si sia rintanato offeso. L’errore ha dovuto essere giustificato e un senso di sconfitta rimproverata ci ha preso. Eravamo sotto giudizio, la cosa più utile per dire che non eravamo. Ecco, l’utile ci dice ciò che non siamo per davvero.

similitudine

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Come d’improvviso, nella foresta, il sole sceglie un albero mentre gli altri sono al buio e poi un altro e un altro ancora, così sembra operare la fortuna. O il caso, ad essa sodale. E invece non è così perché ad uno ad uno il sole percorrerà i tronchi secondo angoli celesti che pur diversi si ripetono. E gli alberi ne profitteranno per trarne energia e richiamo ad animali, per viverne assieme la luce e proseguire tempo e specie, anche distante perché è così che l’apparente immobile si muove: tramite altri che da esso traggono vantaggio.
Così per noi, nell’essere illuminati dall’occasione, è il coincidere che conta, ovvero quell’assestarsi dei tempi che porta il desiderio nell’accadere. Ed è un tempo circolare che pur non s’assomiglia ma si ripropone. In esso troviamo ciò che può accadere purché lo si colga, e anche ciò che non è accaduto, e a questo serve la memoria: a permettere che, diverso eppur simile e attuale, il desiderio accada. Purché davvero lo si voglia.

il tempo del gatto

Se mettessi in fila le cose fatte, i fatti accaduti, i pensieri positivi e gli incubi, gli amori possibili e quelli reali, le emozioni provate e quelle rifiutate, ne verrebbe fuori uno scorrere arruffato, incoerente, che ha una direzione in forza di necessità ma che potrebbe rovesciarsi all’indietro come la cresta dell’onda che ghermisce e si ritira.
E tutto questo sarebbe il passato e quell’oggetto di maquillage che chiamiamo memoria? Pensò. Tutto questo gomitolo arruffato da un gatto, noi lo pensiamo lineare e consequenziale con un prima e un dopo? Ma che stupidaggine presuntuosa, pensò, che modo di semplificare ciò che in realtà è un fronte grigio e compatto che investe e sbatte a terra il presente mentre con dita da orologiaio scaviamo in questa massa apparentemente uniforme ed estraiamo ciò che potrebbe servire a una difficile gestione del presente. Insomma troviamo giustificazioni a ciò che accade come succede nelle famiglie deboli che cercano non la differenza per gli scapestrati ma qualcosa che ne giustifichi l’irrequietezza. E scavano nel passato alla ricerca di una similare anomalia, senza rilevare che l’antenato che poteva sfogarsi in Africa ed esplorare a piacimento oppure cimentarsi in una guerra delle tante che servivano a dare un senso agli imperi era si irrequieto ma anche seguiva una singolarità che in casa non trovava posto. E se non c’era qualche esistenza irregolare per la bisogna persino un monsignore, un prete di rango o uno storico erano utili purché avessero quel giustificare dell’essere controcorrente che sarebbe venuto dopo in se.
Ecco allora che il caso si riduceva a poca cosa, che il libero arbitrio era la scelta se conformarsi o meno. Che il sentimento giustificava il piacere o la sua negazione e in questa creatura così ricca di possibilità e imprevedibile, cosa veniva seguito, perché approvato, se non l’utile che pur si poteva estrarre. E per lui poteva essere vero, allora, solo la fuga nell’inutile come atto di ribellione senza futuro. Utile e inutile al medesimo tempo. Come il bicchiere di rosso bevuto con una occasionale conoscenza che si rivelava più del necessario nell’effetto dell’alcol, oppure nel mormorio delle parole che tracciavano segreti e risatine, nei tavoli vicini, o ancora nei particolari visti, nei colori, nei segni che sembravano preludere a qualcosa che sarebbe forse accaduto.

