a proposito dei diari

Qualche giorno fa ho preso in mano il primo volume dei diari di Gide. Un libro di oltre 1500 pagine fatto di annotazioni, impressioni, incontri, giudizi, dialoghi, fatti notevoli e meno. Un insieme di istantanee che Gide riassume per se stesso. Con la diaristica è più facile trovare l’autore piuttosto che cercarlo tra le pagine della sua narrativa, indagarlo nelle speranze e le paure nei suoi personaggi, ricostruirlo per induzione. I diari hanno quel sapore vagamente elegiaco, con le loro verità d’impressione sempre approssimative e il farlocco dell’esibizione, che rendono chi li scrive umano. Sono dialogici anche se fanno finta di rivolgersi unicamente a sé, si mostrano e quindi per chi legge, non è un guardare dalla serratura, è la quotidiana rappresentazione senza contraddittorio. Nei diari si eliminano molte abitudini, si evidenziano le occasioni e, anche se non vogliono, lasciano intuire che tutti ci assomigliamo nella meccanica della diversità. Certo c’è il genio, ma questo non è pane da diari, casomai se ne coglie qualche scintilla, o il perdurante modo di vivere sopra le righe, il genio riserva il suo esplicarsi all’opera e questa è altrove. 

Quando è possibile, può affascinare incrociare le diaristiche, le biografie, con le lettere di chi era significativo per l’autore (in questo momento penso, ad esempio a Manganelli, alla Merini, a Fulvia Papetti).  Ne esce un ridimensionamento e anche un fascino ulteriore. È lo stesso processo d’interesse altrui nei nostri confronti, che vorremmo nel conoscere per vederci con altri occhi. All’uomo di genio questo interessa ben poco in quanto è dominus del suo vivere, lo subordina per concezione naturale. Gide non è differente, e ciò che lo attornia sembra un’ orchestra che viene condotta come strumento complessivo, che sbaglia e può contrariare, ma suona una sua musica anche durante il processo creativo.  La psicologia ha indagato i processi che portano alla scoperta, ne ha stabilito le condizioni necessarie che però non sono in grado di generare il nuovo come importante solo perché c’è un milieu favorevole. Ad esempio quando si parla del rinascimento toscano, che non è solo toscano, che altrove è altrettanto importante, che il substrato è comune, che i grandi, i geni di allora, sono accompagnati da richieste importanti che riguardano la ragione, l’uomo, il bello. Che esiste una committenza diffusa ed estesa geograficamente,  che è moda delle classi dominanti, e che il bello costa oggettivamente poco. Come il genio.

Galimberti ha fatto un’osservazione importante: nella nostra epoca non ci sono geni della statura di un Leonardo da Vinci, neppure nelle arti o nella letteratura ci sono geni, e neppure se ne vedono all’orizzonte. In compenso c’è una produzione diffusa di livello elevato e transeunte, la parola geniale viene sprecata e soprattutto la tecnica ha determinato e determina il progresso. Nella diaristica emerge invece la fatica del quotidiano perseguire un ruolo che riguarda il profondo dell’autore. Non basta una app per diventare famosi e restare, quella serve a far soldi ma finisce presto divorata dal passo successivo. Questa è la tecnica, invece nelle vite immerse nel narcisistico compimento di sé, si sente una continua tensione verso un ulteriore. Si abusa molto la parola eterno, nulla lo è davvero, però il durare a lungo è già molto per chi scrive di sé. Il disinteresse, il cinismo, non scrive di sé, e neppure del mondo che lo circonda, basterebbe questo pensiero per far capire che c’è un interesse umano notevole in chi si narra, che non è solo la necessità di essere riconosciuti, apprezzati, ammirati, amati. (tutte queste parole non sono sinonimi, ma si inanellano in una catena recitata dal desiderio)

