Viene il nuovo, che matura nel cuore dell’inverno, come frutto acerbo della passata stagione. Viene senza chiedere, segue occulti sentieri, e abbiamo bisogno d’auguri, di frecce nel cielo, di vividi fuochi per piegare presagi. Ciò che ancora non è si fonde con ciò che è già stato, ma è solo timore del cuore.
Per questo vi auguro amici difficili e sinceri, hanno anime a cui parlare, e il loro affetto non ha dubbi. Vi auguro passioni che travolgono abitudini, nel mostrare realtà ardue ed esaltanti. Vi auguro passi misurati ed infiniti, direzioni prese con il cuore, ritorni senza rimpianti. Vi auguro simmetrici amori, dolcezze silenti, fortuna d’occhi che parlano e le carezze che sentono. Vi auguro serenità nel giorno che si farà, libri che scandaglino il profondo, pensieri nuovi, mai prima usati, e inusitato sentire. Nuove abitudini, vi auguro, che diano piaceri quieti, preparino imprese inattese e diano piacere al vivere. Per noi vorrei il cuore che vede il mondo, l’intelligenza che si dona, senza risparmio, la pace che si conquista assieme. Che sia un anno possibile, dove il buono ci faccia bene, il bene e la giustizia siano di tutti, senza tema d’essere eque, forti e nate da buone volontà. Che ci sia pace, senza sofferenza, abbracci che cancellano vicendevoli mali e un vento nuovo che percorra il mondo, a scuotere le bandiere che sembravano perdute, ma sono l’anima dell’umanità.
Nella simbologia del dono, quello inatteso acquista un valore particolare e così riceverlo è un doppio piacere. Non so se ci si faccia meno doni di un tempo e se questi arrivino, a volte, con le poste, in questo caso è stato così e già leggere il mittente è stato un piacere, un pensiero d’attenzione.
Non lacero mai la carta dei pacchetti e non per riusarla, ma per tenere assieme la cura di chi l’ha spedito. Ci sono impronte di tenerezza che avvolgono il dono. Per questo serve tempo e scegliere se aprire subito, come fanno i bambini che lasciano all’emozione il compito di decidere oppure prolungare il tempo e cullarsi nei pensiero lasciando che permanga l’impressione della sorpresa. Spesso, se sono da solo, scelgo la curiosità, ma apro con cautela.
Dopo il cartone della scatola spunta un nastro viola, una lettera, un biglietto dipinto e un secondo pacchetto. Prima la lettera che spiega un moto d’animo, poi un biglietto con una poesia sconosciuta e bella, e un disegno stilizzato come ulteriore attenzione: un albero rosso.
In questo degustare, sorrido già da tempo, e il sorriso è fermo sulla soglia delle labbra come sentisse il calore di quanto sta accadendo. Rileggo, mi fermo. Il secondo pacchetto è un misto di curiosità e gratitudine, apro piano e spunta un libro. Un libro ti prende per mano, se chi te lo manda è caro, la mano è quella sua che ti addita cosa è stato importante, un pensiero che si immagina. Il sorriso che dispone da solo le labbra, è lo specchio d’un piacere profondo e d’una comunicazione intensa. Poso il libro e sento la gratitudine del dono che fuga il pensiero che siamo sempre con noi e a volte in attesa che qualcuno ci parli profondamente, allora sgorga la sorpresa e la meraviglia d’essere uomini.
Un libro ti prende per mano, se chi te lo manda è caro, la mano è quella sua che ti addita cosa è stato importante, un pensiero che si immagina. Il sorriso che dispone da solo le labbra, è lo specchio d’un piacere profondo e d’una comunicazione intensa. Poso il libro e sento la gratitudine del dono che fuga il pensiero che siamo sempre con noi e a volte in attesa che qualcuno ci parli profondamente, allora sgorga la sorpresa e la meraviglia d’essere uomini.
