diverse serenità

Tra serenità cercate, presunte, passate e serenità incrementanti, verrebbe da dire la vita sta. E tutto ha al centro quel nòcciolo duro costituito dall’io che vorrebbe aprirsi, ma ha una sacrosanta paura delle sberle. Ne ha avute a iosa in passato e ne sente traccia calda a fior di pelle. Si dice che le sberle insegnino, è vero, ma non abbastanza e non tutto è positivo nell’evitarle. Comunque creano scorza, ossificano le reazioni e le intenzioni sino a farle diventare un involucro coriaceo, il nòcciolo dell’io per l’appunto. Come si possa poi confinare tutta l’energia in quello spazio così piccolo non è questione di sola fisica atomica, anzi nella gestione delle forze interiori/esteriori gli uomini sono molto meno deterministici della fisica e molto più bravi a confinare l’energia. Assomigliano più ai terremoti che distruggono e al tempo stesso generano materia, la solidificano, e in tempi lunghi, l’assestano in una quiete nuova e transitoria piuttosto che riordinarsi in un flusso di energie che si dirigono o rimbalzano allegramente, felici di scoprire nuovi spazi. A questo assestare dopo le scosse (o le sberle) pare servano le serenità; che sono poi lo sguardo del presbite: da vicino vede un’interessante composizione di colori, mentre distanti coglie le cose, finalmente ridotte ad una dimensione accessibile; né troppo grandi né troppo piccole. Ma soprattutto raggiungibili se si ha pazienza, e maneggiabili. È questo di cui si vorrebbe avere governo nel trattare quel nòcciolo di io, quell’ identità che ha necessità varie oltre al proteggersi? E come conciliarlo con le passioni, ovvero con quel fascio di energie inaspettate che l’io non riesce a contenere e da cui è sballottato in territori che non conosce? Anche le passioni hanno loro serenità e soddisfazioni, ma non sono quelle della quiete. Si usa l’ossimoro delle passioni quiete per descrivere i paradossi della politica ma queste esistono solo da quelle parti, e si dovrebbero definire compromessi, soluzioni compatibili. Tutte cose che le passioni non conoscono. 

Ricomporre nuclei duri e flussi morbidi, ma irruenti, è un bel processo dinamico in cui si balla parecchio. E verrebbe da dire che si balla serempidicamente,  perché ciò che non si stava cercando si trova e la felicità che ne nasce è così inaspettata e gratuita da sciogliere ciò che sembrava inscalfibile.

 

 

inverno

oznor

Nella terra della biscia e del rapace
la neve ghiaccia e piange acqua bruna verso i prati.
Nel silenzio attorno non un canto dice,
lontane rade voci e auto corrono verso l’ indifferenza,
nel fosso l’ erba che l’ acqua seguiva s’ avvolge ora in un capigliar di brina.
Le gemme nel bosco attendono,
attorno c’è un seguire d’ orme e fame,
ed io in tanta bellezza misteriosa
non so più che dire,
mi perdo in questo fluire d’acqua e sale,
di ferite aperte e d’aghi che ricuciono,
di sentimenti usati e rigettati,
mentre di bandiere e voci ferme sentirei il bisogno
ma afone le gole ripetono giusta la misura
di ciò che è santo all’ uomo e alla natura
e l’amore mio si perde in un inverno esausto di ferite.