Ho cercato un blog che da molto tempo non pubblica più. C’è ancora, anche se l’autrice chissà che starà facendo. Mi sono soffermato a rileggere e a pensare alle osservazioni che lei faceva e che la riguardavano, ma soprattutto che guardavano. Il mondo le si svolgeva attorno e lei lo interpretava su di sé, partecipe. Ho pensato che in quel tempo anch’io avevo una scrittura diversa, attenta a fatti immediati da riportare in una prospettiva di tempo lungo. Ho pensato che i blog sono allora, come adesso, un’ immensa diaristica che procede o si interrompe e che chi comunica fa dialogare impressioni, rappresentazioni, ma anche molta sostanza. Anche se manca quasi sempre la verifica, le lettere, le impressioni di altri, di chi conosce personalmente chi scrive. Qui la tecnica ha reso pervasiva e immediata la capacità di proporre e di far assorbire stimoli e meno evidente e necessaria (forse perché noiosa?) la riflessione sui temi essenziali della vita. Che poi sono tre, ma ciascuno li declina secondo bisogno, identità, necessità.

su Manganelli:

Era povero in canna. È vissuto fino a dopo il 1960 in una camera ammobiliata, presso la famiglia Magnoni. Quando i Magnoni traslocavano, anche il pensionante traslocava. Come il canarino. Diceva mio padre: io, il portaombrelli e il canarino abbiamo traslocato con la famiglia Magnoni» (L.M.).

«Aveva una moglie e una bimba, ma già le prime bufere esistenziali lo avevano reso inquieto e solitario. In effetti egli stava vivendo in quegli anni l’Hilarotragoedia che darà alle stampe tanto tempo dopo, nel 1964. Il vistoso ossimoro del titolo connota la sua vicenda degli anni 1947-49, oscillante tra un amore assoluto, caparbio e il sospetto della follia incombente sulla giovane poetessa amata. Fu allora che scopersi, durante le visite settimanali che mi faceva la strana coppia degna di un dramma antico, la complessità della natura di Manganelli, che affiancava a sublimi raptus intellettuali una profonda, rara e squisita umanità. Con essa egli cercava di salvare la ragazza, di affidarla in mani sicure, ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i suoi segni esteriori. Un giorno egli scomparve in lambretta, diretto a Roma» (Maria Corti). «Mia madre rimase da separata in casa con i suoceri fino alla morte del nonno, accantonando per il momento tutte le sue ambizioni letterarie, ambizioni che riprenderà più tardi. I problemi pratici incombevano, le spese erano tantissime e mia madre tentava di fronteggiarle alternando l’insegnamento con le lezioni private. Io andai a vivere con i nonni materni a Parma, nonni e città assolutamente sconosciuti. Quando mio nonno paterno si ammalò, mi portò da sua madre chiedendole: – Me la tieni per quindici giorni? – E ci rimasi vent’anni» (L.M.).

oppure

http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/12/news/papetti_manganelli_l_erotismo_e_le_angosce_di_un_seduttore-107114417/

o ancora sul rapporto tra geni

http://ilmanifesto.info/carl-gustav-jung-e-wolfgang-pauli-lettere-sulla-fatica-di-essere-un-genio/

 

il narciso invisibile

In stati di grazia, L.A. Kennedy, parla di un amore conclamato e asimmetrico. Lei è in difficoltà con i suoi principi, con il ruolo, però vive se stessa, non enuncia e ama. Lui dice l’amore, ma è schermato dall’ego nella capacità di cogliere il bisogno di lei, apparentemente la lascia libera di scegliere.  Coglie la bellezza, ma non la persona, e se la fa crescere nel desiderio e nella comprensione di se stessa, questo avviene indirettamente. Si liberano forze e identità oltre le parole. Si capisce che le cose avvengono su piani differenti, che non basta dire ti amo, bisogna vedere assieme l’essenza e il desiderio dell’altro e metterlo dietro al proprio, per congiungerli. L’amore sembra agire per proprio conto creando situazioni e offerta di decisioni, alla fine decide molto più lei di lui. L’uomo di genio che ama la protagonista, in realtà vede solo se stesso riflesso e dichiara il suo amore per quell’immagine. Narciso. 

