il carnevale era finito?

DSC02840

S’era accorto ch’era stato un carnevale privo di maschere, ma con molte frittelle e golosità diffuse.

Pensò che c’era una sensualità particolare nella golosità, un cercare il gusto prima della bocca, nell’assaporarlo e aggiungerne altro. Era una ricerca del nuovo nel conosciuto.

In un gioco erano state messe a confronto diverse pasticcerie, ma era finito tutto anzitempo. Per sazietà, o forse per rifiuto d’essere fedele oltre l’insensatezza. E il carnevale era proprio passato, come gli anni, il colore e il folto dei capelli, i chili acquisiti, perduti, ripresi e tutto s’era rinchiuso in abiti che assomigliavano a costumi. Adeguati al lavoro, agli incontri, alla solitudine. Maschere essi, senza risata. Ma in fondo si rideva poi davvero nel carnevale o ci si mostrava?

Del carnevale non era rimasto nulla e così cominciò a pensare alla vita. Di quella, per fortuna c’era davvero molto, ma allora perché questa impressione di leggero vuoto. La stessa che lascia un treno sgusciato in una corsa, mentre lì, sulla banchina, dietro la linea gialla, c’era lui in attesa di un nuovo arrivo. Non era il suo il treno fuggito, ma qual’era il suo treno?

il blues del flaneur

IMG_4920

Finito il mattino.

Una sorsata lunga, con un colpo di tosse. Succede agli ingordi di vita d’aver bisogno d’aria e di espellerla con violenza. Preparare il pranzo, un rito, una sicurezza. Bricola per la barca. Musica di sottofondo, orecchiette ai broccoli, polpette al sugo. Buone. Così il vino rosso e i pensieri che saltano. Come su un torrente in montagna: da un sasso all’altro, con timorosa allegria. Si apre il pomeriggio, mettere in fila sogni, pensieri, desideri. Lavoro, obblighi. Eh sì ci sono anche quelli nella vita del flaneur. Guardarsi con benevolenza, lisciare il pelo al gatto e leggere ciò che è scritto. E ciò che è scritto è ciò che ciascuno scrive. Fa sentire liberi questo. Si può dire di no, oppure sì, e c’è una sottile soddisfazione nel farlo. Conformarsi a sé. Lasciare che il pensiero corra e pensare a chissà che.

Pomeriggio.

https://www.youtube.com/watch?v=kwC1Wb-qUJY

a qualcuno piace caldo

DSC02803

Il caffè mi piace caldo, come la soddisfazione e altre cose più o meno dicibili, ma che fanno il piacere del sentire e del vivere. Se metto assieme l’urgenza del caldo, che ha una termodinamica severa, con la pazienza, che pure posseggo, capisco che gli ossimori non sono poi così distanti dall’essere, che si è più cose assieme, per fortuna, e che non c’è contraddizione tra l’amare la pioggia sul tetto e desiderare il sole al mattino.

Il calore si associa ai sentimenti e quindi al sangue, ma non solo. Lo si associa all’amore e lo si pensa lontano dal cinismo, dal distacco di chi non si aspetta più nulla e pensa di conoscere come funziona l’uomo, il mondo. Il calore ha un termostato nel sentire e ci si regola la vita su quello. Quando si sente poco, il calore prima abbandona lo spirito poi il corpo. Troppa passione, invece, porta all’ebollizione e la fretta consuma senza percepire tutto quello che accade. Una bolla di calore emotivo nell’amore, come nell’odio, fa perdere la percezione di sé, ma mentre nel primo caso è un’esperienza di annullamento e rinascita, nel secondo la distruzione diviene tutt’uno con l’essere e non c’è rinascita. Forse per questo fatico a considerare l’odio l’altra faccia dell’amore.

