Il vento spinge folate di pollini, generoso lontano li cosparge, le dita stropicciano, e s’arrossano gli occhi. Della passata stagione, ancora c’è il fresco ma i fiori che piovono dagli alberi, son nuovi,e han fatto tappeto per insegnarci a non pesare sulla bellezza e sul tempo. Nel muro il glicine col gelsomino abbracciato resiste, e attorno l’aria si profuma di vertigine e di vita che vive.
L’erba tagliata di fresco, riempie l’aria di profumo. La primavera eccita gli amanti dei prati rasati, i taglia margherite, che ammucchiano in piccoli grumi masticati. Sacchi d’erba messi davanti ai giardini in attesa della nettezza urbana che li trasformerà in compost. Nessuno lascia crescere l’erba, forse ne abbiamo paura e sembra che l’ordine sia nei piccoli fili ad altezza composta ed eguale. Così il verde tenero e nuovo trascolora nel nero i succhi dei tagli slabbrata.
Il buon giardiniere ha lame taglienti, ora fanno le macchine che non hanno bisogno di cote, anche quelle che con un pannello solare e quattro sensori si muovono instancabili a rasare il rasato. Perduto è il tempo della fatica con la falciatrice a rulli che non lasciava imputridire il taglio, il fai da te non ammette troppa fatica e chi lo rifiuta ricorre ai giardinieri che hanno fretta e uniformità di idee. Anche le cooperative sociali fanno quello che possono, i carcerati in affido non sono amorevoli giardinieri e i portatori d’handicap badano a non travolgere i fiori con i tagliaerba a filo che all’erba.
Questo ronzio delle macchine è una frenesia primaverile privata, nella città pubblica, a parte i grandi giardini, le aiuole sono i ritagli dell’urbanistica a metro cubo, trasformate in arredo urbano che da troppo tempo aborrisce gli alberi, che confina l’altezza dei cespugli. Il comune pianta bulbi per stupire ma l’idea di un verde comune si perde tra scarichi d’auto. Chissà se anche il russo steso sotto il cedro è arredo urbano.
Un tempo, non distante da qui, nel giardino dell’ospedale tisiatrico, s’erano formate grandi comunità di conigli che saltavano tra pazienti, fiori e visitatori. Poi in parte erano esondati verso aree verdi vicine, e di verde in verde avevano incontrato la fame che aveva arrestato le migrazioni. La fame degli umani, intendo. Dal lato della Specola, la Torlonga, si erano formate grandi colonie di anatre e altri uccelli d’acqua che uscivano rabbrividendo dall’acqua e andavano ondeggiando incontro al pane vecchio o all’erba tagliata. Gli appassionati umarel mai erano mancati. Era bello questo crescere d’animali oltre il domestico. Indisciplinati, non ascoltavano, non avevano memoria di crocchette e divani, però banchettavano allegramente alle spese della pubblica bellezza. Quella stessa bellezza pubblica che ora traccia file ordinate di fiori omogenei per colore, genere, fioritura. E ci si accontenta delle forme dei fiori, dell’esigua caducità del fiorire, mentre si potrebbe avere una città wild, con animali a spasso nei parchi, pronti a crescere secondo le loro regole di compatibilità. Un poco è già così e mentre falchetti e uccelli rapaci si annidano nei campanili e nelle torri, ora guardo le anatre e un coniglio disperso che saltella tra i grumi d’erba. Ai tempi di Beethoven, gli animali erano nelle città, chissà se ci pensava nella fantasia op. 80, che ho ascoltato ieri sera, con loro al parco. Li immaginavo seduti a sgranocchiare erba, cantare in coro o dirigere con un tulipano, incantati che la primavera si riempisse di suono.
Della casa ricordavi le grida per le scale, i litigi che s’acquietavano dabbasso, nella grande cucina che sbucava sul cortile. La scala, in pietra d’Istria, la divideva a mezzo, i gradini avevano il colore biondo dei capelli delle ragazze che venivano dal Friuli. Qualcuna a studiare da maestra, altre a servizio in famiglie abbienti e se avevano figli da allattare, spesso erano balie a domicilio. Si trovavano sotto il portico, davanti alla porta in cui entravamo anche noi, erano messe a servizio dalla moglie di Nini, conoscevano strada e porta, si trovavano la domenica pomeriggio, come le moldave o i filippini, adesso.