Da qualche giorno ho una urgenza di scrivere, sono inizi di pensieri da sviluppare, cose che si svolgono nei particolari che vedo, nella mia testa, in quel momento che ha durate sue, e che precede il sonno. Riempio pagine di appunti, cerco significati, misuro coincidenze. Il che non basta per considerare che si possa passare all’atto pratico e sensato di mettere in fila i pensieri. Sono porte che si aprono, necessità di mettere ordine.
Ad esempio se penso al Natale lo sento come una nascita che mi riguarda, un guardare in avanti che chiede un nuovo modo di vedere il mondo. Si sono accumulate tali e tante delusioni in questi anni che l’essere parte di una comunità divenuta sempre più indifferente, ha fatto smarrire il senso del procedere nell’umanità collettiva. Come si è uomini tra gli uomini?
Certo, la caduta dei miti, delle ideologie, ci ha lasciato soli. Uso il plurale perché penso ai molti che hanno speso le loro vite cercando di realizzare una piccola parte di utopia, senza interesse venale ma per una passione che spingeva verso l’eguaglianza, il giusto, il vero. Non posso pensare a quelle vite come inutili perché scomparire be la speranza, ovvero il motivo per resistere a tutto quello che mina la sopravvivenza del bello, dell’equo, della vita stessa. Quindi penso che chi ha vissuto parecchio, ha fatto esperienza di sé e del mondo e ancora crede nell’uomo debba raccogliere la piccola luce che possiede, quella grande di chi l’ha preceduto, è guardare con nuovi occhi se stesso e il mondo.
Nascere ora è questo essere nuovi perché muta la percezione, il sentire, il fare la nostra piccola realtà. Penso che la sera I pensieri che si accumulano e che urgono, debbano contenere la nostra giornata che seguirà. Il nostro nuovo farsi e fare è ciò che con pazienza, altri hanno fatto di loro stessi prima. Senza raccontarci storie, mettendo al bando inanità e tristezze, riprendere il nostro posto, con ciò che pensiamo nella realtà.
Per scoppi, come se nel ventre oscuro s’accumulasse un’infinita bolla che deve uscire, così lo specchio nero del mondo sale. Per vie oscure sublima in rocce polite, in creste taglienti, il mondo ci attraversa lo sguardo e l’anima, è indifferente, guarda sé, neutrino che segue un pensiero senza limite. Non si cura, non ascolta se non per sue vie che radicano infinite, che non fanno domande, non si voltano e procedono mentre attendono un passo da noi, indecisi su dove andare.
Mai è il suo nome mentre interroghiamo il caso, seguiamo la possibilità e la chiamiamo speranza. Mentre parliamo al suo posto, mettiamo in bocca le battute al mondo e attendiamo parli, finché il silenzio diventa insopportabile e allora di nuovo la parola, la nostra, riempie un luogo, risuona nelle nostre orecchie. Miracolosa la parola fino a un nuovo silenzio, fino ad un’abitudine interrogante che tace e rapprende il poco che resta nell’aria e in noi. Così il silenzio accompagna a lungo e quando trasuda in timore significa che non è finito a tempo debito per carenza di ascolto, di empatia.
Il tempo non ha debiti, casomai crediti e chiede conto mentre, in disparte, s’accumula il non fatto o ciò che dev’essere ripensato e ripreso nell’ interminabile gioco dove ciò che si scarta è sempre maggiore di ciò che si sceglie e però, il tralasciato, non scompare, sta quieto in attesa.
Di grandi coni d’infiniti grani è fatto ciò che resta in disparte. Ne vidi di enormi nei porti, si stagliavano contro il cielo, limitati solo dalla gravità e dall’attrito tra particelle. Potevano essere zolfo, e allora il colore giallo riempiva l’aria d’indebita allegria, oppure erano carbone lucente e grasso che assommava all’aria, polvere e piccoli mulinelli, che tingevano cupi il cuore, o erano minerali di ferro, rame e manganese che beffardi riflettevano la luce in caleidoscopi rivolti al cielo, o ancora coni di rottami tagliati da trance impietose, ridotti a parvenza di ciò che erano stati funzionanti, ma ancora vivi nelle tracce dei colori che li avevano vestiti. Erano arlecchini di passato, e mentori e presaghi, indicavano ciò che il desiderio sarebbe diventato.
