caso senza necessità

Si potrebbe pensare che succede, è il caso che mette assieme l’improbabile e il consueto, ma lo stesso è una carognata. Dal bar si vede il corso, le ragazze che chattano al cellulare, i 50 enni che dimenticano consapevolezze e che parlottano in cerca di amori a breve. E’ un posto bello, di quelli che dovrebbero essere finanziati dal comune, perché hanno un ruolo nel mantenere identità che non poggiano sul denaro. E’ un porto, questo bar, si attracca la barca, si prende il campari, lo spritz e poi si riparte. La vita è dentro e fuori. Non si alza la voce, la mattina si spacciano cappuccini per ragazzi e anziani in cerca di caldo, la sera forniscono da bere, una parola, un luogo: è una funzione sociale. Qualcuno capita per caso, altri lo sanno, alcuni sono amici di chi recita una parte, altri si conoscono da sempre. Ecco, però, se qualcuno che non hai mai visto attacca dicendo: ho visto le menti migliori della mia generazione, allora sei perduto. Eri andato per uno spritz e ti trovi con Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac e tutti i nostrani giunti in ritardo al beat e dimenticati.

Se ci pensi appena ti assale l’incompiuto, quello che hai lasciato indietro, con i sogni, i capelli lunghi, tutto quello che avresti voluto essere e non sei stato. I tentativi di distruzione, le paure, le codardie, i giorni gloriosi, tutto in un giro di chitarra, un assolo di sax con l’ accordo che colpisce al cuore. Quello che è venuto poi è stato un succedaneo, un treno pieno di signori, quando volevi piedi nudi e notti sterminate. Con la vita, ti sei raccontato che è arrivata la consapevolezza.

Piano, in testa, emerge l’ateo che tagliava dogmi e gole, era lui che dominava allora? o era un compagno con cui confrontarsi e basta. Come ci siamo ridotti, che miseria per chi non ha più un sogno decente da sognare. Dio, dio, dio, per noi che non crediamo, dov’è l’uomo adesso? Sangue non ce n’è più e non si vive di parabole interrotte, di possibilità mancate. Pensieri da vecchi. I vecchi non dovrebbero pensare, dovrebbero coltivare vizi, miserie e pensione, non dovrebbero guardare il mondo che non capiscono.

Due ragazze scambiano messaggi, parlottano, al primo accenno di pausa, (era un silenzio tra versi di una poesia di Corso) si alzano, e vanno verso altri rumori, altra vita.

Si conclude, tra applausi e yuuu, qualcosa in un tavolino poco distante. Cosa si conclude? Allora c’ero, c’eravamo e dovevamo guardate l’altro lato della realtà. Cosa abbiamo fatto?  Dove ci siamo perduti?

Ciò che ci sta attorno è quello che abbiamo espulso,

senza digerire,

ci siamo girati per non sentir l’odore,

e lo stupore dell’incomprensione è in questi cumuli che non riconosciamo,

sono nostri, noi, che giocavamo ai dati pensavamo di essere senza dio,

il nostro stomaco, capiva più di noi.

Noi allora, e cosa siamo ora?

Anna è andata via

Anna è andata via. Ha scritto: buone vacanze, ci vediamo al ritorno. Era una bugia, non è tornata e lo sapeva.

Anna non si sa dov’è, ovvero si sa, è il segreto di Pulcinella, ma le città grandi sono così confuse che è come non saperlo. La immagino in qualche posto pieno di voci e di persone, magari dimentica e non pentita.

Nel bar chiuso han fatto gl’ inventari: poca cosa, è bastata mezza giornata per bottiglie e mobili, ora addossati in gruppetti polverosi. C’è qualcosa di più triste del rimasuglio di bottiglia in un bar chiuso? Da Anna sì, ed è la libreria divisorio, piena di libri da scambiare gratuitamente. Credo, non l’abbiano neppure considerata. Sono merce a perdere il libri, come le idee che ci siamo scambiati la sera, tra uno spritz ed un crostino, come la musica delle serate affollate tra versi recitati e qualcuno che suonava jazz o Bach, indifferentemente, come i discorsi di mattina facendo freddare il macchiatone, come gli appuntamenti muti e gli arrivederci.

Inseguiva un sogno, Anna, quello di un posto dove ci fossero amici che si ritrovavano a bere, chiaccherare e sperimentare un tempo diverso.