Chissà che nome aveva davvero Nini. Era un omone grosso, possente e capace di una carezza quando passavo, le sue mani a me sembravano enormi, capaci di chiudersi a pugno ma anche di tenere con eleganza le carte trevigiane che causavano scoppi di voce e insulti immediati. Bastava una carta sbagliata, un punto perso e tutto veniva messo in discussione, la tovaglia, i bicchieri, il bottiglione mezzo pieno di un vino rosso, aspro sin dall’odore e potente nel colore, tanto che neppure la varecchina l’avrebbe tolto dalla tovaglia. Nell’alzarsi degli uomini e della discussione tutto volava in un angolo di quella strana stanza, e mentre liberava il legno del tavolo, scurito dall’uso, rovesciava le sedie, il vino si spandeva sul pavimento d’assi d’abete e finiva la partita. Il pavimento era macchiato tutto l’anno, fino a Pasqua, quando veniva sfregato e poi passato con gommalacca e mordente sciolti nell’alcool, allora assumeva un colore rosso brace che assorbiva ogni macchia e pungeva il naso. Era il momento della diaspora degli scarafaggi che in gran numero uscivano e si infilavano in buchi, sino a quel momento segreti, per non farsi più vedere per un paio di mesi. Alla mia richiesta su dove andassero, mi venivano date risposte che suscitavano ilarità che non capivo. Vanno a Sottomarina a prenotare la stagione estiva oppure scappano verso le pescherie a comprare pesce. Noi abitavamo vicini alle pescherie, erano dall’altra parte del fiume ma non riuscivo a immaginare una cassetta di sardine portata da un esercito di scarafaggi, e a chi le avrebbero portate? E in cambio di cosa? Tutti ridevano e ridevo anch’io.
Cosa facesse Nini, che poi era il capofamiglia che ci ci affittava l’ultimo piano, quello in cui ero nato, era sconosciuto come il nome. Quella stanza con il tavolo delle carte era quasi sempre chiusa. Di notte avvenivano traffici che la riguardavano e c’erano cose che entravano e uscivano. Quando era vuota giocavano a carte e se per caso assistevo, al momento della rissa, venivo fatto allontanare in fretta mentre l’ultimo sguardo coglieva le mani già pronte a parare o a dare e più spesso a prendere gli abiti dell’altro per spingerlo contro il muro. Allora la porta si chiudeva, le voci si alzavano di tono e i contenuti erano quelli delle parole che io non dovevo imparare. A volte la partita riprendeva, più spesso finiva con urli e un ultimo sbattere di porte. Quella stanza era vicina all’ingresso sotto il portico, aveva una finestra ed era stranamente sopraelevata rispetto al corridoio, di due scalini, anch’essi di legno. Sotto al tavolo c’era una gran botola che portava direttamente in cantina. La stessa che nelle prime avventure batticuore, scendevo con il figlio più piccolo di Nini, verso un buio appena rotto da una bocca di lupo che dava sotto al portico, con un’oscurità che non consentiva di distinguere le cose che si ammassavano sulle pareti sino al soffitto a volta. Finita la scala fatta di gradini di mattoni messi in taglio, scivolosi e neri di sporcizia, c’era un pavimento che anch’esso doveva essere di mattoni, ma la polvere depositata e impastata con l’umidità, lo rendeva cedevole al passo. Di passi ne facevo pochi perché c’erano rumori e, Bepi, il compagno d’avventura, diceva ch’erano pantegane così grosse che si sarebbero mangiate un gatto. Per quello di gatti in casa ce n’era solo uno, un soriano sempre in braccio alla moglie di Nini. Gatto pacifico, dall’artiglio bizzoso che non amava essere privato della quiete che aveva scelto. Della cantina sapevo l’odore di umido e di marcio, l’oscurità che prende forma di mobili, damigiane e cose, il brivido di freddo che già si sentiva nell’aprire la porta e che assomigliava all’alito spento dei draghi che illustravano il libro di fiabe che mi era stato regalato per la befana.
