La città sembrava inerme, pacifica, ma incredula per le prime occupazioni. All’università gli studenti volevano toccare la libertà senza l’ossequio al potere baronale. Bestemmie, in un dialetto che le intercalava. Era una città divertita o infastidita, abituata alle intemperanze giovanili, altrove, però, nell’oscurità torbida di rancori mai sopiti covava uova di serpente. Tornava il nero che mai era morto per davvero. Arrivò la nuova violenza dalla strage di Milano, troppo intelligente per non essere parte d’un oscuro piano, di quella destra che s’era esercitata nei tentativi di rovesciare la democrazia. Ciò che sconvolse per un poco la città e soprattutto me, furono i nomi dei fascisti rivelati. Quel Freda con lo studio d’avvocato davanti alla biblioteca dove studiavo, che beveva il caffè dove anch’io andavo, e poi quel Facchini, conosciuto da ragazzo. Abitava allora vicino a casa mia, molto per suo conto ma anche lui i fumetti li scambiava. e mostrava con orgoglio la sua abilità nel costruire radio e nel trafficare con resistenze e condensatori. E in quella valigeria di piazza Duomo, s’erano comprate le cartelle per la scuola, la borghesia, borse di lusso e le valige in pelle. Tutto era concentrato in poco spazio, in persone e luoghi noti, in cognomi e in mestieri usati, ma sembrava che oltre l’apparenza sempre ci fosse ben altro d’importante. Il Configliachi, l’ istituto per I ciechi, dalle cui scale volò il bidello era un posto come un altro, ma lui aveva iniziato a dire di questo nero di città. E poi un filo ricuciva nella mente Il rettorato ch’era saltato in aria poco dopo un incontro con rettore, l’antifascista Opocher, fatto con noi studenti. Ricordo ancora le sue parole, che citavano quelle dell’amico suo Marchesi: neppure i fascisti furono in grado di togliere la libertà all’università, volete farlo voi? E noi non occupammo il Bo, tramutando quella sera la protesta, in un corteo. Dopo scoppiò la bomba e il caso evitò la strage non la volontà di chi la pose. Chi doveva capire non capi e chi sapeva preparava altro. Ricordare quegli anni è ricordare ciò che venne poi : Iniziava la stagione del terrore, la paura di viaggiare sui treni e capire che quelle uova di serpente, quel nero, non se n’era andato mai ma aveva figliato. E figlia ancora, molto più indisturbato.
Si rincorrono soli e temporali, come un tempo I ragazzi nei cortili, nubi e alberi grondano acqua e luce e la terra beve: restituisce dove il pensiero non arriva. Poco oltre s’elevava un bosco al cielo nelle radure correvano fiori e gambe prive di stanchezza, ora la sera racchiude polle di ricordi, il tavolo la luce, la finestra il cielo. Prima della scuola, allora le mie ginocchia erano strie di polvere e di sangue, le tue erano linde e accorte. Accanto su una pietra antica era così gentile la tua mano che toglieva il sudore dalla fronte, e il fazzoletto odorava di sapone e casa. Sarebbe servito al gioco, poi, ora guardavamo il cielo che scolpiva nubi e meraviglia.
Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. Lui e’ un uomo giovane per noi ma già maturo nella sua epoca. Ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ha parecchia vita sulle spalle. Lui e i suoi fratelli sono emigrati, pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a casa, sui colli, a gestire la locanda, l’appalto dei tabacchi, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, animali da cortile, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, e soprattutto dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati. Di Sarajevo, di quello che è accaduto la mattina, non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino che ne avrà parlato con la nonna la sera dopo, accennando senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città, con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Bosnia Erzegovina è già difficile da pronunciare, chissà dov’è. Sono paesi oltre il mare, agricoli, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina d’Italia. Tutto è lontano dal Baden. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può venirne di male a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta. Loro hanno lavorato senza risparmiarsi, vengono da anni prosperi e felici, sono persone normali e un po’ speciali, hanno coraggio: il futuro sarà positivo.
Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata di Germania e Austria ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, credo, che se fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Chiudendo casa con i mobili, le cose della vita costruita con fatica e dicendo ai vicini che sarebbero ritornati. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare un’ attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina sul Carso, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto. Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava poco, ma le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, era con grande tenerezza. Lei che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.
E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia ma il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, non lo sanno. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola grande felicità, in una domenica di giugno di centoundici anni fa.
Quando, nella notte, il sonno si ritrae, diviene fatica il sogno, l’oscurità prende la ragione, allora è forte il desiderio del giorno, unica salvezza per discernere, risposta se vi sia tempo alla vita. Forte è il peso del reale, e non è neppure la verità ma chiede alle dita della bellezza se ancora potranno scorrere, meditando pensose, sugli uomini. Se l’un l’altro potranno unire l’unità che trabocca dal bisogno.
Sappiamo troppo del mondo, ed è solo l’apparenza, per sentirne il dolore vero, la tenebra che avvolge le coscienze, bisogna ascoltare e parole terribili vengono pronunciate: ricada su di noi il sangue, ma siano sterminati. Baratri d’odio vengono aperti nella luce, odio che s’accumula ovunque, odio che rende i corpi, le menti, spazzatura d’umanita, negli sterpi gettata. Odio che toglie luce, che nega la tragedia, odio che vorrebbe essere ragione, odio che corrode, che giustifica ogni crimine, odio che uccide l’ amore che redime.
Sappiamo troppo per non provare e capire che questo non finisce che ci riguarda perché ci muta, perché lacera prima le parole e poi il silenzio. Connivenza, disumana indifferenza. Saremo travolti dall’odio senza un risveglio di pietà, senza un accendere la luce, per guardarsi attorno, vedendo gli affetti che respirano che sono con noi nei sogni. Non basta rinviare al giorno, esso porta tempo e luce e quanti di energia da spendere, per fermare l’abisso, ma vuole che ci sia argine al vuoto, che l’odio si fermi e venga sconfitto, per conservare la capacità di ridere, per amare e fare e disperdere, ma vivere, vivere e far vivere, amare e insieme vivere.
Tu mi parlavi di un’età dell’innocenza. Un azzerare il tempo che tira una riga tra un prima e un dopo, e l’età dell’innocenza non sembrava essere solo quella dell’equilibrio nel desiderio, la soddisfazione piena dove tutto è semplice e possibile.
Credo sia una tentazione (pensai), quella dell’innocenza, a cui non sfuggiamo mai, per un bisogno di essere stati prima dello sfiorire. Partire da un profumo greve di realtà, che è un intelligere il mondo, i rapporti tra sentimenti, le cose, cercando di scrostare vecchie morali consunte che mantengono ben occultati i modelli di una primigenia purezza.
Che fosse per l’uno o per l’altro bisogno, questa parola emergeva tra le tue ed era un sinonimo di bellezza. E la mia testa correva ad altre vite dove la purezza e la bellezza si erano fatalmente scisse in un continuo bere dalla coppa della velocità del vivere ed era un’impressione che nei tuoi confronti non avevo mai avuto.
Come cercare allora la purezza/bellezza (dissi), se non nel gesto puro, nel sentire puro, dove tutto si annulla nel rapporto tra chi sente la bellezza e l’oggetto di quella percezione. E quanto si complica tra umani tutto questo, nell’introdurre la comunicazione, lo stesso sentire che diventa una condizione del condividere nel profondo. Non esistono bellezze asimmetriche che portino alla purezza (pensai), le bellezze parziali sono sempre una copia mal riuscita e chi le vive sa che quel pezzo di sentire ha bisogno di qualcos’altro per completarsi. La bellezza si completa in noi (questo pensai), abbiamo noi il pezzo mancante che ci affranca dalla nostra condizione, ci rende altri.
Chi percepisce la bellezza non può restare uguale a prima e questo mutare lo rende fragile, inerme, consegnato all’incapacità di comunicare ciò che sente davvero.