una tesi sulla decadenza

C’è uno stupore morboso con cui l’intelligenza contempla la decadenza e l’associa a categorie morali, così Berg è affascinato dal cammino di Lulu in quello che, per essere accettato dalla morale prevalente, deve aggettivare con il termine degrado. Il degrado morale come conformità all’ordine comune, all’appartenenza e soprattutto alla sessualità che rispetta canoni. Tra la felicità, il piacere e l’ordine la scelta è il terzo, se la prima è priva di regole, il piacere dev’essere anch’esso regolato. In questo consiste la superficie della morale, la crosta che sotto aspira ad altro. Alda Merini con l’aiuto di una follia temperata e quieta, nella poesie e nel comportamento, salda la felicità al contemplare se stessa, ne trova ragioni che non contraddicono, in questo c’è non poca parte dell’amore che la circonda oggi, non prima , quando era viva. Perché la follia, nelle sue accezioni di rottura dell’ordine non consente tutto. Ad esempio non consente la felicità come esibizione di tranquilla pienezza, dev’essere sguaiata, esibita, oscena per il suo imporsi come libera e assoluta, folle e priva cioè della regola che ne consente il controllo sociale. Nel fascino della decadenza si trova non solo il vecchio che non ha percorso pienamente la vita, non ha avuto, ma ogni persona regimentata e insoddisfatta, segretamente colpita dal fatto che ciò che sembrava assicurare felicità in realtà non abbia mantenuto la promessa. Così l’ordine esteriore ed interiore più che un modo di vivere che sia compimento di sé diviene abito che occulta e dissimula, viene favoleggiata un’innocenza innata che è prima della morale e quindi libera di essere, la si colloca in un tempo di cui non c’è ricordo ma dev’essere esistito. Finzioni dell’intelligenza e contraddizioni non ricomposte. Anche oggi che il decadere è fuori moda: non si decade più e nell’ esaltazione del giovanilismo come condizione permanente in cui tutto è permesso, non viene colto il nesso tra una condizione di ricerca della felicità e il suo materiale farsi. C’è sempre un giudizio morale che deve riportare l’ordine. La libertà sessuale così indagata in tanta morbosità pseudoscientifica da rotocalchi, dovrebbe rivelare un passaggio innanzi nella felicità e nell’appagamento, essere una felicità 4.0 e invece emerge una confusione, un disorientamento che fa oscillare tra giudizio morale e desiderio d’essere differenti. Non si evidenzia ciò che già nell’età precedente era il bivio in cui aspettava il demone: le vite scelgono tra la tranquillità e il rifiuto dell’eccesso di piacere oppure la libertà di essere, pena il decadere. Il resto è materia di follia e di corrosione e l’unico elemento nuovo, oltre al giovanilismo, è lo spostamento del limite della percezione, ossia possiamo includere più comportamenti evidenti nel catalogo della non decadenza. Il tema può sembrare astratto, ma le civiltà decadono a partire dai comportamenti collettivi e dalla loro relazione con la giustizia distributiva, ovvero se è l’individuo a prevalere e il suo essere felice non è tensione collettiva il tessuto si rompe, le persone perseguono secondo i loro mezzi il loro destino e non lo rendono partecipato. Subentra il privato, quello che Berg spia e Merini esibisce, ma così ognuno ha una felicità, un piacere e un evolvere, ciò che non viene accettato come comune diviene degrado o follia.

il diritto a una storia

Quattro mesi fa, per il mio compleanno, ho raccolto una serie di scritti che avevo pubblicato su questo blog e ne ho fatto un libretto, senza velleità letterarie, da regalare agli amici. Era un riassumere impressioni e ricordi, neppure i più rilevanti, ma quelli che avevano a che fare con alcune parti della mia storia. Bisogna insistere su questa parola: storia perché vita spesso si riempie di connotazioni esterne, quasi un subire ciò che accade anziché esserne protagonista. Per mia fortuna ho conosciuto non poche persone portatrici coscienti della propria storia e non occorreva andare a chissà quali celebrità, anzi, erano persone singolari che sceglievano e conducevano una storia che assomigliasse a loro. Per quanto possibile. Non accade così a tutti in amore, ad esempio, dove le scelte diventano futuro, dove ci si radica dentro per decidere e alla fine quello che ne esce coinvolge non poco le vite. Quindi il creare la propria storia è di tutti e la scelta è tra il lasciarsi decidere da altri oppure procedere in proprio. Questo conta poco per la felicità, per il successo, ma un merito ce l’ha, ovvero quello di avere una storia. Riflettevo su questo dopo aver legato un commento a quanto scrivo con un pensare alla mia storia. Il commento, riferito a quel libretto, parlava di una malinconia soffusa. Poi i termini si attenuano, la malinconia può diventare gentile, pensierosa, contorta, leggera. Insomma gli aggettivi rifuggono dagli ossimori che invece esprimono bene le dualità che possediamo e che il mondo esterno tende a semplificare. Mi sono chiesto, ma la mia, seppure aggettivata, è una storia malinconica? È il dis farsi delle cose che prevale? Oppure il senso dell’incompiutezza che impedisce di accogliere il momento? E in questo analizzare sono giunto a una conclusione che ha tutti i pregi del dubbio: la mia storia è fatta di momenti malinconici e di scelte dovute, di allegrie inconsulte e di gioie meritate, di errori madornali e di intuizioni felici, di permanenze fortissime e di oblii misericordiosi. E potrei continuare parlando della ricerca della leggerezza, della fortuna della memoria, dell’intuizione e dell’analisi di quanto si vede in uno sguardo largo. Potrei dire delle insoddisfazioni e dei fallimenti, ma questo offuscherebbe il molto che mi è stato dato, le esperienze scelte, le radicalità e le mediazioni costruite. Insomma ne verrebbe fuori una storia parziale, questa sì immeritata. Quindi rassicuro me stesso: la mia storia non è malinconica, ha l’allegria e l’ironia che l’accompagna, cerca la felicità anche quando si rende conto che essa è transitoria e difficile, persegue la leggerezza e l’inutile mentre si dà da fare con la concretezza e la dura lezione del reale. Nessuno di noi, penso, si merita una storia parziale, ha la propria. E in qualsiasi momento di quel lasso di tempo in cui siamo senzienti, e che chiamiamo vita, può decidere, fare, prendere una strada anziché un’altra, sapendo che può costruire qualcosa che nessun altro potrà fare e che lo riguarda così da vicino che è meglio gli assomigli. Ecco, questa è la propria storia e in fondo possiede tutti gli aggettivi e non merita giudizi, ma solo allegra consapevolezza d’aver vissuto e voler vivere.