Se subentra un po’ di malinconia e c’è necessità di sentire qualcosa che rassicuri, una minestra calda fa bene, Me l’hanno insegnato le donne che una minestra di dado con la pastina consola. Probabilmente fa casa e mamma, come il plaid. A me piace il minestrone, devo essere sentimentalmente maleducato, anche perché lo preferisco a pezzetti e non passato (altra preferenza femminile, raccontatami). Il vino rosso scalda, consola e avvolge, fa intimità propizia (a volte anche alcoolismo incipiente, ma anche quest’ultimo sembra un effetto della carenza di calore, umano…), il vino bianco invece è più sottile, aggressivo come i finti mansueti, apparentemente innocuo come le parole maliziose, come le immagini, suggerite dalla seduzione. Secondo me il vino bianco ha qualcosa da nascondere e non perché ci sarà sempre chi dice che gli fa brucior di stomaco (altra forma di calore) oppure racconta di altri effetti collaterali meno dicibili, ma perché accanto a questi ci saranno altre che sosterranno che le bollicine che gli vanno su per il naso e danno leggerezza e tepore che scalda dentro e fuori (lo champagne non a caso sta meglio su abiti scollati e a spalle nude).  Ci sarà chi distinguerà tra champagne e prosecco, tra secco e dolce. Vincerà il secco senza fatica, magari il molto secco. Très sec per tutti. Pare sia una questione di dieta o altro,  e pare anche che il magro (di cui il secco è l’immagine più asciutta) abbia un fascino nascosco, un calore da estrarre rispetto al boteriano dolce, che non a caso s’accompagna ai dolci. Dolce su dolce, senza perder tempo a meditare, meglio abbuffare per dimenticare. C’è sempre qualcosa da rimuovere: un’altra fetta, ma sottile sennò ingrasso, grazie.

La cioccolata va calda, bollente. La panna fredda, ché altro non può essere e se ne può pure far a meno. La cioccolata sorbita, il caffè degustato. Lo ingollano i duri, il caffè, gli stomaci d’acciaio, non i colitici, ulcerosi, pavidi che mai affronterebbero una tempesta senza l’ombrello. A che serve l’ombrello nella tempesta? A nulla, ma questo solo i duri, che hanno una fornace interiore e un cappuccio, lo sanno ed escono dopo un caffè. La cioccolata è un cane fedele, ti segue a lungo, ti accompagna, è educata, inclusiva, ama la compagnia, scalda anche la conversazione, intreccia gli sguardi, evoca. Meglio amara, densa e caldissima, poi si vedrà.

D’inverno, caldo ovunque e viso fresco, finché l’emozione non lo prende. Sembra sia la scelta della razza umana, forse memore degli altipiani etiopici da cui proviene. Invece la vendetta pare si serva fredda come certe frattaglie da osteria che fanno solitudine a vederle, e la vendetta gelata appartiene ai cervellotici, ai biliosi delusi dalla compagnia, persone che si consumano per aggiustare un torto di cui nessuno, tranne loro, si ricorda. Comunque dev’essere un piatto di difficile digestione, la vendetta fredda, come i nervetti in osteria appunto, e che non soddisfa mai completamente neppure il cuoco, che forse vorrebbe effetti maggiori. La polenta va calda, ma la polenta è come la povertà che si riscatta, ha speranza e si combina con tutto o quasi. Ama il vino rosso, caldo su caldo, poi quello che succede sono affari vostri. Non ci sono notizie di abbinamenti polenta e champagne, carenze del sistema cultural politico del nord.

Preferisco il caldo, non fuggo il freddo, ma solo per quanto è necessario per amare di più il caldo. E’ come per i sentimenti, l’assenza coltivata per acuire il desiderio è un po’ una perversione. Quest’inverno non nevica e m’impedisce di gioire al caldo della mia casa guardando i tetti che si riempiono di neve. Sentirsi caldi e guardar fuori il freddo dà una sensazione di potenza, significa che provvedo al mio corpo dandogli calore e lui è felice e rassicurato. Ben essere. Come cercare l’amore dove si trova (altrove, dove non c’è, fa freddo), sorseggiare il caffè, e meglio ancora la barbagliata che unisce mirabilmente caffè, cioccolata e panna. Guardar dentro e fuori allo stesso tempo, pensare che il non sense ci appartiene, che la logica ci fa dominare. La logica è fredda, l’amore è caldo, il caffè è amore.