Quei coni enormi, nati da benne indifferenti, erano acquattati in attesa d’un nuovo essere. Così è il tempo che non si compie, che non ha fine e linea di percorso: è granuli e gravità che rotola in nuovi equilibri e leviga le forme. Capsule d’attesa in un porto e possibilità scartate prima che divengano rimpianti.
Anche il cuore è un cono che si staglia verso il cielo e ha innumeri grani che danzano nel silenzio d’una musica d’attesa: un tango per il tempo che promette, accenna e non si compie.
il tango del tempo
Perché ora ti fidi, hai detto che non finiresti più.
Forse era la sfrontatezza sicura di chi attende,
o la luce che sorride dell’ignota possibilità
e del segreto d’una scaramanzia in attesa d’avverare.
Allora, nel suo fidarsi, il corpo s’è disteso:
dismessa l’arroganza il seno
il viso interrogava in attesa d’espressione,
e intanto, in un silenzio sorridente, hai porto la guancia,
Nei sentimenti pare funzioni così: Se mi do a te per amore, tu devi preservarmi come ciò che è più prezioso per te, accettare la mia diversità, far sì che essa diventi, con la tua, elemento unico e comune.
Qual è la natura dell’amore che entra dove non sai di esserci, che imbeve ogni impermeabile ricordo, che rompe il tempo e si trasforma in friabile pietra di sogno. Come agisce l’amore che cambia ciò che si vede, si tocca, si sente e mentre si sparpaglia attorno diventa punta acuminata che scrive e sanguina o lenisce il cuore. Sapere di cos’è fatto e poterlo un po’ per volta raccontare, come fanno i poeti che ad ogni ultima parola aprono una porta anziché chiuderla.
Sapere per intuito la dolcezza che tiene assieme l’attesa del bacio e il suo abbraccio alle labbra. essere consci che ci sono tanti abbracci e altrettanti baci, infinite attese e felicità sconosciute e ognuna è differente, ognuna ha una persona, un momento, genera un ricordo che riassume una vita nel suo amare.
Lasciare che i pensieri volino, incertezze nell’aria, assieme alle foglie in questo autunno che non finisce, che non sbocca in un gelo che stringe assieme i corpi. Guardarsi attorno e vedere che nessun passo va ancora di fretta e sentire che le parole sono lente, il pulsare è fatto di sguardi, di mani strette che cercano la punta delle dita, di cappotti troppo gonfi di piuma, di voli d’uccelli sconosciuti che cercano altrove rifugio.
Depositare nel cuore le attese, lasciare che ogni dolcezza maturi e affidare a ciò che cancella se stesso, ma non noi, non la pazienza e la passione, non la richiesta, il bisbiglio della cura e del desiderio. Trasporre tutto questo in parole friabili come biscotti e disseminarle in luoghi fatti di distrazione e inconsistenza, dove solo gli uccelli prestano attenzione.
la sublime inutilità di questo luogo lo rende poetico: è un mandala costruito con la pazienza dei giorni, le intemperanze e il ribollire dello sdegno, nessuno t’obbliga, è vero, ma forse tutti siamo gatti curiosi, e le vite altrui sono meraviglia, banalità, carezza leggera. Un soffio che si spande e fa girare il capo, come qualcosa che ci riguarda ed è già sfuggito.