Ha lasciato creditori insoddisfatti e fornitori desolati, Anna. Il suo sogno aveva un costo che noi, amici, non potevamo condividere oltre il limite del bere e del consumare. Aveva un sogno Anna, e ciascuno a suo modo, l’ha sognato con lei. Pensavamo di chiamarlo Jung bar, perché esplorava meandri rosso fuoco e distese di profondo blu. E’ rimasto uno psico bar chiuso che di notte fa tristezza.

Anche di giorno fa tristezza.

Ma aveva un sogno Anna, chi più chi meno l’abbiamo condiviso, per questo spero lei sogni ancora.

diritti d’autore

Di molti libri mi piacciono poche frasi, folgoranti come un pensiero che si dimentica. Più rarmente mi colpisce il titolo, sarà per questo che non li ricordo. Ho un conto corrente aperto in una libreria amica che mi permette molte libertà, anche il ripensamento. Il momento che amo è l’approccio don giovannesco, dove non si capisce bene chi conduca il gioco dell’affascinarsi e prendersi. In piedi, prendo in mano il libro, lo apro con la delicatezza che merita un lavoro, leggo, salto, chiudo, riapro, spesso compro. Un pensiero mi rincorre in questo piacere del piluccare: vorrei costruirne un libro sconclusionato fatto di frasi estrapolate, ricucite con la mia storia, con le storie che ho conosciuto, con il mio tempo. Sarebbe un libro palloso, molto personale, da stampare in tre copie, la prima, mia, da mettere in scaffale, la seconda, mia, per correggerla in continuazione, la terza da lasciare al bar sottocasa. Lasciano spesso libri nel bar da Anna, qualcuno li prende, a volte ne porta altri, è un commercio sotterraneo di idee, senza intenzione, che consuma e ripulisce, come il mare. I libri hanno un senso se li rimastichi a pezzi, se ti riconosci. I pezzi di sola bravura mi piacciono, ma lasciano una traccia labile, diventano intoccabili e servono a stabilire distanze incolmabili. Posso parlare con Dostoevskij, con Borges o con Gadda, non con un marziano. E se un autore mi cambia è perché l’ho divorato, fatto mio in quella piccola, grande parte in cui mi ha scoperto, riconosciuto, stanato. Mi dicevano al giornale, quando mandavo qualche articolo: scrivi per essere capito, non per sintonizzarti con quei quattro balordi che ti assomigliano. Magari lo facevo, ma mi mancava qualcosa, non ero adatto, semplicemente, l’ho capito prima io di loro.

Ho visto in Senegal qualcosa che assomiglia a quello che penso, tavole di legno con sure del Corano. I bambini imparano a compitare l’arabo, poi a leggere la sura, la fanno propria e questa man mano diventa l’interpretazione della loro vita che continua. Senza scomodare similitudini importanti, mi piacerebbe che il patchwork di frasi della mia vita fosse nella disponibilità di parole sentite che si modificano, nel ragionare dell’essenziale che rende sempre più smilzo il libro, più semplice. Tabula rasa, non è l’inizio, è il fine della scrittura, la sua cancellazione fino alla scrittura della nuova storia. Basta aver tempo, basta arrivarci a tempo. Intanto raccolgo frasi, mie e non mie. Quando si espunge una frase dal contesto la si può citare, oppure sottacere, modificare, portarla al senso personale, l’autore difficilmente potrebbe riconoscerla, è stato un catalizzatore, e la frase non è più sua, ha prodotto altro, diventando un tratto di chi l’ha ripensata. Anche il senso, il sentimento che sottende la frase non è più lo stesso, è del lettore che non guarda più, ma beve, si nutre e a sua volta scrive (e m’affascina questo perenne riscrivere). E’ un processo intenso, che esige rispetto, devozione, pudore, attesa, emergerà, infatti, quando sarà totalmente opera di chi ha fatto proprio il senso. Come per la biblioteca di Babele di Borges, o la macchina tipografica infinita di Gamow, un oggetto programmato sulla base delle permutazioni delle lettere e delle parole, potrebbe scrivere tutto ciò che è scrivibile e tutto ciò che si scriverà, ma il tempo di leggerlo sarebbe infinito e  quindi sarebbe una macchina inutile: solo ciò che è nostro è significativo. L’invito alla chiarezza allora si rovescia, se guardo il mondo come Escher, vedo infinite forme brulicanti ed immaterie che s’agitano dentro di me, di queste pesco una combinazione, un carattere che va al cuore: la chiarezza è pescare dallo stagno il significativo, metterlo assieme, costruire il significato. Ne nasce un libro virtuale e reale, che si aggiorna di continuo nei dettagli, che perde più pezzi di quanti ne acquisti: tolgo tre frasi perché una la riassume. Così vorrei arrivare vicino alla tabula rasa con uno smilzo libretto da gettare, per poi prendere lo stilo e tracciare una lettera, che sia la prima o l’ultima non importa, è l’inizio della nuova storia. 

grecale

Anime che cadono in vortici a spirale,

tardive foglie,

pacciamatura di vita,

ed il vento affila le sue armi,

spiana il prato, percuote, insinua.