disfare l’albero

DSC00230

Abbiamo sempre parlato poco delle feste, dandole per scontate, accettando la nostra diversità di sentire senza dirla. Ci si arriva come si è, non potrebbe essere altrimenti, eppoi come mettere assieme luoghi, attese, pensieri differenti. Penso a ciò che fai tu e ciò che faccio io, ma tra il fare e il disfare gli addobbi, l’albero, si misura la distanza e la consumazione della festa. Per tutti. Questo grumo di festività così addensate avrà pure una ragione, anche per chi non crede; un significato che è diventato civile a furor di popolo, ma poi se n’è persa la ragione e così restano numeri rossi sul calendario, la voglia di voltare davvero pagina e una necessità di riposo che forse solo il freddo presunto spiega. 

Insomma non c’è niente da fare, quando non ci sono bambini nelle case per vivere con i loro occhi, i giorni scorrono e la delusione emerge perché ciò che è accaduto non corrisponde mai a quanto si genera inconsciamente come attesa. Il meraviglioso non ha succedanei, e se esso è transitorio e volatile diviene ancor più disposizione d’animo in cui si mescola la paura di non avere nulla da abbracciare con la sorpresa del trovarlo. Fugata l’idea di non essere amati, e il dono conforta l’amore, lo rende tangibile, la meraviglia si appaga e si dispone queta ad una nuova attesa, resta il calore che qualcosa di importante è accaduto. Questo appartiene ai piccoli e, di rado, a qualche adulto che ha conservato la disposisizione all’innocenza, per gli altri è passata la festa.

Domani la maratona del cibo dovrebbe essere finita (chissà perché lo stare assieme deve essere così iper calorico…), poi ci si risveglierà a gennaio; senza saper bene che fare e cosa è accaduto davvero. Resta un albero e gli addobbi da riporre, la sensazione che tutto sia volato in fretta, che qualcosa sia accaduto, ma forse ero impegnato altrove con la testa, e così ho dormito la meraviglia. Non è così anche per te? No? Che persona fortunata che sei…

Ci saranno altre occasioni, bisognerà lavorarci per arrivare preparati.

Adesso che inizia davvero: buon 2014.

gli storti con la panna

Da novembre fino a febbraio, c’era la possibilità di ricevere un dono improvviso. Era un moto di golosità di mia madre o un capriccio di mia nonna: mi prendevano per mano e mi dicevano: ‘ndemo a tore i storti (andiamo a prendere gli storti). Erano gli storti con la panna, cialde croccanti avvolte a cono da immergere nella panna montata, e da consumare in casa nel pomeriggio della domenica, oppure, ai tavolini, ben tovagliati, del gran caffè Sommariva. Anche se dovevo star fermo mi piaceva il caffè, con il suo caldo e il brusio alto di voci mescolate, le vetrine appannate che davano sul corso, il parlottare, ridere, fumare, tutto mescolato. Guardavo appoggiare le schiene sulle seggiole, come per meditare qualcosa e poi scattare verso l’interlocutrice per riprendere. Una grande varietà d’uomini e donne, nell’atmosfera calda, il vapore delle macchine per il caffè, il fumo degli uomini e delle ragazze. Come un respirare sincopato singolo e collettivo che si separava in momentanea comunità dal fuori dai vetri, dove le figure si distinguevano appena. Ed era tutto un entrare, uscire fatto di cappotti bordeaux, neri, blu, qualche rara pelliccia, trionfi di spinati, marroni e grigi per gli uomini. E lobbie, guanti, tra incedere frettolosi o veloci determinati dal freddo più che dalla voglia di sostare o tirar via innanzi alle vetrine sfavillanti dei dì di festa che stavano sul corso. Innocue esse, festa al vedere: i negozi erano chiusi, ma perniciose per i desideri che riuscivano a sollevare, per i buoni propositi, per le attese che avrebbero creato. E argomento di conversazione, estensione a ciò che accadeva nella città, confronto tra ricchi e poveri. Perché questa era l’essenza del discutere sociale, ovvero ciò che avevano i ricchi e ciò che avevano i poveri, lì dimostrato e possibile o impossibile. 