Di tutto questo ciarlare basso, di molto d’altro che non si poteva descrivere se non accettandolo in blocco come la pietanza cucinata di cui si riconosce profumo, consistenza e gradevolezza, ma non il singolo aroma mutato dal calore o la cottura improvvida o sapiente generata da distrazione o amore, se non nel risultato,  di tutto questo, pensò, si poteva solo dire che era quella particolare realtà che gli apparteneva. E non era d’altri che sua. Ricca o povera agli occhi di chi con distrazione la notava, quella realtà era ciò che possedeva e mischiava col passato e col futuro in un gomitolo multicolore e inutile. Un gomitolo privo di senso se non per il gioco del vivere. E allora si senti libero come un gatto, gestore di desideri che si appagavano o spegnevano ma così intrisi della sua gattesca natura da essere l’unica cosa possibile. Anche nella scelta restava se stesso, unico e irripetibile. E se lo ripeté per riempire d’aria i polmoni con questa consapevolezza: unico e irripetibile.

primavera

Le libertà sono allegre,
Impastate di bianco
come petali che il vento distacca
e sparge per gli occhi nell’aria:
un gesto piccolo di lontananza
per generare le vite.

la misura geometrica dell’amore

Un’amica rifletteva sull’amore, e pensando a come andavano le cose, diceva fosse cosa sempre doppia per aver titolo d’esistere. E ancora poneva il fatto che dentro questa parola ci fossero le identità che si trovano, integrano, fondono.

Anche, ho pensato.

Però mi pareva che l’amore fosse pure un segmento che unisce due estremi e che nell’infinita serie di punti che li congiungono, ciascuno si potesse trovare, nella misura e nel senso. E a volte l’uno sorpassava l’altro, altre mancava un pezzo, ma ciò che contava era il fatto dell’andare verso l’altro e che il segmento fosse comune.

E poi la discussione è continuata.

fantasmi in rosa e il rosso

Questa mattina ci si è persi tra la festa (improbabile vista la ricorrenza e la sua genesi) e la giornata celebrativa.

C’erano sempre le donne che seguivano il ricorrere, ma non poche pensavano il rincorrere. Allora oggi era una rincorrenza? Macché, a guardar bene, sotto le discussioni s’agitavano consapevolezza e libertà. E se non dappertutto si discuteva, se i termini del discorso erano diluiti, rivendicati, accettati come processo in azione, se tutto questo era in questo angolino di mondo, però, però… una qualche differenza c’era. Insomma qualcosa accadeva e continuava ad accadere. Ma c’era un altro però e nel fare la prova finestra si notava (tutti, femmine e maschi, chi con dispetto, chi con sollievo, chi semplicemente rendendosene conto) che l’equilibrio dei colori non c’era: il rosa era un colore da lenzuolo, da fantasma, che in questo caso era davvero sostantivo femminile. Insomma poco rosa, serviva il rosso. Il colore che non accetta d’essere meno che se stesso. Voi donne direte: tientelo il rosso, noi abbiamo il rosa e questo è nostro. Anzi è una delle poche cose che voi maschi portate con imbarazzo. Vero, e se mi chiedeste perché direi che c’è una vergogna sottostante ovvero il non voler essere scambiati per qualcosa che abbia molto di femminile. Visto così, il discorso finirebbe. Io resterei con i miei pregiudizi, e prima di considerare il rosa un colore come gli altri, ci impiegherei tempo, convinzione, ma comunque non ne toccherei l’essenza, ovvero il rosa vi appartiene, è vostro. Però questa cosa del colore che ghettizza non mi va molto bene, su di voi stanno bene tutti i colori, persino l’assenza di colore vi dona. Per voi il colore non è mai banale, quindi li possedete tutti e se il rosa è solo vostro, gli altri sono in uso così personale ed esclusivo da fare una differenza incolmabile rispetto ai maschi. Un paio di scarpe rosse, un vestito rosso fuoco, non può esistere senza voi. Anzi ha senso solo con voi. Quindi i colori e ciò che sottendono, sono più vostri che dell’altro genere.

E questo attiene alla consapevolezza della differenza e alla libertà. Non sempre queste due forze dell’animo coincidono, la seconda, sicuramente, dona molta più dinamica fantasia della prima, ma senza di essa cosa sarebbe? Allora oggi potrebbe essere una festa della consapevolezza unità alla libertà?

Ma questi sono pensieri maschili, sempre insufficienti anche quando partecipano o sono imbevuti di stupore.