11 settembre

L’aereo non atterrava, nella mattina di luce,
volteggiava tra Roma e il Tirreno,
a terra venne il buio, ma per ciascuno a modo suo.
Molti anni prima, qui era sera,
ma lo stesso giorno, di mattina in Cile,
e anche allora ci parve che morisse un mondo.
Un altro mondo,
non quello che ora scinde l’inquietudine e l’attesa,
di chi e cosa, bene non si sa,
ma l’11 settembre chiede dov’eravamo e dove saremo.
E l’inquietudine storce le bocche
scuote capelli e teste,
non nobis Domine non basta più,
dove siamo noi quest’oggi?

ad alta voce, inflessibili per un poco

I proclami, le prese di posizione “definitive”, spesso contengono l’insofferenza per la propria solitudine. Cosa sia poi la solitudine è difficile dirlo, perché contiene molte assenze, proprie e altrui, tanto che alla fine si mal sopporta persino la propria differenza. C’è il bisogno di una linea che definisca chi sta da una parte e chi dall’altra di noi, insomma di escludere per rafforzare la propria coincidenza con il mondo. Il nostro mondo. E perché mai perdere tempo con ciò che non è affine, utile o semplicemente troppo complicato? Non ne vale la pena, ma se non accade matura una frattura che fa dire cose assolute in un mondo evanescente e sostanzialmente indifferente. Quasi ad enunciare dei principi che poi principi non sono ma sono ingarbugliate sofferenze senza voglia di nome. Non ritorna molto delle nostre posizioni e un embè seppellisce come un like. Allora tornare a noi, che conteniamo problemi e soluzioni, sembra l’unica cosa davvero giusta.

tra pudore e nudità

Sono talmente tante le ignoranze dell’uno e dell’altro che ci affidiamo a modalità precarie come l’intuito e la speranza.
Dovrebbe esserci una leggerezza pensosa tra noi che fa rifulgere il gioco in cui c’è molto di ciò che si limita, o ancora ascoltare, partecipando, le mutevoli allegrie e tristezze.
La vita arranca e si cela, lascia trapelare ciò che sembra lenire o non causare danno e male e ogni volta che si parla all’altro ci si ferma al limite della luce o della notte.
Il profondo trasloca allora in noi, si chiude in scrigni d’ambra o di cristallo. Vorremmo fossero saggiati dai palmi, percorsi da dita amorose, sentiti nella dolcezza e nell’affilarsi dei limiti, aperti piano e col giusto batticuore.
Senza risparmio di tempo perché la nudità esige l’infinito mentre il pudore s’accontenta dell’attimo e del giorno.

gli amori del limite

I confini, che a nessuno davvero appartengono,
sono il luogo dove tutto accade
e resta immobile, in attesa del farsi:
lì sono gli amori del limite.
E sembra vi sia la sfida
del cercare di noi lo sconosciuto desiderio,
ma non è questa l’insaziabile irrequietezza,
e neppure il rifiuto d’ogni ragione,
è quel farsi che affascina,
come accade vedendo un fiore che sboccia,
eppure era erba,
un verde senza pensiero,
ma prefigurava una stella
dove ora s’annodano energie convergenti
e prima  era vuoto apparente di tempo.
Nell’area dove tutto è possibile,
la determinazione assume la giusta modestia
ed è grande la pazienza,
così vede la crepa del cemento che si popola di steli e di foglie,
il verde che si nutre di grigio per essere rosso,
nella stagione che rifulge.
E ha il sapore dell’adesso e del profumo che sarà,
e ogni muscolo è pronto alla corsa
mentre ora muove placido nel fare consueto,
così anche il coccio di vetro rifulge
mentre il sole lo rende diamante.