Ironia nell’amore, che racconta di trame intessute d’aghi di pino,

mentre il vento leviga intonaci di fortilizi pieni di vuoto:

s’è aperta una porta, ha sbattuto una finestra,

ma gli ansimi, perdio, quelli sembravano…

Nel vicolo una bottiglia di plastica corre giocosa,

con rumori secchi tra gli stretti muri,

è solo vento che pulisce l’aria,

rimette ordine, sparpaglia carte di supermercati, foglie nascoste,

e porta pezzi di note, si lascia derubare

di sguardi, di svolazzar di gonne e di cappotti.

Dentro al bar, guardo oltre la vetrina.

Aspetto, 

mi parlano, e sento le parole che escono

via nel vento,

senza traccia.

 

una carognata

 

 

Si potrebbe pensare che succede, è il caso, ma lo stesso è una carognata. Nel bar da Anna si vede il corso, le ragazze che chattano al cellulare, i 40-50 enni che hanno accumulato strati di consapevolezza e che parlottano in cerca di amori a breve. E’ un posto bello, di quelli che dovrebbero essere finanziati dal comune, perché hanno un ruolo nel mantenere identità che non poggiano sul denaro. E’ un porto, si attracca la barca, si prende il campari, lo spritz e poi si riparte, la vita è dentro e fuori. Non si alza la voce, la mattina si spacciano cappuccini per ragazzi e anziani in cerca di caldo, la sera forniscono da bere, una parola, un luogo: è una funzione sociale. Ma Anna non pensa che basti fornire un posto, una vetrina da cui guardare, e il venerdì regala musica e poesia. Qualcuno capita per caso, altri lo sanno, alcuni sono amici di chi canta e recita, però … Ecco, però, se qualcuno che non hai mai visto attacca al microfono dicendo: ho visto le menti migliori della mia generazione, allora sei perduto. Eri andato per uno spritz e ti trovi con Ginsberg, Ferlinghetti,Corso, Kerouac.

Cazzo, questi sono l’incompiuto, quello che hai lasciato indietro, con i sogni, i capelli, lunghi, tutto quello che avresti voluto essere e non sei stato. I tentativi di distruzione, le paure, le codardie, i giorni gloriosi, tutto in un giro di chitarra, un accordo che colpisce al cuore. Quello che è venuto poi è stato un succedaneo, un treno pieno di signori, quando volevi piedi nudi e notti sterminate. Con la vita, ti sei raccontato che è arrivata la consapevolezza.

Piano, in testa, emerge l’ateo che tagliava dogmi e gole, era lui che dominava allora? o era un compagno con cui confrontarsi e basta. Come ci siamo ridotti, che miseria per chi non ha più un sogno decente da sognare. Dio, dio, dio, per noi che non crediamo, dov’è l’uomo adesso? Sangue non ce n’è più e non si vive di parabole interrotte, di possibilità mancate. Pensieri da vecchi. I vecchi non dovrebbero pensare, dovrebbero coltivare vizi, miserie e pensione, non dovrebbero guardare il mondo che non capiscono.

Due ragazze scambiano messaggi, parlottano, al primo accenno di pausa, (era un silenzio tra versi di una poesia di Corso) si alzano, e vanno verso altri rumori, altra vita.

Si conclude, tra applausi e yuuu, cosa si conclude? Cazzo, io c’ero, c’eravamo e dovevamo guardate l’altro lato. Cosa abbiamo fatto?  Dove ci siamo perduti?

 

Ciò che ci sta attorno è quello che abbiamo espulso,

senza digerire,

ci siamo girati per non sentir l’odore,

e lo stupore dell’incomprensione è in questi cumuli che non riconosciamo,

sono nostri, noi, che giocavamo ai dati pensavamo di fregare dio,

non il nostro stomaco.

Noi.