Questa mattina ho augurato un buon otto marzo a una manager al lavoro, con progetti urgenti da completare e, credo, senza troppa attenzione per mimose, ricorrenze o altro. Mi ha guardato stupita, ha scosso il capo e ha ripreso a lavorare e interrogarmi. Per lei è una giornata come tutte, in cui è donna e al tempo stesso soggiace e impone regole. Le ha accettate e non le mette in discussione da una posizione di potere. Il suo fantasma non è né rosa né rosso, il gessato, il tacco alto la rendono più forte, ma non la colorano.

Oppure sì?

Nel discorso molto tecnico, frammentato di commenti che rivelano le visioni del mondo, emerge da parte sua, un ragionamento sulle rappresentazioni iconiche, cioè sul fatto che ci si veste come ulteriore proiezione di sé. Mi pare strano che parli di questo, tra progetti che riguardano investimenti e sviluppo in paesi lontani, anche se il mio pensiero ritorna all’Africa e all’Oriente, all’uso del colore che fanno le donne, alla loro soggezione, alla fatica del liberarsi dai gioghi sociali e familiari e alle loro libertà che si accompagnano molto spesso al sorriso e allo sguardo. Quando le donne sorridono hanno motivi che gli uomini non capiranno mai davvero, al più possono intuirli da distante, ma non saranno mai loro. Così penso.

Per terra c’è una bellissima, irregolare corsia, azzurro carico, indicibile sfumatura della notte che è quasi giorno. Un tappeto molto folto, di lana grezza e tinta con pigmento naturale, tessuto da mani femminili e nomadi, con piccoli, rari, disegni e una lunghezza anomala. Ne chiedo notizie e lei mi parla di un viaggio, di una scelta in un luogo in cui sembrava non ci fosse nulla da scegliere, era per terra e le era piaciuto. Osservo che forse era un letto, un luogo di riposo con il colore della notte e le tracce dei sogni. Per la seconda volta mi guarda stupita, ma stavolta sorride (ecco il sorriso consapevole). L’ha scelto lei, felicemente, un uomo si sarebbe soffermato sull’irregolarità, sul colore atipico, sulla tessitura grezza e avrebbe chiesto altro. Ci salutiamo, ripeto l’augurio, scuote la testa.

Il pensiero scorre camminando, mi soffermo sul sentire ovvero sui sensi. Il femminile ha sensi differenti, ovvero ha sviluppato modalità e sensibilità d’uso degli stessi, non eguali e più penetranti di quelli del maschile. Il tatto d’una mano femminile, il percepire e attribuire gli odori, la scelta di cosa udire, lo scorrere e il soffermarsi degli occhi, il gusto e le sue connessioni che partono sin dalle labbra sono sensi collegati ad una percezione differente. Morbida e decisa allo stesso tempo, profondamente identitaria, con ascendenze che oltrepassano il ruolo e vanno oltre nella comunicazione. Quindi mi viene da pensare che anche i sentimenti sono differenti, non soggetti a un criterio di giudizio, ma più acuti per abitudine a distillare i segnali che ricevono. 

La giornata dove ci porta se non a guardare con stupore che esiste una buona metà del mondo che comunica, relaziona, pensa ed esercita consapevolezza e libertà, in modo sorprendentemente differente. E se il concetto di genere ultimamente è ben più scosso di un tempo, il femminile continua da essere l’unico luogo dell’identità che prende consapevolezza (noto che ho cercato un sinonimo di polo per evitare la sua opposizione magnetica e questo mi fa stare meglio) mentre il maschile arranca sulla ragione e si aggrappa all’abitudine, ai ruoli. Consapevolezza femminile irregolarmente diffusa, ma costante nella crescita, libertà difficile però rivendicata.

Essendo stato allevato da donne, sono di parte. Credo che l’amore sia presto sconfinato in una percezione della differenza così forte e misteriosa da giustificare una costante curiosità. Così ho anche capito che le donne hanno il dominio del tempo e che solo loro possono alterarlo, ovvero modificarne le modalità di fruizione. E pian piano ne acquistano consapevolezza e libertà nuove, in questo so che ne verrà bene per tutti. Molto bene per tutti e allora ritorno al rosso: sì, il rosso è il colore che le donne a volte possono concedere agli uomini ma appartiene a loro.