Nascere a novembre penso includa la pazienza della primavera, il pensiero che guarda oltre i vetri appannati, che vede i fiori e le foglie sugli alberi spogli, e i prati bruni desiderosi di verde. Sarà per questo che tu, come mai nessuno, hai sopportato le mie malinconie, il senso di fallimento dei progetti diventati rovine, oppure da altri sottratti. Sei stata in silenzio davanti al mio silenzio, ma il tuo parlava e rassicurava che c’era il tuo amore, il tentativo immane di capire ciò che non si può capire. Hai accompagnato la ricerca di qualcosa che mi pareva e non sapevo bene cosa fosse, hai ascoltato le mie speranze, letto le prose non meno astruse dei versi, eppure li hai trovati belli mentre io ne sapevo il piccolo valore. Sei stata accanto e lo sei, oltre ogni aspettativa, mi tieni assieme quando mi scioglierei nel nulla, cogli il senso di ciò che faccio e che a me sfugge. Adesso so che non si fanno felici gli altri, neppure quelli che amiamo, ma che loro costruiscono con pazienza ciò che serve per essere talvolta felici e che questo è reciproco. È così profonda questa comunicazione che trova novità nell’abitudine, il bello dove si nasconde, la gioia di essere vivi perché c’è ancora attesa e siamo stati salvati dalla solitudine.
La pioggia ha concesso una tregua, avremo tre giorni di sole e poi di nuovo pioggia. Questa lunga stagione di calore e siccità ha accumulato un’enorme energia, distribuendo nel mare e sulla terra. Non tutto riceve con la stessa gratitudine, il mare è troppo caldo e i granchi non diventano moeche, la terra si raffredda prima, l’aria lo racconta bene ma tutto interagisce col mondo vegetale e animale, che restano indecisi sul da farsi. L’autunno e l’inverno erano stagioni di quiete, ora i delicati sensori della memoria delle specie cercano di interpretare i segni, novelli auspici, per essere meno confusi sul futuro.
La pioggia forte ha sconvolto i piani, dopo tanta siccità il desiderio d’acqua rende fragile il terreno, gli argini, noi stessi. La fragilità in cui tutti viviamo dovrebbe costantemente preoccupare e far chiedere atteggiamenti conseguenti, lo capiscono anche alberi e insetti, e questo dovrebbe essere chiaro alla politica e a chi amministra, ma non è così.
Si invoca la resilienza, parola prestata dalle proprietà dei materiali, trasferita all’uomo, messa persino negli affari e nelle questioni sentimentali, declinata nel solo significato positivo, ovvero la capacità di ritrovare se stessi dopo un evento traumatico. Ma esiste una parte che non viene esaminata, ovvero se ciò che ha determinato l’evento fosse o meno evitabile. Sembra strano che ciò influenzi la resilienza? No, se pensiamo che non siamo metalli o pezzi di plastica, se non pensiamo che le popolazioni che traversano mari e deserti poi alla fine arrivino uguali a chiedere asilo e vita, se per noi stessi non crediamo che tutto ciò che ci accade non ci cambi dentro, non muti, gli amori, le gioie, la specie.
Per questo nelle dichiarazioni di chi è investito dalle bufere di questi giorni o dalla possibile perdita del lavoro, fa emergere accanto alla resilienza, la rabbia o lo sconforto, o la rassegnazione. Tutte emozioni che non solo modificano la resilienza, la sua positività nel ricominciare, ma cambiano l’animo delle persone, la percezione di essere comunità e subentra una rassegnazione al degrado.