Di tutto questo capivo poco, per me la ricchezza era quella sorpresa inattesa della sera e così immergevo il primo storto croccante nella panna densissima e riempivo la bocca di dolcezza. E ancora, ancora, finché nella ciotola di vetro restavano solo le striature bianche, che non si dovevano raccogliere col dito perché non era creanza. Mica si mangiavano gli storti per fame, ma per piacere, e la sazietà che inducevano era solo un effetto collaterale. Dagli storti ho capito che il piacere dava sazietà e rompeva consuetudini, il pomeriggio della festa sarebbe stato allegro, la cena il di più distratto, che si poteva mascherare di inappetenza.  

Chi mi conosce sa la mia ammirazione grande per Kleiber, la gioia e l’autorevolezza che c’è nel suo gesto di direzione, mi affascinano come rappresentazione del vivere. E’ la competenza di chi non si dà oltre quanto vuole: sazietà ma alle regole di chi dona.

la cioccolata alle 5

DSC02803

E’ arrivato il primo freddo, con esso le rade cioccolate delle 5, in onore alle folate di tramontana. Rade perché la ghiottoneria governata ha due limiti: la quantità e la condivisione. Ed è pure un piacere discreto, ovvero quello del centellinare la novità. Ma questa è una cioccolata in solitario, un piacere preparato per sé e come tale deve coincidere con ciò che si desidera, avere il tempo giusto, qualche dolcetto da sbocconcellare, una musica che piaccia, la finestra per guardare fuori, parole da leggere. Stasera sarà una via di mezzo tra una barbagliata e una cioccolata densa. Il caffè senza esagerare, un quinto, la panna pure discreta, altro quinto e il resto cioccolato fondente, almeno 70%, sciolto a bagnomaria con la giusta pazienza.

Prima il cioccolato ben sciolto nel bricco, poi l’aggiunta del caffè. Il tutto caldissimo, mescolato a lungo, e senza zucchero e infine la panna. Sono indeciso se mettere un poco di zucchero di canna, in superficie, per sentirne poi la consistenza sui denti, poi lascio decidere al gusto già eccitato dai biscotti: niente zucchero. I biscotti meritano, sono zaeti e torta al cioccolato a pezzetti, rustici e intensi, da intingere e ascoltare. Le cucchiaiate di cioccolata sorprendono il palato, mai uguali, il gusto muta e soddisfa, importante è la lentezza. Manca la condivisione, peccato, bisogna puntare su di sé. Ma non è anche questa una modalità molto richiesta al vivere, purché transitoria? La sera sui tetti avanza rapida, non c’è nessuna malinconia, solo la sensazione di avere i piedi ben poggiati per terra e di volare senza fretta con i pensieri e il gusto appagato. Attorno qualche parola su cui soffermare il pensiero, la pace circoscritta del momento dedicato a sé. E’ un dono come un massaggio, una corsa senza motivo, un gesto di generosità allegro. Piacere di vivere, null’altro.

il pane nasce ieri

IMG_5761[1]

Ieri

Con la giusta lentezza, ho impastato la farina e il lievito madre, l’acqua, il sale, l’olio, un cucchiaino di miele. E ora lievita. Stasera dopo la commissione, lo impasterò nuovamente. Farò le piegature, così si chiamano, e pare sia lì uno dei segreti per un buon pane. Lieviterà tutta la notte e domattina sarà infornato e cotto.

Le cose normali, i piccoli caos dell’esterno che preme con le sue urgenze ed incombenze, riportati nell’ordine che si è scelto per dipanare le difficoltà. Ognuno ha i suoi modi. Quando la pressione cresce, io rallento, mi distraggo e faccio cose molto diverse, direi incongrue, come cucinare, leggere un libro in piedi, scrivere d’altro. E così confino la preoccupazione e l’urgenza in un canto, finché trabocca. Ma io spero non trabocchi. E comunque l’affronterò se accade. Qualsiasi decisione prenderà la commissione che coordino, si altererà un risultato. Difficile essere giustamente distanti, troppe pressioni. Ciò che si fa ha la certezza della buona fede, del perseguire un equilibrio in cui possano stare molti, la maggioranza, e questo sembra già molto. Riportare le cose a prima del loro accadere non è mai possibile. Bisognerebbe che dopo un intoppo, ciò che ha fatto traboccare fosse rimosso e il fiume riprendesse il suo corso. E mentre così penso e mi muovo perché questo accada, mi è chiara la difficoltà di capire quale sarebbe stato il corso naturale delle cose. Però penso anche a tutto il buono che c’è attorno e che noi non vediamo, al fatto che si agisce sulla devianza e invece la gran parte di cose che vengono fatte bene, si ignorano. Bisogna rispettare chi agisce rispettando gli altri, chi ha un fine alto e lo persegue con modestia. Siamo circondati da queste persone e non le vediamo.