Cosa vi posso augurare signore, eterne ragazze, se non di essere solo voi stesse e di continuare ad essere generose nel donare a tutti quell’amore che riconoscendovi, cambia e salva la terra.

E ringraziare, infinitamente ringraziare.

numeri e persone

Per alcuni siamo numeri, per altri problemi, per non pochi opportunità e tra noi, persone. Che significano queste liasons di certo volute, labili e forti per ossimori di passione, di sicuro scelte e soggette a tutte le intemperie, ma tenute con quella refe rossa delle affinità che supera tempo e spazio. Certo, c’è affinità, curiosità che sollevano piano i veli, passioni e sentire comuni, ma se non fossimo persone mancherebbe quell’inizio di cura che sottintende ogni rapporto. Anche quelli virtuali. L’occasione di pensarci mi è stata fornita da Marta, e così mentre andavo a ripescare i nomi della piccola brigata che si è incontrata e ha parlato attraverso l’immaterialità di questo blog, ho visto il numero. Un numero così tondo da stupire, perché in fondo questa è una caratteristica dei numeri. Sono sempre altro dal segno che li rappresenta, dall’assoluto che sembrano delimitare e contenere. 300.000 volte qualcuno è passato, ha guardato e poi se n’è andato. Alcuni pochi, hanno seguito e seguono, altri non scrivono più e magari ci sentiamo nelle mail, tanti si sono perduti portati via dalle strade baluginanti che contiene il virtuale. In fondo restiamo quattro amici al bar, come nella vita, con storie da raccontare e molto da ascoltare.

Mi sono chiesto a chi mi rivolgo di voi. Spesso a tutti, qualche volta a qualcuno, abbastanza a me stesso, perché la vita è così: impersonale quando ci si vede e bisognosa d’ascolto quando la si indossa. Posso dirlo serenamente che mi sono stupito spesso dell’assenza di commenti nelle cose che mi piacevano di più e dell’attenzione su altro che mi sembrava contenere meno di me. Però se io stesso cerco la chiave del labirinto, non posso lamentarmi se in questo profluvio di fatti, pensieri, riflessioni, pezzi di vite vissute e ascoltate, ciò che a me sembra importante possa non esserlo per altri. Scelte ed io da molto tempo ho scelto di assomigliarmi. Per approssimazione, asintoticamente, ma con determinazione. Poteva essere differente lo scrivere? 

Condividiamo, come si può, più o meno 10 anni di strada, con vite sghembe che hanno una realtà così distillata da gocciolare parole. Ho sentito spesso il profumo delle vostre, contenevano così tanto di voi che mi pareva di conoscervi. Ho sentito l’accaduto e l’annuncio dell’accadere, non era bravura, è che mi piace ascoltare. Mi sono stupito e commosso, ho ammirato la bravura, sentito il rodere della pena che non voleva uscire ma forniva parole forti per essere ammansita. Mi sono rallegrato, ho scosso al testa sorridendo, ho riconosciuto l’affinità e la differenza. Mi avete dato moltissimo. Quello che ho restituito è una storia che continua, qualche passioncella, furori e non poca commozione che si ritrae. Ho seminato indizi, cercato di mostrarmi il necessario che non si discostasse dalla verità, ma fornisse anche la condizione del fluire. Eraclito, l’oscuro è ben presente nei miei pensieri, e oserei dire, anche nella mia vita reale. 

Vorrei che a tutti giungesse un pensiero di gratitudine, e di affetto per chi è rimasto. Spesso non mi sopporto e quindi capisco bene chi va altrove, anche se mi spiace. In fondo a quasi tutti piacerebbe essere capiti, amati, per ciò che si è e per ciò che si potrebbe essere.

Vorrei cavarmi con un augurio da questa spirale di parole, che questa volta non rileggerò: vi auguro che chi incontrate sia simile al vostro cuore, che abbia cura perché riceve cura, che sia sincero. E a voi resti la scelta sulla strada da percorrere, ma che sia sempre la vostra.

Grazie per la vostra presenza.

p.s. un particolare ringraziamento a Marta che mi ha fatto pensare a Voi.

https://tramedipensieri.wordpress.com/2017/02/10/laudario-di-cortona/