La bellezza di questo racconto, oltre la scrittura eccellente, sta nel fatto che lei non si lamenta, si specchia dentro di sé non nell’altro. Gestisce la propria vita, e non si adatta, anche se l’apparenza sembra diversa, perché provoca l’evolvere delle cose attraverso il dialogo con se stessa. Cerca dentro le risposte anche quando queste non vengono. Apparentemente è immersa in un immane condizionamento che piega vita e sentimenti, ma la sua ribellione pacifica sta nel chiedere conto alla situazione, nell’accettare i vincoli per far esplodere la contraddizione. Non si lamenta mai con l’altro, è autosufficiente nella propria insufficienza. Non le serve quella altrui. Non chiede conto.

La vicenda è semplice e intricata, perché attinge all’animo umano. Suscita riflessioni fuori tema. Di cosa ci si lamenta quando si dice che non basta, che non viene fatto abbastanza in un rapporto?

Seguendo il filo di un pensiero che non c’entra nulla col racconto, visto che in esso il lamento non esiste ed è constatazione della propria insufficienza, direi che nel lamento di non avere abbastanza attenzione c’è un insufficiente incontro profondo, un bisogno non confrontabile. È l’insoddisfazione per una mancanza che non evolve in azione, che chiede cura subordinata: se sono importante per te, il tempo lo trovi. Questo è un altro modo per esprimere un narcisismo: se sono per te importante devo esistere io solo/a per te. Il tuo tempo mi deve vedere, deve prendersi cura di me. Ancora una volta è un riconoscersi in un riflesso che impedisce di vedere e di vedersi.

Il narciso è apparentemente autosufficiente, perché ha bisogno dell’altro come conferma, per questo tende ad usarlo, a sottoporlo a ricatto. In una specie alta d’amore esiste la libertà del lasciar crescere, dell’attendere sicuro di essere cercati perché esiste una meccanica spietata nelle cose che accadono: l’incontro per scelta non ha necessità esteriori, non ha tempi predefiniti, avviene per bisogno e il tempo del bisogno anche quando non coincide nell’attesa, non ne toglie la natura. È un intrecciare i fili ascoltando e leggendo la crescita propria che avviene senza dire finché sfocia nella necessità. Se si dipende dall’altro si è in una condizione che genera paura di non esserci nella sua vita. La prova dei fatti è asincrona, spesso dolorosa e sempre insufficiente, tranne nei momenti felici. Non è la normalità del vivere, ma non c’è nulla di normale in un amore, a partire dalla sua definizione impossibile, dalla sua non ripetibilità. Però c’è qualcosa di comune in ogni specie d’amore: il bisogno di leggere ciò che accade, di mettere insieme due diversità, di cogliersi in un rapporto profondo. Se consideriamo questo desiderio di cogliersi nell’altro come il segnale di una mancanza di certezza di sé, come il bisogno di una conferma, allora  si scopre il proprio limite e l’autosufficienza del narciso viene meno per l’assenza dello specchio: subentra la paura dell’invisibilità. Non essere considerati come persona, non essere importanti all’altro significa essere invisibili e questa è una sensazione che ci accompagna inesorabilmente verso la dipendenza. L’infelicità dell’amore.

http://https://www.youtube.com/watch?v=clC6cgoh1sU

leggere

Uno di quei libri che ti prendono per stupore e scrittura. Dove attendi accada qualcosa che faccia bene al protagonista e a te. E tutto scorre verso una fine, perché bisogna pur concludere un discorso quando si sente che è ora. Può essere dopo 80 pagine o 800, basta non menare il can per l’aia. Anche per le storie diventa tardi e, dopo aver guardato i visi e l’orologio, resta solo da salutare e andarsene. Al più si può sperare che il sogno riprenda il raccontare e corregga la realtà, ma quando accade? C’è un momento perfetto per chiudere, quello in cui c’è una fine e non è desiderata. L’arte è cogliere quel momento.