La casa mi sembrava grande, a te non era mai piaciuta se non per le stanze ampie e alte e per la vista sui tetti e sul fiume. Eravamo nel centro della città vecchia, si vedeva la torre dell’università, con il suo parafulmine che era fonte di paura per te e per me di ulteriore avventura nell’attesa che una saetta fosse catturata dalla punta di ferro ritta sulla sommità e che, come mi raccontavano gli amici dei giardini dell’arena, l’intera corda di acciaio intrecciato che scendeva al suolo, si illuminasse e restasse incandescente a fischiare e sfrigolare tra sbuffi di vapore. Devo dire che pur attento e impavido, non ho mai visto quella corda infuocarsi ma un fulmine, quello sì che vidi, e il suono fu immediato, tanto era vicino, e fece tremare i vetri e tu ti nascondesti con me in camera. Con la Nonna sentii il terremoto e ci nascondemmo sotto al tavolo, ma la casa doveva essere abituata perché non si aprì neppure una crepa.
La cucina dava sui tetti e sul giardinetto dove c’era un ciliegio che era prodigo di frutti, buoni da alcool e da sciroppi o marmellate, ma poco dolci al gusto. C’erano ragazzi che ne andavano ghiotti e s’arrampicavano sul muro di divisione dal cortile del palazzo a fianco, per coglierli e riempire le mani e le magliette che si alzavano su canottiere bucherellate dall’uso. Erano gli apprendisti del falegname e dell’idraulico che avevano bottega nel gran cortile del palazzo e a me sembravano grandi, ma avevano forse undici o dodici anni. Tu mi raccomandavi di non frequentarli, avrei disubbidito volentieri ma per loro il tempo dei giochi era già finito e se il loro “padrone” li avesse visti giocare con me, li avrebbe presi a calci perché dovevano imparare un mestiere ed era per questo che le famiglie lo pagavano. A fianco della cucina soggiorno, c’era la stanza stretta e lunga, in cui dormiva mia Nonna, con una finestra alta che dava sulle scale illuminate da un grande lucernario. Poi c’era un corridoio largo che dava sulle scale e sull’altro lato una stanza simmetrica a quella della Nonna in cui dormivo io oppure i parenti in visita e poi una grande stanza da letto, che era quella dove dormivi Tu e Papà. C’erano due letti, il vostro e uno vicino alle finestre che davano sulla strada, dove prima c’era stato il lettino azzurro per me e poi un letto più corto del vostro, che serviva ad ospitarmi quando c’erano parenti. Due finestre, i suoni della strada fino a tardi, la luce di un lampione che filtrava dagli “scuri” di legno e il cielo bene in vista quando d’estate le imposte erano socchiuse. Ero nato in quella stanza, di notte, con un viavai di parenti e dei vicini del piano di sotto. Mi raccontasti che era caldo e che tutto avvenne in fretta e con il dolore che non si poteva eliminare. E allora Ti intenerivi e forse quella casa la amavi un poco, perché era legata a me. Per Te era una costrizione e a parte la tua amica dal nome strano, Alba, nulla ti legava a quel posto se non gli amori profondi che tenevano tutto assieme e allontanavano le difficoltà.
Io invece quella casa l’ho amata. Quando era disabitata ho cercato di capire se si poteva affittare o addirittura comprare. Era cambiato tutto. Dalla camera si vedeva ancora il cielo ma un palazzo alto aveva sostituito i tetti a spiovere di fronte, il palazzo a fianco, nonostante avesse storia, un progettista del’600 e una imponenza non comune, oltre che di pregio, era stato abbattuto per farne un insieme moderno di appartamenti, negozi e finestre. Gli artigiani cacciati, il fiume interrato, le pescherie sostituite da un informe mescolanza di marciapiedi, alberi a casaccio, fermate di autobus. Interrato il ponte, scomparsi il panettiere, le osterie, il macellaio, il fabbro, il falegname, il verduraio, il pizzicagnolo. La casa era rimasta per ingordigia della proprietaria, ma si dissolveva nell’incuria. Guardavo gli “scuri” del secondo piano e immaginavo cosa doveva essere stata quell’estate degli strilli e poi i primi giochi, fino ai ricordi vaghi e le sensazioni. Te ne parlai più volte, ma oltre la nostalgia degli anni non c’era un sentire quel luogo come importante oltre a me. Tu stavi bene dov’eri e il ” casa or’è dove si vive” era il tuo luogo del presente. Del passato si poteva raccontare, sorridere, sentirne la pesantezza mitigata dalla gioventù e dalla voglia di vivere, ma tornare indietro no, non era possibile quindi molto meglio andare innanzi.