Così c’è anche una resilienza negativa che appartiene a chi ha il potere o detiene privilegi fondati sull’appropriazione di beni comuni, una resilienza che tiene strette le sedie occupate e rende impermeabili alle priorità della realtà, indifferenti al clima e alla guerra altrui, supponente sul mondo e sulla verità. Una resilienza che si nutre di parole e non fa nulla di concreto oltre far finta di esserci prima di tornare al sicuro, professionisti di ogni prima emergenza prevedibile. Sono i resilienti confacenti alla vischiosa gestione di un presente fatto di promesse. Fa cosi specie sentire l’annuncio del possibile rischio dei prossimi giorni da parte di chi governa che ci si chiede chi doveva introdurlo nell’agenda delle priorità. Quando si capirà che gli eventi accidentali non sono in gran parte tali, allora la resilienza positiva consentirà di cambiare il modo di vedere il mondo di chi lo governa, di chi specula sulle disgrazie, di chi non fa bene il compito a cui è chiamato. E chi fa informazione questo dovrebbe capirlo, prevedere ciò che accadrà e dire chi ne è responsabile. Ogni giorno perché gli eventi hanno radici nel non fare e di questo bisogna parlare chiedendo non le scuse ma la decenza del silenzio di chi ha governato lasciando che la fragilità crescesse, cambiasse i ritmi vitali, diventasse tragedia per molti. E si dovrebbe pure dire che il denaro potrebbe cambiare le cose, che produrre, mangiare, muoversi, rispettare diversamente il mondo cambierebbe la storia e i conti in banca di chi continua a devastare e consumare ciò che è di tutti. Allora la resilienza potrebbe fare il suo lavoro ed essere amica del giusto vivere, non del sopravvivere.
Imparare il silenzio quando si posseggono le parole “Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire” ” Heidegger”
Quando non si vuole rispondere a una domanda si parla di cose inerenti, interessanti, ma d’altro. Forse quella domanda non ha risposte in noi, eppure ce la siamo posta, magari da sempre la evitiamo perché affonda nel buio e il buio fa paura. La domanda resta, la si può coprire d’altro, anche per sempre, ma condizionerà a suo modo la nostra vita. Se è una domanda sui sentimenti, farà fare qualche omissione, dirà mezze bugie fino al suo esplodere o soccombere nell’implosione dell’impotenza affettiva, e allora devierà risposte e attese, fino ad essere consumata dalla vita.
Per questo il silenzio dovrebbe preparare la verità che deriva dall’ascolto e dalla comprensione che muta, non essere il modo per fuggire da sé e dagli altri. Per questo silenzio serve apprendere e l’umiltà di ascoltare.
Apparentemente è qualcosa di non fatto, un non essere come tu mi vuoi, oppure semplicemente l’ assentire forzato che considero obbligato. Mi adatto a fatica, non sono molto adattabile. Non è una qualità, l’uomo dovrebbe adattarsi all’ambiente in cui vive o adattare l’ambiente a sé. Io al più convivo con esso.
Eppoi sono geloso del mio tempo, mi creo un ordine in testa che mette alcune cose prima e altre poi. Direte: lo fanno tutti, ma il mio è solo mio. Credo che anche questo accada a tutti, però così gli ordini non sono sovrapponibili. E non è solo importanza è un equilibrio faticosamente raggiunto.
A volte emerge, nel bene, un sottile ricatto: la paura d’essere lasciati soli si trasforma in una priorità di attenzioni. Non credo funzioni così, l’attenzione se c’è, si esprime secondo le modalità conosciute. È qui, forse, nasce quel mi spiace che si nutre di sensazioni, quella tra tutte di non corrispondere come verrebbe richiesto.
Assomiglio più a un rivolo, a una vena d’acqua che a un onda, il molteplice sono io, non ciò che m’investe. E per capire mi chiudo in un silenzio profondo, per rimettere il mio ordine dentro. Con un silenzio che è una pausa alle risposte. A tutte le risposte che si devono dare per non ricevere altre domande.
Siccome non do ragione dei miei malumori, poi mi spiace. Allora cerco d’aggiustare l’incrinatura, di spiegare l’inspiegabile, il parziale, l’imperfetto, ma dovrei spiegare me. Fatica aggiuntiva e improba, giustificata nel momento e poco utile, perché la sensazione tornerà.
Non sono migliore di altri e forse basterebbe aggiungere: non sei tu la fonte del dispiacere.