Quei coriandoli nel deserto che danno titolo al libro diventano metafora della naturalezza dell’intelligenza e carnevale della vita. Della sua serietà nelle cose terribili che riguardano i singoli e noi tutti, ma anche del transeunte, del mutare l’importanza dell’immediatezza in un continuo introdurre variabili in un’unica equazione. La vita si complica e si semplifica, anche dove le storie sembrano così lineari. Sentimenti, personale, collettivo, passioni. E intelligenza, che si esprime secondo rivoli che i più subiscono, ma che riporta a sé, al bisogno di capire, di scomporre i problemi, conoscere e fare passi avanti. Capisco che non fu un confronto all’interno di un gruppo straordinario, forse irripetibile, che visse in Italia, a Roma, in quella via di Palisperna in cui si rivoluzionò la fisica, ma che riguarda tutte le intelligenze, quasi che alla fine il procedimento fosse lo stesso e tra il genio e chiunque, non esistesse un modo differente di mettere in relazione intelligenza e vita, casomai il problema è comporre tutto con i sentimenti, la sensibilità, le passioni. E’ inutile cercare di arrestare il progresso della conoscenza, l’ignoranza non è mai migliore. Lo afferma Enrico Fermi e il protagonista del libro, Enrico Persico, fisico pari a Fermi ma senza Nobel, racconta di averlo sempre pensato. Ma lui è diverso e, in fondo non accetta la sua diversità che lo rende umano e quindi grandissimo. Nella storia si comprende che ci fu chi vide l’implicazione della scoperta, anche nei suoi effetti distruttivi e se ne ritrasse e chi invece continuò. Si apre il dubbio su quanti modi ci siano per conoscere, quanti di questi siano silenti, leggeri sulla storia, non meno importanti e per altre vie si facciano strada. In fondo è così superficiale attaccarci ai simboli, alle mode, a un Nobel. Quando le vite sono così intrise di conoscenza c’è chi vede oltre e decide, anche di condurre l’intelligenza altrove, come fosse uno strumento e non un fine.

Bello leggere un libro di grande nitore e dolcezza, inusuale di scrittura e per ciò che evoca, dove le donne sono grandi in assoluto, nel loro modo così singolare di essere altro, e gli uomini si rincorrono. Come fosse un gioco, e forse è davvero un gioco preso troppo sul serio. E’ così bello e raro quando l’intelligenza si accorge degli altri, frequenta l’ironia, e non il sarcasmo, che vien da pensare che questo sia il modo di conoscere davvero. Non l’unico: quello che si vorrebbe.

il libro è Coriandoli nel deserto di Alessandra Arachi e questa non è una recensione, ma una manifestazione di felicità di leggere.

l’odore dei libri

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In casa c’è odore di libri e di sole. Lo sento quando entro, quando mi sveglio, quando mi guardo attorno. Mi piace come si mescola con il profumo del legno. Penso sia il mio odore. Ieri sera ero in una grande libreria, un bel prodotto di architettura, ammiccante e furbo, ma c’era odore di soldi e carta più che di libri. Le grandi librerie sono come gli ipermercati, generano confusione di scelta, non diventano luoghi. Il credo del marketing è la quantità, il cliente dev’essere irretito dall’opulenza, chiamato all’acquisto come a una liberazione. E’ prigioniero del sistema e deve pagare un riscatto. Invece sto riducendo gli acquisti, non di libri o di musica, per altri inutili, ma di cose. Esco dalla paura del restar senza. E preferisco le librerie piccole, una in particolare. Siamo amici, è un posto in cui stare. Sfoglio, spulcio tra gli scaffali, leggo. Sono un buon cliente, porto a casa e posso restituire ciò che non mi piace. E’ un piacere andarci. Tornare.

I libri nella casa mi rassicurano, anche se son troppi. Parlano con un fruscio sommesso di pagine sfogliate. Hanno l’odore delle idee, dell’inchiostro usato, della carta che invecchia assieme a me.