Non ho mai saputo bene che mestiere facesse Nini, perché qualche volta parlasse spagnolo inframezzandolo con il dialetto e a me sembrava che fosse una sola lingua. Non ho mai capito perché dovevo stare attento qualche mattina mentre lavavano il pavimento e c’erano tracce rosse nel secchio dell’acqua dopo una notte in cui le voci si erano alzate troppo e Tu avevi chiuso a chiave la porta della camera. Penso facesse il contrabbandiere, forse ricettava e qualche volta i conti non tornavano. Ogni tanto spariva o venivano a prendere informazioni, ma cosa facesse davvero non l’ho mai saputo e perché l’avvocato proprietario avesse affittato proprio a lui. A me voleva bene, diceva che gli portavo fortuna a carte, bastava che me ne andassi quando non era aria. Ma quello succedeva quasi ogni volta.
L’aria dell’autunno è ancora dolce. Ieri sera s’ infilava sotto i portici della città semi vuota per il ponte. In piazza delle erbe, le bancarelle dei pakistani vendevano frutta, verdura e sorrisi. Ormai resistono solo loro alla fatica d’essere in piedi dalle 4 del mattino sino a notte. In piazza della frutta, si alzavano i fumi delle castagne cotte tra il profumo dei funghi, della frutta secca, delle spezie. I bambini, affascinati dal volare delle faville, quando si alzava la grande padella dal fuoco erano parte di un rito del passato che tutti abbiamo vissuto, e distoglievano gli occhi dal video gioco o dal telefonino.
L’aria era così ricca di profumi, di colori accesi e sapori, che l’inverno sembrava lontano e non faceva presagire la pioggia di stasera. Sotto i portici del ghetto e del prato, c’erano i bar con tavolini all’aperto pieni di ragazzi, e sul liston e tra le piazze si celebravano i riti vecchi e nuovi dello spritz, della vasca (ovvero del percorrere ininterrottamente il percorso dell’appuntamento serale), del parlare di tutto e di nulla fino a notte, con un bicchiere in mano.
Anche con la pioggia è bella la città in autunno, tra qualche giorno le prime nebbie veleranno il prato della valle, ma basterà alzare gli occhi e le stelle e la luna saranno al loro posto, limpide. Ormai le nebbie dense della mia infanzia, sono un’eccezione; merito del riscaldamento delle case, dicono. O forse di quello globale perché dai colli, la città sembra avere un cuscino di calore sulla testa fatto di vapori e luci gialle, non rimedia all’artrosi di una vecchietta accogliente, con qualche acciacco, ma ha ancora il fascino immutato di quando ci pareva giovane nei suoi mille e mille anni. Però anche adesso riesce a stupirmi, a mostrarmi una strada mai percorsa, un giardino dentro un vicolo, il ricordo d’un accadimento su una lapide che riporta a fasti antichi.
Qui l’autunno dolce è di casa perché questa città ha questa stagione sulla pelle e nel cuore. Saprà agghindarsi di verde e di fiori a primavera, e riempirsi di neve d’inverno, mostrando un antico temperamento nordico che non ha più negli occhi. E lo si percepisce nell’arroventarsi d’estate e nel tenero scacciare i suoi abitanti verso il mare e i monti vicini, ma per la città la sua stagione amorosa è l’autunno.
Questa città è un bel posto per me, sarà perché ci sono nato e ciò che vedo sono pezzi del ricordo di altre età. Anche altre città che amo sono vicine, perché in fondo, con i suoi campanili e i dialetti che mutano tenendosi stretto il suono, questa regione è un’unica grande metropoli, rigata di fiumi, di campi, di vigne dove la pietra si innalza al cielo sia quella degli uomini che quella dei monti. Pianura assolata, montagne, mare, qui tutto ciò che conta è vicino, tutto influisce, ma anche sta per suo conto, tutto è a portata di auto e di giornata. In fondo gli antichi veneti avevano scelto bene e saputo sfruttare l’incrocio dei fiumi e delle strade.
La provincia ha il fascino del piccolo, del percorribile, degli eventi giornalieri, mai pochi, ma ancora importanti perché non soverchiati da troppi avvenimenti.
Ho scoperto di essere un provinciale, probabilmente molto presto, quando ho pensato che questi erano i luoghi in cui tornare e ancora non avevo deciso di andare. E anche se vedo tutti i limiti di una città mai troppo grande, penso che i pregi li cancellino piano piano tutti e che il segno resti positivo. Insomma non mi sono mai pentito d’essere in questi luoghi.