(dissi) Forse allora la purezza di cui parlavi, era un rapporto con sé, un accogliere e portare dentro la bellezza e farsene riempire. E non sempre tutto ciò rende lieti (pensai), vedendo la tua tristezza. Però per alcuni era impossibile rinunciarvi, qualsiasi altro succedaneo sarebbe stato inferiore a ciò che si era sentito/provato. Era l’età dell’essere che doveva nascere. Quella che accanto al sentire la bellezza la faceva diventare coscienza di sé. Non è scontato essere sensibili (dissi) e spesso chi lo è, non vorrebbe esserlo, ma senza sensibilità l’essere diventa poca cosa.
Ma non bisogna scindere le cose (pensai), è necessario che il sentire e l’essere si fondano, che la bellezza, e l’acutezza del percepire diventino gesti, forza. Che capire ci renda indipendenti, perché (e questo lo dissi) la nostra purezza/bellezza non può dipendere da qualcuno, ma dev’essere nostra. Perché solo noi la completiamo. Possiamo donarla, se vogliamo, ma dev’essere nostra, una modalità del vivere con noi.
Cosa, quantomai fallace, molti pensano che l’età sia una misura del tempo, che essa deve essere riempita di cose e sentire comuni e che bisogna correre per provare il più possibile. Così nasce l’idea che l’innocenza non sia possibile e casomai un intralcio, che essa risieda in un tempo forse mai vissuto, ma di cui si conserva un ricordo.
Mettendo sempre insieme desideri e realizzazione, (pensai) pensano che questa sia la strada verso la soddisfazione e che questa coincida con equilibrio, pace interiore e bellezza e la scindono da quell’innocenza che sembra far d’impaccio.
E tutto ciò mi sembrò sbagliato, in sé povero di unione tra sentire ed essere. Come essere una cosa diventata che solidifica e non una possibilità che fluida, si attua, e muta in continuazione, e ha questo faro dell’unire il sentire e l’ essere e di farne per sé qualcosa di più alto e privo di connotati.
Puro per l’appunto. Ecco questo pensai e non lo dicevo, ascoltavo, e sapevo che non finiva mai il capire la genesi interiore che era ora povera, corrosa, realtà.
Mi racconti il tuo limite al credere. Le candeline accese, la piccola preghiera, poi via, fuori dai luoghi in cui tutto si codifica. Un disordine ordinato t’accompagna, t’affascina il vivere che si codifica e s’incanala, l’ordine che emerge, che rassicura. Ma non ti basta, trovato l’ordine tutto s’impoverisce. Tutto il tuo mondo non si esaurisce e se ha un posto e un nome, non fa più sforzi per sapere chi è. Senti che l’ordine genera un’ansia sottile, svuota le passioni e si chiude nel labirinto della mente. Eppure l’ordine ti affascina e dona tranquillità. Almeno sembra. Tu hai già le tue difficoltà, i problemi di crescere assieme a ciò che scopri di te ora, ammettere gli errori che insegnano sempre. A tutti. Facciamo così fatica ad accettare gli errori, sembra si perdano pezzi di noi per strada. Definitivamente. La libertà di credere in ciò che c’aiuta, anche quando si sbaglia è una gran cosa. E se questo induce la contraddizione in noi, come non viverla? Noi conteniamo le nostre contraddizioni, siamo abbastanza capienti per tenerle tutte. Anche senza sentirne colpa. Si dicono di noi cose che non sappiamo, ci arrivano echi dissonanti dai gesti e ci pare d’essere proprio quelli. Ci si abitua ai rifiuti come ai complimenti. Basta vivere ed emerge una assuefazione agli aggettivi che li svuota. Gli aggettivi mi ricordano i gusci vuoti dei molluschi, in riva al mare, con il loro leggero rumore metallico quando l’onda li muove. Non hanno più vita, sono altro, ma ci sono ancora. Parte del rumore di risacca, appunto. Così si tiene tutto, anche il credere e il suo contrario, basta volersi un po’ di bene: una candela, un pensiero positivo e poi via nella luce esterna che nei giorni di sole (c’è una similitudine in questo) abbacina e scalda. E muta i colori, svuota e riempie d’altro l’anima. (c’è l’anima? non è importante che ci sia davvero, basta sentirla) C’è un prima e c’è un dopo, ma soprattutto un durante. Vivere è durante, durare un minuto di più delle cose che tolgono, che fanno male. Resistere un’ora di più della parte che si chiude è già una finestra che si apre. Fa entrare un’idea di sé, una luce con i suoi aggettivi di intensità. Credimi, è meglio del buio.