E intanto, mentre impasto, la pasta si appiccica alle dita: domani il pane sarà cotto, una decisione verrà presa e il corso delle cose procederà. E’ la calma o l’incoscienza che spinge avanti? A volte vorrei poter fare la mossa del cavallo che punta sull’obbiettivo e poi scarta a lato: siamo troppo intrisi di linearità e interiormente così aggrovigliati che pare difficile fare le giuste scelte. Bisogna aggrapparsi ad un ordine, accettare di sbagliare in buona fede, rallentare per capire.

Oggi

E’ mattina, il profumo del pane si spande per la casa, è così reale da sembrare semplice. Ha avuto bisogno di un poca di attenzione e di movimenti semplici, ma nei pochi ingredienti si è maturato un arcano di complessità che avevano un fine, per questo sembra semplice e invece è buono. Insegna molto il pane.

Ricetta del pane semplice:

800 gr di farina, (io uso tre farine: manitoba 300 gr, integrale 250 gr, farina di grano duro 250 gr. Tutto con macinazione 0 o più grossa ( ne viene un pane rustico, se si vuole qualcosa di più raffinato si sostituisce il grano duro con farina di grano tenero)

250 gr di lievito madre, (il lievito è dono di un’amica che ama la forza della semplicità e ne prende la bellezza)

410 gr d’acqua tiepida,

1 cucchiaino di sale,

1 cucchiaino di malto o miele,

1 cucchiaio d’olio.

Il tutto si impasta a mano, con pazienza e forza – quella che si ha- finché è morbido e appiccica, ma si stacca dalle dita. Si fa una pagnotta, si taglia a croce profondamente e la si lascia a lievitare coperta per almeno 3 ore.

Poi si riprende, si impasta nuovamente, stendendolo con le mani e ripiegandolo come fosse un tovagliolo, così, più volte, con pazienza e pensando ad altro. Infine si possono fare due pani lunghi oppure una pagnotta grande, si ripetono i tagli profondi e si lascia lievitare per una notte (7-8 ore).

A mattina, un ora in forno caldo a 180 gradi. E il miracolo della semplicità si ripete.

la sapienza del cavolo

A colazione magari no, ma ho scoperto che i cavoli si sposano con un sacco di cose allegre. Le acciughe ad esempio, o le olive nere cotte, o il pecorino. Persino i pomodori al forno, non disdegnano. Un tempo leggendo i settimanali e i quotidiani mi passava l’appetito e ingrassavo perché mangiavo senza pensare al cibo. La digestione diventava difficile mescolando il mondo con le cose pur buone che mangiavo. Poi ho cominciato a pensare che partecipare non significa essere succubi della realtà. E’ vero c’è una legge del reale che piega tutto, ma si può far finta che non sia infallibile e neppure invincibile e così tra le righe si leggono le notizie buone, quelle che ti fanno dire che mica si sono estinte come i dinosauri, le persone su cui fare affidamento.

Ecco, così mi è venuta voglia di far da mangiare e ho fatto il pane e cucinato il cavolo, l’ho condito e ho capito che sta bene con molte cose perché tolto l’odore è abbastanza neutro da lasciarsi mescolare. Come la sapienza vera o l’intelligenza che se è neutra guarda il mondo, si mescola con un sacco di cose e così riesce a leggere tra le righe. Si contamina e non è più come prima, ma a me che fosse come prima non mi piaceva proprio.

cene di pianura

DSC03151

Stasera ci sarà una cena tra quasi amici, cucinerò cose invernali, da pianura, dense di sughi, polenta, vini corposi. L’inverno ha un calore particolare dentro al suo freddo: spinge a conoscere, a chiudersi nelle case. Per questo i quasi amici possono essere una sorpresa. In tutti i sensi.