Questa terra è il luogo che mi ha generato, con la possibilità di essere ciò che sono. Nascere qui ha significato avere un cielo e una finestra da cui vederlo, una strada per andare a scuola, un cortile per giocare, il luogo in cui crescere. Così è stato per altri, con cui condivido la lingua, le storie dei genitori e degli antenati che si intrecciate nei secoli. È un luogo da cui partire, ma che genera nostalgia anche quando provo la meraviglia del mondo nell’andare. Forse per questo indefinibile sentimento torno a questa terra, al calore materno che è nelle pietre, negli alberi, nelle case, nel cielo. È il luogo in cui ho imparato ad amare, ad avere memoria, per questo la chiamo mia terra e non mi serve possederla, ciò di cui ho bisogno è camminare nelle strade, fermarmi a riposare lungo il fiume, guardare le case, le persone, il cielo e ascoltarne le parole. Anche le lingue che non capisco, ascolto, e diventano parte di questa terra che chiamo mia ma ne posseggo solo il posto dove dormire, mangiare, lavorare. Quando penso che andrò via, so che altrove non ci saranno le stesse sensazioni, che in un altro luogo per chiamarlo mio, ci sarà bisogno d’ amore, di pazienza, di capire bene cosa pensa chi lo abita. Finché questo non accadrà sarò un ospite e sarò parte di quel luogo solo quando le storie e il capirsi si intrecceranno, ma ci vorrà tempo e forse non basterà. Possedere una casa, della terra, avere denaro non renderanno mio quel luogo, perché mio significa appartenere per essere uno e questa non è una proprietà. Undici anni fa ero in Syria, in un piccolo villaggio del nord ovest, non c’era nessuno per le strade, le case ogni tanto lasciavano che un bambino uscisse per chiamarne un altro e giocare. Faceva freddo, c’era vento, allora una mamma o una nonna usciva e chiamava i bambini dentro. Al caldo. In una lingua di cui non capivo se non la musica delle parole. C’era amore e sollecitudine nelle voci adulte e i bambini rispondevano con lo stesso altalenare di toni, di vocali e consonanti, come in una canzone mormorata all’orecchio dell’amata. Una di quelle case a un solo piano, c’era una insegna in legno con scritto a pennello: museo e dentro l’unica stanza, un bellissimo mosaico di epoca romana, forse di quando Tito era imperatore. Mostrava con migliaia di tessere sapienti e colorate, una grande geografia di navi e pesci nel mare, di coste e deserti, tracciava i luoghi e i nomi delle città . Molte di queste città erano state potenti, ricche di uomini e monumenti, ma erano scomparse, e quel villaggio era quanto rimasto di una di esse, particolarmente grande. In quei luoghi le generazioni si erano succedute, erano passati i persiani, i greci, i romani, i crociati, gli arabi, i turchi e poi nuovamente gli europei, i francesi, gli inglesi e poi di nuovo gli arabi. Per alcuni di questi quella era diventata la loro terra, perché l’avevano amata, si erano fatti possedere da essa, avevano imparato dai vecchi abitanti, abitudini, lingua, il tempo della vita e della morte. Avevano onorato e preteso rispetto agli uomini, tanto che ormai chi si era fermato, diceva che era la sua terra. Uscendo dalla casa museo, era tornato il vento, nubi di polvere portavano le ceneri di chi era passato, i bambini giocavano, le donne e gli uomini accudivano le poche pecore nei recinti. Era la loro terra, non occorreva possederla, bastava vivere in pace, crescere i figli, parlare con i vicini e ogni tanto ridere o piangere assieme. Nessuno di loro versava sangue altrui per avere altra terra, che non sarebbe stata la loro e avrebbe preteso altro sangue e tolto sapore e volontà alla vita. La loro terra era piccola e bastava per vivere, chiunque si fosse aggiunto avrebbe avuto bisogno del necessario e poi di vivere in pace con chi c’era. La mia terra non è bagnata di mio sangue, mi disse la mia guida, e neppure mi appartiene ma è il luogo in cui vivere. Qualche volta ci hanno cacciato, poi siamo tornati, perché chi aveva preso il nostro posto, versato il nostro sangue, non era riuscito a dire che quella terra li possedeva, erano solo i padroni e volevano cose diverse da quello che essa poteva dare. Potevano essere cittadini del mondo, se avessero condiviso la pace e la vita e il mondo sarebbe stato loro e nostro.