Chissà cosa ci sarà poi, qui, tra poco, quasi adesso.
Oltre i vetri case lavate dalla pioggia, e finestre chiuse per l’acqua di stravento. Nei minuscoli giardini s’agitano palme con secco battere di foglie che sembra applauda al tempo. Ci si stringe attorno, si rinserrano persiane e scuri, ma non del tutto, restano pertugi e occhi del tempo altrui curiosi. In cielo nuvole tozze e grigie, e raggi di luce che radono i profili. Nella vasca dove son nati, due piccoli piccioni, mescolano le piume infreddoliti, la mamma li copre, prima l’uno poi l’altro, assieme e guardo loro e i rosa e i gialli degli intonaci carichi di pioggia, come se in essi l’inatteso avesse un senso arcano. Con noi e senza di noi, muta tutto attorno, così l’emozione prende e rinserra il cuore come casa e nume, come porta che resiste al tocco, e si chiude nel bene che l’attornia. Si pensa il proprio stare, terra fertile, nutrice di ricordi e fiori di campo senza necessità d’un nome, ma la sera cala come lacrima, per dire: ancora di nulla e di tutto m’emoziono. Storia potente è il vivere e la vita.
La stanza in cui sono stato all’Asmara, aveva pochi mobili. Un piccolo armadio di legno massiccio, il letto con la testiera di ferro, i comodini alti, anch’essi di legno pieno e scuro, un tavolino e una sedia. Sul ripiano del tavolo le mani, i bicchieri, unghie nervose, avevano lasciato il segno, il caffè forte e scuro aveva tracciato cerchi che si intersecavano. Una parte del legno era rimasta al riparo della luce e delimitava un rettangolo entro cui si era scritto, lasciato libri aperti, letto. Alle pareti bianchissime di calce, erano appese due stampe con spiegazioni in tigrino. In un angolo della stanza, su entrambi i lati, erano stati dipinti un cammello e una palma che arrivavano a metà altezza, con un colore che andava dall’ocra al marrone. Il cammello guardava curioso verso il ripiano dello scrittoio, la palma era carica di datteri. Un abitante della stanza aveva lasciato il segno ed era stato conservato. I mobili erano resti della dominazione italiana, venivano dalle case lasciate o forse erano sempre stati in quella casa. La cucina, dove facevo colazione e qualche volta cenavo, era ariosa, con una porta finestra che dava su un cortile e poi sull’orto. Sulla parete di sinistra stava una grande cappa, sotto c’era il fornello a due fuochi che occupava parte di una lastra, forse di pietra tenera, dipinta ad olio di un rosso acceso. Su parte di quel ripiano, la signora che mi accudiva, faceva fuoco e cucinava. Non ho mai sentito odore di fumo, il camino aspirava benissimo. Quasi per ultimo, in continuità con il ripiano rosso, c’era il secchiaio di granito, incassato nel muro. Aveva un robinetto di ottone, come quelli che si vedono ancora in qualche giardino. Non sempre, ma quando c’era, l’acqua si lasciava cadere in un flusso sottile, senza turbolenze, un cono che s’assottigliava in filo e che comunicava un senso di fresco. Tagliare con le dita quella consistenza trasparente faceva nascere la voglia di bere all’antica, porgendo la bocca con la testa di lato. Laddove il flusso batteva, c’era l’area chiara dell’acqua che detergeva la pietra e stabiliva la sua dolce, tenace, differenza. Una geografia dell’uso, che rassicurava sulla persistenza delle cose, della percezione del mondo. Il mondo si divide tra chi si aggrappa alle sicurezze del passato e chi si getta nel nuovo. Tutti hanno i loro motivi, ma nessuno è privo di radici e queste ovunque trovano linfa a cui attingere per nutrire il pensiero quieto del vivere.