E’ questione di stile. Capisco che ora lo stile si è fatto più morbido, conformato a me e rifiuta l’apparenza. Così invito poco, non ho voglia di spiegare. Chi viene non chiede o parla di contenuti, vita insomma e non è la stessa cosa.

diritti d’autore

Di molti libri mi piacciono poche frasi, folgoranti come un pensiero che si dimentica. Più rarmente mi colpisce il titolo, sarà per questo che non li ricordo. Ho un conto corrente aperto in una libreria amica che mi permette molte libertà, anche il ripensamento. Il momento che amo è l’approccio don giovannesco, dove non si capisce bene chi conduca il gioco dell’affascinarsi e prendersi. In piedi, prendo in mano il libro, lo apro con la delicatezza che merita un lavoro, leggo, salto, chiudo, riapro, spesso compro. Un pensiero mi rincorre in questo piacere del piluccare: vorrei costruirne un libro sconclusionato fatto di frasi estrapolate, ricucite con la mia storia, con le storie che ho conosciuto, con il mio tempo. Sarebbe un libro palloso, molto personale, da stampare in tre copie, la prima, mia, da mettere in scaffale, la seconda, mia, per correggerla in continuazione, la terza da lasciare al bar sottocasa. Lasciano spesso libri nel bar da Anna, qualcuno li prende, a volte ne porta altri, è un commercio sotterraneo di idee, senza intenzione, che consuma e ripulisce, come il mare. I libri hanno un senso se li rimastichi a pezzi, se ti riconosci. I pezzi di sola bravura mi piacciono, ma lasciano una traccia labile, diventano intoccabili e servono a stabilire distanze incolmabili. Posso parlare con Dostoevskij, con Borges o con Gadda, non con un marziano. E se un autore mi cambia è perché l’ho divorato, fatto mio in quella piccola, grande parte in cui mi ha scoperto, riconosciuto, stanato. Mi dicevano al giornale, quando mandavo qualche articolo: scrivi per essere capito, non per sintonizzarti con quei quattro balordi che ti assomigliano. Magari lo facevo, ma mi mancava qualcosa, non ero adatto, semplicemente, l’ho capito prima io di loro.

Ho visto in Senegal qualcosa che assomiglia a quello che penso, tavole di legno con sure del Corano. I bambini imparano a compitare l’arabo, poi a leggere la sura, la fanno propria e questa man mano diventa l’interpretazione della loro vita che continua. Senza scomodare similitudini importanti, mi piacerebbe che il patchwork di frasi della mia vita fosse nella disponibilità di parole sentite che si modificano, nel ragionare dell’essenziale che rende sempre più smilzo il libro, più semplice. Tabula rasa, non è l’inizio, è il fine della scrittura, la sua cancellazione fino alla scrittura della nuova storia. Basta aver tempo, basta arrivarci a tempo. Intanto raccolgo frasi, mie e non mie. Quando si espunge una frase dal contesto la si può citare, oppure sottacere, modificare, portarla al senso personale, l’autore difficilmente potrebbe riconoscerla, è stato un catalizzatore, e la frase non è più sua, ha prodotto altro, diventando un tratto di chi l’ha ripensata. Anche il senso, il sentimento che sottende la frase non è più lo stesso, è del lettore che non guarda più, ma beve, si nutre e a sua volta scrive (e m’affascina questo perenne riscrivere). E’ un processo intenso, che esige rispetto, devozione, pudore, attesa, emergerà, infatti, quando sarà totalmente opera di chi ha fatto proprio il senso. Come per la biblioteca di Babele di Borges, o la macchina tipografica infinita di Gamow, un oggetto programmato sulla base delle permutazioni delle lettere e delle parole, potrebbe scrivere tutto ciò che è scrivibile e tutto ciò che si scriverà, ma il tempo di leggerlo sarebbe infinito e  quindi sarebbe una macchina inutile: solo ciò che è nostro è significativo. L’invito alla chiarezza allora si rovescia, se guardo il mondo come Escher, vedo infinite forme brulicanti ed immaterie che s’agitano dentro di me, di queste pesco una combinazione, un carattere che va al cuore: la chiarezza è pescare dallo stagno il significativo, metterlo assieme, costruire il significato. Ne nasce un libro virtuale e reale, che si aggiorna di continuo nei dettagli, che perde più pezzi di quanti ne acquisti: tolgo tre frasi perché una la riassume. Così vorrei arrivare vicino alla tabula rasa con uno smilzo libretto da gettare, per poi prendere lo stilo e tracciare una lettera, che sia la prima o l’ultima non importa, è l’inizio della nuova storia. 