La mia terra non è mia, non mi appartiene, io appartengo a lei, e lei lo sa quando mi fermo, la sera, a guardare gli uccelli, il cielo. Quando ascolto la musica delle parole è poi cammino in mezzo a esse, sa che con la notte cerco il caldo della casa e che mi basta perché ciò che mi dona è quello che mi fa sentire parte di lei. Per questo amore questa terra è mia.
L’estate la desideravi negli acquazzoni di giugno, la trovavi nell’odore di cloro dell’acqua della piscina, nella sera quando i muri emettevano calore e ci si sedeva sugli scalini di fresca trachite, a parlare di ciò che mancava nelle nostre vite. L’estate era nei pranzi che facevi da solo, nelle scatolette di tonno con salsa e piselli, nel loro pessimo sapore di unto e di latta, nella fame che s’era accumulata in una infinita nuotata. L’estate era l’ombra dei portici alle quattro del pomeriggio, era l’alito di muffa e di fresco che veniva dalle grate delle cantine, era suonare un campanello per cercare qualcuno che era già andato via.
L’estate ti prendeva a tradimento, sembrava che fosse lenta ed era un fulmine di caldo, ti faceva domande a cui non sapevi rispondere. I giorni correvano pregni di sudore, desiderando il buio, le camminate nella notte, le sedie di legno dei bar già chiusi, da solo o in compagnia, ad attendere qualcosa che doveva farsi esatto, una scia nel cielo, un segno, un presagio. Era estate e non s’era sentito il suo passo lento, il vestito leggero, il profumo di pelle sudata, la sequenza d’ombre e sole che spingeva verso i muri sotto i portici.
Sarebbe arrivato agosto, il mare, la pelle ancora più scura, esposta, nuda nel giorno e nella notte, il salso che si screpolava, che tirava e poi prudeva, i giorni già più corti, pieni d’una luce che non finiva mai, con la sabbia tra le dita, poi nelle lenzuola di lino fresco, e un prendere a calci il tempo per gettarlo innanzi, oltre una duna, un casotto, una pianta arsa e feroce di spini, un richiamo a cui non badare. Il giorno iniziava presto, il sonno scioglieva nella notte e nel fresco la stanchezza, poi c’era il profumo del caffè, la luce che premeva sugli scuri accostati. Sentivi il suo richiamo ad uscire nel profumo del sole, violento, possessivo, privo di pudore. Il sentiero tra le dune già scottava, attendevano giochi ormai adulti, e presto la sabbia ricopriva la pelle, c’era l’urgenza del mare, anch’esso gioco e indiscreta bellezza, le corse, il gettarsi nell’acqua, il riemergere con gli occhi pieni d’acqua e di luce.
La città paziente, attendeva i ritorni. Scompariva dal ricordo, lo sapeva. Si consolava con il brivido delle lucertole che uscivano dalle crepe degli intonaci roventi, guardava con gli occhi dei vecchi dietro le imposte accostate, il giorno che scorreva nel sudore dei pochi rimasti. La sera le rondini davano spettacolo, pochi le vedevano attendendo il cielo della notte per uscire, poi una spuma fresca, una fetta di anguria, i semi sputati, rimandando il riposo difficile nelle case. La città strascicava il tempo, lo offriva lento a chi era rimasto, sapeva distrarre gli amanti tra schiocchi di vecchi mobili e lo scorrere d’aria delle finestre “in corrente”.
Tu, assieme agli altri, i lontani, saresti tornato con l’estate non ancora finita, le piazze si sarebbero di nuovo riempite la sera e i portici cercati per l’ombra nei pomeriggi infuocati. Avevi storie da raccontare, pensieri nuovi da fare, silenzi da imparare, la notte veniva prima ed era più fresca. Odori e profumi si mescolavano, andavi a letto sempre tardi, l’estate non finiva mai.
Mettiamo che in una qualsiasi sera di maggio, con un caldo anomalo, quasi da giugno, il verde con la luce radente diventi sontuoso, che le siepi comincino a profumare e che gli alberi siano carichi di foglie pulite. Una serata che attrae fuori di casa e mentre cammina, un po’ per consapevolezza e un po’ per intuizione, il nostro protagonista si accorga, che molto di quanto ha fatto, pensato e vissuto come occupazione principale in una infinita sequenza di giorni, non era poi così importante. Pensa che fare programmi non è il massimo dell’intelligenza, che le persone, anche quelle care, sono libere di muoversi come meglio credono e secondo le loro vite e che i pensieri per incontrarsi, hanno bisogno di essere comunicati con verità e innocenza.