buon ferragosto

 


Ieri c’è stato un pullulare di arrivi. Era la seconda ondata di furbi, quelli che avevano evitato le code del sabato e della notte di venerdì e si sono ficcati in quella della domenica. In questi giorni l’altopiano moltiplica per nove gli abitanti. I ristoranti sono zeppi e fanno i doppi turni, le strade dei centri dei sette comuni si riempiono di persone che si trascinano da un negozio a una gelateria e poi a un tavolino per arrivare a pranzo o cena.
Il turismo è invecchiato, i giovani non amano le camminate da malga a cima a malga, così arrivano i proprietari delle case costruite negli anni del miracolo economico veneto ormai anziani e il turismo di prossimità che cerca refrigerio rispetto alle temperature asfissianti di pianura. Qui il benessere è stato ostentazione e incentivo a un costruire privo di criteri e di cultura locale. La tradizione era logica, forte e povera, con una lingua propria e incomprensibile che non aveva nulla di altoatesino o austriaco, era il costruire di chi lavorava e non poteva rappresentare le icone dei cittadini di pianura che confondevano l’ altopiano con le Dolomiti o il cadorino. E i locali hanno aiutato ad estraniare il territorio nel riprodurre case tutte uguali e fuori della tradizione del posto, anzi, e se ci sono comuni che hanno oltre l’80% di seconde case un motivo c’è ed è evidente: l’interesse e l’arricchimento facile. Ne hanno usufruito tutti, costruttori, commercianti, artigiani, professionisti, agricoltori, alberghi e ristoranti, ecc.ecc. finché si è creato un clima di separazione basato sul solo interesse tra chi risiede e chi dovrebbe venire in vacanza ed è sempre più di passaggio. Innumerevoli case non si aprono più perché i figli hanno altre destinazioni e gusti rispetto ai padri e se devono ostentare qualcosa lo fanno altrove. Così i cartelli di vendesi si mostrano sui balconi di legno, sui legni tagliati alla tirolese e pur con un’ attività di acquisto favorita dai prezzi abbordabili, fanno fatica ad essere tolti. Quindi il futuro di questi luoghi, anche a causa del clima, sarà diverso e dovrebbe essere nella testa di chi ha capacità di intuire il futuro e potere per propiziarlo, mettere in atto ciò che serve a salvare l’antico e rendere più innovativo il nuovo. Cose difficili perché hanno bisogno di tempo e di discussioni che rompano luoghi comuni e abitudini facili, ma si potrebbe fare.
Intanto i vigili impazziscono per l’afflusso di auto e si celebra l’orgia lipidica di ferragosto. Ieri per i sentieri un po’ erti non c’era quasi nessuno, a parte le auto che devono dimostrare perché si acquista un fuoristrada per muoversi in città e i quad, l’equivalente delle moto d’acqua, questi sì con giovani pieni d’ansia di sgommare in salita, ma tutto sommato erano pochi e appena fuori dalle strade forestali correvano gli gnomi. Capire il cambiamento dovrebbe essere il tema di questo pezzo di mondo che si autocelebra, ma non intellige, non produce novità che renda le crisi davvero semplici. Sembra che tutto si riduca all’equazione: chi possiede, ha futuro e invece proprio questa equazione viene messa in crisi non dall’etica o dalla morale, magari fosse così, ma dalla stessa economia che divora il mondo e  che ha bisogno di acquirenti per le merci e di denaro da trasformare in spazzatura.
Qui ancora la natura e il dialogo con essa possono fare la differenza e trasformare i luoghi di brevi vacanze in posti in cui vivere. C’è molto verde e aria buona fuori dalle strade. Stasera faranno i fuochi per deliziare gli spiriti e cacciare i demoni che affollano le strade. Buon ferragosto.

dei tanti modi del bene

Dei tanti modi del bene vorremmo anche quello che accetta la tristezza e non la compara con le proprie.
Che non minimizza l’importanza personale delle cose che con fatica raccontiamo, perché vorrebbe dire che viviamo dentro vite banali.
Che non considera il nostro tempo come qualcosa che si possa confrontare con il tempo di altri perché siamo diversi anche quando assomigliamo.
Insomma vorremmo essere visti come persone che hanno una vita e che combattono o trovano compromessi con essa.
Vorremmo non essere giudicati per il nostro bene ma accolti per il bene che suscitiamo e che diamo.
Per tutte queste ragioni e per chissà quante altre,  la parola si spegne, diventa poco utile e scivola nel silenzio.