Quando non ci si conosce a sufficienza, negli incontri si dà spesso il meglio, e c’è molta verità nell’apparire. Basta guardare e soprattutto non decidere subito. Lo spirito di difesa ancestrale vorrebbe tagliar corto, presumere, scegliere e scartare sulla base di indizi, ma se interessano le persone meglio non scrutare troppo, almeno all’inizio. Da piccolo mi insegnavano di non fissare a lungo negli occhi. Quello, mi dicevano, viene dopo, quando ci si conosce a fondo, ci si vuol bene. Faccio una cosa a metà: guardo ascoltando.

C’è molta verità nell’apparire, nel cogliere cosa davvero vuol essere significato, dove finisce la rappresentazione e dove inizia l’esposizione dei bisogni. Per questo mi piacciono le cene in cui non si sanno ancora i discorsi che verranno fatti, gli argomenti che serpeggeranno indecisi dall’ignoranza dell’altro; c’è possibilità di sorpresa e di novità, promettono interesse. Le delusioni le raccoglieremo dopo, se ci saranno, ma prima è ancora il momento magico del possibile e pensare che il tempo sarà ben usato.

le grandi specializzazioni: il Kipferl alle mandorle

Uno dice, parlando al bar: devi specializzarti, trovare una tua strada, solo così puoi vivere in un mondo dove conta la differenza. Così ho pensato a lungo, valutato le mie capacità con onestà e intransigenza, e mi sono specializzato nella degustazione della sfoglia alle mandorle, il kipferl come lo chiamano nel lessico dolce. Allo scopo ho esplorato, e continuo sistematicamente a farlo, tutte le pasticcerie con servizio bar. Anche quelle senza servizio bar esploro, ma qui le brioches sono rade ed appena tollerate, spesso striminzite, messe di malagrazia, inverecondamente esposte sul ripiano all’aria, ancelle dell’impero della pasta, del dolce, delle mignon.

Con studio e sistematica applicazione, ora sono in grado di indicare la graduatoria delle pasticcerie eccellenti, indicare le primazie, interpretare e seguire l’umore dei pasticceri, la variazione atmosferica, l’andamento delle materie prime sui mercati. Tutte cose non frequenti nella pratica di settore, spesso consegnata all’improvvisazione e alla frettolosa, distratta rincorsa dell’attimo fuggente. 

L’umore si sente dalla delicatezza degli strati di sfoglia, dalla tostatura del ricoperto di mandorle (basta un attimo per perdere la sintesi tra il croccante del tostato e il molle proporsi del crudo della mandorla scaldata), dalla pennellata del caramello sulla superficie che indurisce in un velo uniforme oppure, distratta, si raddensa in piccoli grumi incongrui. L’analisi dell’umore del pasticcere, penetra nel profondo, si legge nella ricchezza del ripieno di pasta di mandorle, oppure si ravvisa nella sua ristrettezza, quasi piccola dimenticata scia di presenza, più per dovere e rispetto alla ricetta che per sontuosa elargizione di bontà d’animo, buonumore e dolcezza. Si legge nel contrasto tra la croccantezza della superficie, il sovrapporsi della sfoglia appena addensata, il trionfo della vena di dolcezza morbida del ripieno, che testimonia l’equilibrio interiore di chi compie l’opera, il suo umore/amore per la vita altrui, la sua disponibilità al mondo.