Cammina tra il verde splendente che gli ricorda altre sere ormai passate così tanto da non essere ben collocabili, allora, giustamente, il nostro protagonista respira a fondo. Come se così facendo i pensieri ritrovassero almeno l’ordine cronologico, se non quello dei sentimenti e delle delusioni. Anzi, pensa, che avere più tavole che mettano in ordine, il quando, il come e l’intensità del sentimento consentirebbe di avere una visione della propria vita, delle connessioni, forse anche degli errori naturali, della misura del tutto e del trascurato.
Perso nel fascino di questa molteplice tavola del vivere e del sentire, si siede vicino al fiume che ha visto in ogni età della sua vita e si accorge che non riconosce la città in cui è cresciuto, ovvero, riconosce i monumenti, le pietre, i percorsi, ma non conosce nessuno di chi gli si muove attorno. Questa sensazione si fa più forte e gli sembra che una immane commedia sia in corso, che i partecipanti/attori ne siano consapevoli, ma che gli spettatori non lo sappiano.
Passa un volto noto. Saluta e parole senza sostanza si scambiano tra i volti. Da un sorriso riceve un sorriso e gli pare di vedere le parole, trasformate in lettere, che escono e si sciolgono prima di arrivare: un mucchietto di impalpabile cenere di conversazione che li unisce. Il mestiere lo aiuta per troncare con le frasi fatte usate all’uopo la conversazione che vorrebbe prolungarsi, l’interlocutore non ha fretta, lui ha necessità di silenzio e di guardar meglio ciò che accade. Ragazzi si raggruppano, scoppi di voci, si formano e si sciolgono brigate. La sera avanza, sanno dove andare, lui si chiede se tornare perché la rappresentazione non solo non è finita ma non ne ha ben compreso la trama e il senso.
Ora è la notte che fa paura. La notte dei sentimenti, delle prospettive. Ricorda che basta ripetere gesti semplici per tenersi assieme, ma tenersi assieme non è vivere. E lo sa. Si guarda attorno e la piazza si sta vuotando, lungo il fiume si sono accese le luci e tanti piccoli chioschi mescolano alcolici, tolgono la schiuma alle birre. Montagne di patatine arrosto, profumo di salsicce, sembra una città tedesca però priva delle tavolate bagnate di birra, delle canzoni ritmate con i bicchieri. Il profumo è quello dell’acqua morta, il verde, quello delle erbe che marciscono nell’acqua bassa. Dovrà camminare per immergersi nei giardini, per sentire il profumo dei tigli, delle siepi di gelsomino, qui vivevano altre vite che non ci sono più. E’ la sua città che non lo riconosce, adesso capisce il senso di qualche scena a cui ha assistito e allora ricorda NIetsche: non guardare troppo l’abisso, altrimenti, l’abisso guarderà te.
Se qualcuno sa davvero cos’è la solitudine può parlare con il nostro protagonista, mentre medita camminando. La solitudine è il vuoto che aspira i pensieri e le speranze, le certezze e le illusioni. Riconosce le pietre e i portoni, le scritte antiche che nessuno è riuscito a cancellare, si è formata nella sua testa una mappa che gli dice dov’è senza l’ausilio delle vie, come ogni luogo fosse un appuntamento e un ricordo. Gli torna in mente l’idea delle tavole da sovrapporre con il tempo, il luogo e ciò che è accaduto in lui, a questo dovrebbe aggiungere ciò che non è accaduto fuori di lui, i fatti mancati, le occasioni perdute, le delusioni date e ricevute.
Ci penserà, intanto con un sorriso ricorda una cronaca ciclistica di tanti anni or sono:” un uomo solo al comando, è Fausto Coppi”. Coppi non era solo, quella volta: aveva una meta e l’Italia che gli facevano compagnia. E’ stato molto più solo quando per seguire il cuore, l’hanno messo sui giornali, processato, isolato. Il nostro protagonista, che non è un campionissimo, pensa alle sue vittorie e alle sue sconfitte, pensa a Coppi e a Pantani, così grandi, così diversi eppure simili, troppo simili alle parole scambiate prima nel ricordo di troppe persone.