cadeau

Ogni anno ricevo un piccolo libro di poesie, contiene un’ acquaforte ed una dedica su un cartoncino. E’ un libro quadrato, di poche pagine in sedicesimo, semplice nel suo colore pastello e inchiostro seppia. Le parole a volte colpiscono, altre volte scorrono, leggo, spesso torno a rileggere. Sono poeti che non conosco, c’è il piacere della scoperta, spesso l’affinità del sentire. Non confronto mai quello che leggo con quel mio, che non oso chiamare versi, mi basta l’idea di capire.

E’ un regalo che attendo, non so se chi me lo spedisce sappia il piacere che mi procura. In questo caso, essere inseriti in una mailing list, è stata una scelta di altri momenti che continua a generare code di felicità. Penso che è strana, ormai, l’attesa dei rari doni da adulti, incongrua, anche se mi fanno un piacere particolare, come il sapere che qualcuno aggiunge intenzione all’amore dell’altro. Nel mio passato ho molto da rimproverarmi al riguardo, disattenzioni, frette da ultimo momento, stanchezze, finché le parole fatidiche sono risuonate: non facciamoci più regali, tanto si possono fare tutto l’anno. Ed invece la meraviglia del bambino che ci portiamo dentro, in giorni particolari attende di più. Ma è una sensazione personale senza pretese di generalizzazioni.

Così quando arriva il mio libro di poesie, ne sono felice e il suo profumo d’inchiostro si prolunga, taglio le pagine intonse, leggo e dopo l’epifania lo metto accanto ai predecessori. Di costa, nel loro cantuccio negli scaffali di poesia, li allineo nei colori, sentendo che pure le parole si allineano, è una bella sensazione che i significati si allineino. Ed un senso d’amicizia fidata per un attimo, mi percorre.

librerie

Quando entro in una casa, cerco d’essere poco invadente, ma ho un riflesso condizionato per cui, dopo l’attenzione a chi mi ospita, lo sguardo corre verso le librerie, e poi, più in dettaglio, sui libri. E’ quello che mi attrae di più dopo aver colto il gusto generale dei mobili e degli oggetti, e questi diventano un dato del mio cercare di capire le idee di chi possiede quello spazio, ma l’importante sono le librerie e i libri. 

Credo di farmi condizionare da questo, nel senso che l’ immaginazione corre, mi faccio delle idee sugli abitanti della casa, proprio a partire dalle sequenze e dai titoli, e dai luoghi che li ospitano. Non mi interessa che siano pochi o tanti libri, né la sontuosità o meno delle librerie, ma dove sono, chi li ha acquistati e perché. La mia casa è troppo zeppa di libri e confusa, per essere un termine di paragone, mi incuriosiscono invece i percorsi degli altri. Alcune collane ed editori, mi ben dispongono subito.  Mi piace il formato, il carattere, la carta, le scelte degli autori. Ho un antico amore per Einaudi e Adelphi, per Feltrinelli e Laterza, e poi altri, con alcuni piccoli editori bene in evidenza. Già vederli mi fa pensare bene. Spesso riconosco gli autori e in testa, ho traccia dei libri, per cui mi viene naturale chiedere, dimostrare la curiosità che realmente ho. Non di rado mi sbaglio sui percorsi che hanno portato ad acquistare un libro, o tenerlo dopo un regalo ed è un piacere sbagliarmi perché, dal racconto dell’ospite, apprendo motivazioni sulla ragione del leggere che non sono le mie. Trovare quanto c’è di comune e di differente nel scegliere libri, dice molto di noi. Noi siamo quello che leggiamo e se non leggiamo nulla, non è vero che non siamo nulla, anzi, ma siamo altro, apparteniamo alla, non piccola, schiera dei non lettori che vivono, amano, lavorano lo stesso. Però penso che chi legge abbia qualche circuito mentale diverso, che debba esercitare di più la capacità di immaginare e di essere altrove, e che tutto questo porti al relativo del conoscere più mondi coesistenti.