Ma la vera perizia sta nel mettere assieme l’esteriore e l’interiore, l’umore e il mondo, sintesi alchemica della natura e dello spirito. Se fuori la pressione è bassa, se c’è pioggia, o peggio nebbia, le paste lievitano con difficoltà (anche i lieviti impigriscono e dormono al calduccio nei giorni impervi), se gli sbalzi di temperatura alitano sui vassoi, il kipferl s’ammoscia. Amante deluso si ritira in una malinconia che ammataffa sul palato, ovvero s’appiccica, s’impalla, rifiuta il rapporto con il gusto, risentito vorrebbe star per suo conto e non ingollarsi in stomaci voraci di quantità senza discernimento e amore. E’ la cosa peggiore, evito infatti le giornate a rischio se non per dovere, oppure scelgo la mia pasticceria preferita dove, in una teca a temperatura controllata, il kipferl guarda il mondo in una eterna primavera. Ma anche in questa situazione d’ amorevole cura, il tempo, la distratta affezione, l’abitudine, possono insinuarsi e toccare la fragile natura del kipferl, che pur senza ritrarsi, si mostra incline alla malinconia, pervaso da un un senso della caducità che lo porta a farsi fretta, lui, che per sua natura amerebbe il rapporto senza tempo, la dolcezza delle labbra, lo sbocconcellare attento e lieto, il raccogliere goloso delle briciole, che nella sua esuberanza dissemina, come prova della sazietà che non si sazia. Il non lasciare nulla perché tutto soddisfa, ma ancora chiede, a lui, proprio lui, che permette che il rapporto frettoloso mantenga l’intesa, che si rimandi ad altro più tenero ed intimo momento una  rinnovata intensa storia. Perché l’abilità dell’amante goloso e mai sazio, in questo si vede, ovvero nel mettere un ulteriore, un dopo che apre e non chiude, un promettere che sarà un mantenere ed ancora un aprire a nuove possibilità e dolcezze.

Ma se il tempo atmosferico irrompe nel giorno, come in ogni rapporto l’economia irrompe tra le cose. L’andamento dei mercati, il prezzo delle materie prime, si riflette nel prodotto e sente nella generosità, certo anch’essa ben governata dal pasticcere che può elargire, anche nei momenti difficili, ma la crisi a volte s’insinua, attacca il numero di mandorle presenti in superficie, il loro spessore, ché l’eccellenza le vuole sfogliate, ma consistenti per non arricciarsi in pose sguaiate (van bene a mezzo), deprime il ripieno, la stessa sfoglia risente della minor presenza di burro e ripiega su consistenze troppo secche per essere equilibrata. Che fare allora, se non sperare che il momento di crisi passi, che le mandorle arrivino copiose, che casomai si rarefaccia l’offerta, ma che piuttosto di deprimere il mercato almeno alcuni fortunati possano avere l’eccellenza.

Fin qui la mia specializzazione per sommi capi e ora queste brevi note introduttive vorrei tradurle nel curriculum in formato europeo che manderò ai miei futuri, possibili, datori di lavoro. Vorrei che fosse colta l’apertura al mondo, l’interesse che, pur nella specializzazione specifica, sono in grado di esprimere, la mia capacità di adattarmi a prove anche difficili (quante degustazioni si sono trasformate in pena…), la disponibilità a viaggiare perché degusto e confronto ovunque, l’uso creativo delle lingue, sia nel cercare nuovi, più consoni, significati al prodotto (cosa necessaria quantomai in un mondo in cui il marketing è parte integrante del processo produttivo), come pure nel mettere la lingua stessa a servizio dell’apprendere, del gustare, del valutare, insomma l’uso del corpo a servizio dell’azienda. Vorrei anche emergesse il processo progressivo, la disciplina, che ha portato a sviluppare competenza. Non solo studio e titoli accademici, ma applicazione sul campo, pratica dispendiosa, che non ha evitato gli errori, che ha sopportato notevoli fatiche ed impegni nel definire il campo d’azione, il range in cui effettivamente potersi esercitare secondo l’inclinazione, il talento, ma senza dar nulla per scontato. Quindi la capacità di rischio, di riflessione, il feedback sono qualità che già hanno avuto modo di esprimersi ed applicarsi. Prima di passare ad altra specializzazione e per non accumulare titoli e capacità senza mercato, adesso vorrei una offerta adeguata per uscire da questa condizione di precarietà in cui il talento si deprime. Non voglio essere eccessivamente choosy, ma per cortesia non mandatemi ad assaggiare brioche confezionate al supermercato.