Sopra il secchiaio, c’era una mensola con davvero pochi piatti e bicchieri, le stoviglie, erano dentro un vaso di terracotta forato, nell’angolo della vasca. Il tavolo, con l’incerata a quadri, stava al centro. C’erano quattro sedie di legno, proprietarie di una scomodità per me nuova e che testimoniavano a chiunque la loro costante presenza nel sedersi, come non ne fossero contente e volessero limitare l’uso di sé. Sulla parete destra c’era la credenza. Di legno, con i vetri molati nel sopralzo, con lo stesso stile primo novecento degli altri mobili di casa. Gli spazi e le pareti erano vuoti, l’aria correva allegra, le finestre sbattevano, non c’erano tracce di presenze pittoriche notevoli come in camera. Però si sentiva che molti lì avevano abitato, era stata la loro casa, avevano pensato, trafficato, costruito progetti e fantasie. L’assenza di superfluo nelle stanze, mi faceva pensare alla casa dov’ero nato. C’era un modo di pensare comune che si muoveva nelle funzioni delle cose e negli spazi. Nella mia casa, cucina e soggiorno coincidevano in una stanza grande, quadrata, e c’erano mobili simili a quelli dell’ Asmara, una cappa, la cucina economica e nell’angolo, vicino alla finestra, il secchiaio. La stanza si completava con la credenza e l’aggiunta di un’ottomana rossa, di legno massiccio e ben imbottita per diventare un luogo per il riposo pomeridiano. Le pareti erano imbiancate ogni anno da mio Padre, che ingentiliva la calcina con un rullo intinto nel blu o nel rosso pompeiano e che riproduceva un disegno damascato. Una stampa solitaria era in disparte, era un particolare della “tempesta” del Giorgione. Poi null’altro, le mie manate venivano cancellate accuratamente e così qualche piccolo disegno a matita, prima che la pedagogia di allora mi insegnasse che il bianco non si tocca. Al centro della stanza il tavolo, che con le sedie e la credenza, veniva dall’osteria del bisnonno. Quei mobili avevano percorso traslochi e vicende di famiglia, muovendosi su carri e poi camioncini, ma allora bastava poco per traslocare.
All’Asmara, mi chiedevo quando le cose avessero cominciato a vivere con noi, a occupare spazi, a soddisfare desideri oltre l’utile e generare ricordi. Capivo che le case erano grandi perché ero bambino, avevo pochi pensieri, molto da capire e da apprendere, ma potevo correre perché c’era spazio e giocare sotto la tavola. E non era proibito se non durante i pasti.
Non ho un giudizio sulle cose, accadono come i fatti. Hanno una sequenza, un ricordo, si accumulano e si accalcano, mettono in disparte l’utile e il necessario. Sono mute ma parlano e nel silenzio della notte, chiacchierano di più. I loro suoni hanno il senso delle stagioni. I materiali ricordano le loro origini, mostrano i nostri distratti sentimenti. Quando si disfano, chiedono soccorsi che ormai il consumo nega e finiscono. Finire è ciò che accompagna l’essere delle cose. Come il loro avere amore e poi sentire che è solo memoria.
Grandi sono i piccoli amori che si muovono con dolce rispetto, non fanno rumore, non alzano la voce, però con mano ferma correggono traiettorie infelici. Insegnano senza sapere, vivono con la leggerezza degli uccelli, si posano, partono, poi torneranno, ma intanto lasciano l’acuminato veleno dell’assenza. In ogni porta che si chiude c’è una promessa, una vita che prosegue, un pianto che non s’asciuga: solo lo stesso amore piange lacrime uguali.