Ci sono persone che leggono moltissimo e non conservano libri. Le loro librerie sono essenziali, tengono solo ciò che non si può considerare letto mai appieno, a volte anche questo scompare in qualche furore sull’importanza dell’utile, dell’oggetto. Tanto ciò che è importante si ritrova, dicono.

Altri come me, considerano i libri un flusso, ne hanno molti più di quelli che riusciranno mai a leggere. In un flusso le particelle scorrono, non si preoccupano molto di preordinare, sanno che hanno una direzione. Per questo chi pensa ai libri come ad una componente del vivere ha librerie che si susseguono, e l’attenzione del disporre (non c’è un ordine apparente), è spesso geografico-mentale. La necessità e sapere, pressapoco, dov’è un libro per poterlo ritrovare, per approfittare della sua amicizia e sicurezza, perché ci ricordi il motivo che ci ha portato a sceglierlo. Il motivo è una possibilità, un dialogo che è iniziato ed è rimasto sospeso. Potrà continuare, continua a sollecitare anche senza leggerlo a fondo. Gli scaffali, sono librerie obese, solide ed essenziali perché devono contenere, spesso poco pretenziose. Ciò che ha portato a costruirle o ad acquistarle era il libro, non la stanza che doveva tenerle che diviene funzione della libreria e non il contrario. Del costruire librerie ho esperienza, credo comune a molti, ma questo è altra parte del rapporto con il libro, che quasi sempre si abbandona con il benessere economico riservando ad altri il compito di raffigurare i nostri pensieri e desideri di raccoglitori. Ne parlerò in altro momento di questa fase della vita, perché lavorare con il legno mi ha insegnato molto.

Spesso vedo case in cui le persone amano in maniera ordinata il conoscere, incasellano il sapere. Hanno studi solidi, sono specialisti, parlano con forza e competenza. I libri sorreggono il lavoro, sono una finestra e un legame con chi condivide gli interessi. Non importa quale sia la specializzazione, ma la curiosità è sempre limitata dall’utile, considerano molti libri un perditempo, il romanzo o la poesia diventano essi stessi funzionali alla passione principale. Hanno librerie forti di persone forti, che si alzano con sicurezza da poltrone in pelle e prendono il libro giusto. Cercano poco e poi il dito indica: vedi, è così! 

Ci sono case con un rapporto equilibrato con il libro, sanno vivere e lo frequentano per il piacere del contenuto, non eccedono, acquistano ciò che leggeranno, sanno che la vita è molto fuori del leggere. E il leggere in questi casi fa parte, non è il principale interesse, ma c’è, è importante tanto da trasmetterlo ai figli, da farne oggetto di discorso. Le librerie hanno il loro posto, non sono invadenti, ritrovano il ruolo di contenitore. Se guardo le scelte, vedo immediatamente l’interesse definito, che sia la narrativa dei momenti che si sono succeduti nella vita, oppure la poesia che suona bene, mi riporta ad una visione tranquilla del vivere, dove la curiosità è educata, contenuta.

Lascio perdere il libro e la libreria arredo, purtroppo dicono molto e subito. In questi casi cerco di capire oltre l’apparenza, se poi l’interesse non c’è è meglio parlare d’altro. 

Queste sono poche parole sulle mie idee del rapporto libri, librerie, persone e sul tema potrei scrivere un discreto – per pagine, non per contenuti- volume. Si avrebbe una mappa dei miei pregiudizi e storture, molto vicina alla realtà, ma ciò che mi interessa rappresentare qui, adesso, è il fascino che su di me esercita l’ordine nel tenere libri. Mi parla direttamente e devo dire che ancor più mi racconta e prende, il disordine e l’abbandono, la confidenza intima che emerge dall’abitudine, il rapporto automatico, non filtrato dall’apparire, della persona con il libro. E’ il mostrarsi impudico  che mi attrae, il prossimo leggere, l’ultima consultazione, la sottolineatura e l’equilibrio precario dei libri in attesa. Se poi apro un libro,ma per educazione, lo faccio poco in casa d’altri, la testa inizia ad immaginare e connettere ulteriormente. Qui mi fermo, non mi devo mostrare troppo curioso e scortese,  e torno a chi mi ospita.