Pensa a cosa si concederà stanotte. Il ripasso di Puer Eternus di Hillmann, un film, una visita ad una persona gradita che lo riconosca davvero, una lettura a casa, una pizza?
Per Pasqua c’erano preparativi che iniziavano settimane prima. L’imbiancatura delle stanze era una costante che toglieva il fumo sparso dell’inverno e odorava di calce su cui poi con dei misteriosi rulli gommati, venivano sovrapposti disegni in colore. Questo trattamento era riservato alla stanza in cui sarebbero arrivati gli ospiti del pranzo di Pasqua, le altre stanze restavano in tinta unica, ma diversa perché il bianco restava in una sola e le altre erano pastello. La cerimonia della ri pittura coinvolgeva tutti i presenti, ed era uno stendere di lenzuola lise, di giornali vecchi, di stracci pronti all’uso per togliere le macchie appena formate. Quest’ultimo lavoro era riservato a me che trovavo piccole chiazze anche degli anni precedenti sui battiscopa o dietro ai mobili. Le finestre aperte portavano il profumo del canale e del prugno in fiore, mia madre si apprestava al lavoro ulteriore che avrebbe seguito la pittura, passare i pavimenti con gommalacca e mordente sciolti nell’alcool, cosa che avrebbe impedito il camminare per mezza giornata nella stanza e avrebbe conservato l’odore pungente per almeno tre o quattro giorni. Una vera catena di montaggio, dove per ultima, a sera, sarebbe rimasta la cucina ad asciugare e meditare nella notte.
Tre giorni di lavori intensi, con la difficoltà del soffitto e l’abilità del gocciolare il meno possibile, poi con una casa che sembrava nuova soprattutto per i profumi di pulito, cominciava l’impasto delle focacce di Pasqua, che poi erano sempre le stesse: la focaccia Margherita, forse in onore della Regina come la pizza, ma certamente più profumata e fragrante. Della Regina intendo. Di focacce ne venivano fatte per consumo e per regalo, da un minimo di quattro in su, la disponibilità di uova fresche era assicurata dal pollaio della nonna in campagna o dal lattaio, bisognava comperare la fecola e lo zucchero e l’aroma di vaniglia. Non ho ancora capito perché la fecola veniva messa in cartocci di carta leggera e poi avvolta di nuovo in carta marrone mentre lo zucchero veniva messo direttamente su una carta azzurra, color carta da zucchero. Per l’appunto. Pensavo che le carte avessero un rapporto strano con le cose e che avrebbero potuto far impazzire la montatura degli albumi che dovevano essere rigorosamente a neve oppure non sciogliersi nel tuorlo e mancare la creazione di quel caldo giallo che era un sole in miniatura e una delizia da leccare dalla terrina (piadena per i veneti) prima che venisse aggiunta la fecola e gli albumi montati a neve. Orbene, queste focacce infornate una alla volta e cotte nel forno della stufa, si accumulavano nella stanza imbiancata più fresca, quella da letto, e mescolavano il profumo di zucchero, vaniglia e calcina in un bouquet unico, perché era il sapore della casa e della festa.
Ci avvicinavamo alla Pasqua, i riti nella grande chiesa ricostruita dopo il bombardamento devastante del 1944, erano solenni e sobri, il parroco non puntava sulle apparenze ma era la sostanza dei significati che gli interessava. Le immagini sarebbero state coperte il venerdì dopo la feria quinta in cena Domini con la reposizione e il giorno successivo sarebbe stato dedicato alla meditazione e al silenzio per prepararsi a qualcosa che per noi era festa, ma non era solo quello. Per i ragazzini silenzio e meditazione erano attività difficili, il patronato era chiuso, andavamo ai giardini dell’ Arena, ma c’era un imbarazzo che entrava nelle libertà e nelle abitudini di gioco. Non si chiedeva nulla eppure il contrasto tra la primavera, le rondini e le fioriture con il pudore che sembrava pervadere i discorsi anche degli adulti, doveva significare qualcosa di profondo. I bambini vivono le cose, i misteri, l’inconosciuto fa parte del sentire e dell’apprendere e sanno quando fare domande o insistere, sanno che ci sono cose che matureranno pian piano nei significati. Ci sono cose più grandi di noi, lo si impara allora e non si smette mai di cercare di capire.