Se c’è interesse reciproco, ci sarà tempo per parlarne. 

anni

Anni pesanti, anni leggeri.

Dopo la lettura di “Ragazzo” di Massimo Fini, gli anni dovrebbero essere di piombo. Per fortuna, non è così. Molte delle cose scritte sono vere, è solo il tono che toglie aria ed accorcia l’orizzonte. Forse per l’autore fare il bagno nell’acqua gelata rinvigorisce, a me toglie il piacere del nuoto. Comunque condivido molto e mi sento sollecitato a confrontarmi con gli altri, per capire se esiste differenza nel sentire e trattare l’età.

Nei giorni scorsi, ero lontano per lavoro, ho incontrato un amico di poco più vecchio, a cena. Nel darci appuntamento per la mattina dopo, mi ha detto: “vengo a prenderti all’albergo dopo aver portato mio figlio a scuola”. Un sorriso per chiedere l’età e la risposta “8 anni”, mi ha fatto pensare alle paternità tardive, nate quasi sempre con nuove compagne, magari a suggello di un amore che non si nega nulla.

Tutto giusto, ma vale solo per chi lo desidera e ne conosce le implicazioni, solo allora non è un problema e un figlio ringiovanisce.

Ricordo un collega amministratore, che allegramente iniziava riunioni, parlando a tutti del suo figlio appena nato. A lui, che aveva 65 anni, era nato un bimbo. C’era un misto di orgoglio, di vecchiaia esorcizzata, di felicità amorosa, di vita che pretendeva prospettive. Tutto giusto, adesso quel bimbo ha 10 anni e spero giochi con il padre, lo guardi con gli occhi con cui i figli dovrebbero guardare i padri, spero che la gioia e le difficoltà siano lievi ed equamente divise in una vita utile a tutti, al figlio innanzitutto.

I sessantottini, non vogliono invecchiare. Siamo la prima generazione che rifiuta il declino, abbiamo visto più cose cambiare nelle abitudini e nella società di molte altre generazioni precedenti. Eppure non c’è stanchezza. Siamo solo patetici, a volte, e senza volere, con donne giovanissime a fianco, con l’ostentazione di una diversità presunta e intrinseca. Come se il dna si fosse modificato apposta per noi.

Tutto questo non significa non avere progetti, speranze, passioni, amori, bisogna solo capire ciò che fa star bene. Ed è una fatica, ammettere, che ciò che fa star bene, limita, che non sfasciarsi nel corpo, è fatica, che usare ciò che si è appreso, impazientisce. Continuare a lavorare per necessità, perchè lavorare è  più importante dal punto di vista personale di molte altre possibilità.

Ho paura del troppo tempo a disposizione dopo una vita così piena, mi piace ancora mettermi alla prova, crescere, capire. Però i 100 metri non li corro, se non per gioco e se faccio a braccio di ferro con mio figlio, è per allegria. Ed entrambi, rossi in viso, ridiamo, felici. Io perchè ho ancora forza, lui perchè rinnova una complicità e non gli dispiace.

Capisco da poco, che esiste una via personale agli anni, che il passo deve essere misurato sulla felicità del camminare. Per conservare la gioia dell’andare, non per altro.

non pensarci

Da qualche tempo i vecchi ci mettono una pezza, mi viene in mente la soluzione di “onora il padre e la madre” e quella più allegra di ” non pensarci”. I giovani sono a disagio, non trovano il posto in cui stare, il genitore risolve.

E’ allegro Zanasi, spesso si ride. La stessa comicità che ci prende quando uno è balbuziente, oppure inciampa e cade: affettuosa e sollevata di non essere noi il soggetto dell’ilarità. 

Essere coscienti dei propri problemi è opprimente in questa stagione del mondo: ma non era più bello quando non ci dicevamo proprio tutto e l’nquietudine si curava con gli ipnotici?

A proposito una Agnese c’è stata nella mia vita e nella vostra?