Non è facile chiedere se non c’è un dialogo serrato e non è facile dire se la parola non segue un bisogno del darsi all’altro.
Credo che il segno della difficoltà della conversazione profonda, che è quanto di più intimo conosca, sia in questi due poli difficili da congiungere.
Scatta per suo conto, per bisogno anzitutto, e per fiducia perché si mette una parte importante di sé nell’altro. Ci si racconta nella verità che comprende paure e piccolezza, bisogni, desideri, voglie che ci si accorge con meraviglia di provare.
È qualcosa che non è solo spirituale e neppure solo discorso, racconto, ma ha una sensualità, cioè un uso dei sensi, che la rende corporeo. Si sente l’altro e sé stessi, vicini.
A volte, se si ha il tempo e la giusta predisposizione, si parla profondamente di sé dopo aver fatto l’amore, in quel tempo magico e appagato dove nulla ci minaccia. Altre volte accade al bar davanti a un caffè dopo un lungo bisogno di confidarsi. Altre volte ancora, succede per telefono perché c’è una magia da condividere. Questo bisogno di profondità, di oltrepassare barriere, non accade spesso e presuppone comunque la voglia/necessità di farlo. Perché ciò succeda così raramente credo dipenda dall’unitarietà del bisogno, cioè se non si sente la disponibilità, chi vorrebbe dire, esplorare assieme, sente una difficoltà che lo rende insicuro.
Raccontarsi non è facile, spesso lo si fa tra le righe e ben di rado direttamente, ma ciò non significa che non se ne senta il bisogno.
Se ci sono stati momenti di confidenza profonda se ne avverte la magia e l’inizio di un racconto reciproco che per essere continuo ha bisogno di mantenere quell’abitudine a leggere e lasciarsi leggere. Quando si interrompe per qualche impressione negativa trasmessa, diventa più difficile ricominciare. Ma, non è che il dialogo si sia interrotto, si è chiuso dentro ciascuno. Da solo è dialogo interiore, profondo, che a volte avrebbe voglia e tempo di dirsi senza scopo se non quello del condividere.
Se non accade, ci si adegua, è una cosa naturale, e più passa il tempo più lo strato diventa difficile da penetrare. È una condizione che bisogna volere in due, forse fa parte dell’amore.
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non capisco
Ci sono movimenti nell’anima che non capisco
timori e tenerezze che si confondono.
Per suoi profondi e rossi venti muove l’indole,
mentre i pensieri passano dal calore d’una tana alla voglia della corsa:
tutto questo ribolle o atterra
mostrando quanto sia debole l’ordine che a fatica s’è costruito
e insieme forti le aspirazioni e i bisogni d’amore.
non so che dirti di un addio
Non so che dirti di un addio,
se non che sempre scorda di ben chiudere la porta
e tutte le stagioni poi spiffereranno dentro, ciarliere di possibili passati,
e di futuri scintillanti di colori.
È la potenza di ciò che si perde,
immaginando ciò che si avrà dalla vita.
Quella stessa vita che ricorda
ma non è uguale, mentre ricostruisce, stanze, passioni, baci e petali da rimettere nei fiori.
E non basta,
come non bastava allora
che ad ogni traboccare d’amore la mano raccoglieva
e lo portava al cuore.
Bisogna render grazie per la bellezza triste che ogni andare ci dona,
grazie dire all’amore che non si consuma e gioire del bello
che sa essere dolce e sorridente,
mentre s’inerpica,
baciando con le lacrime, il cielo.
non si sa mai come vanno le cose
Forse il dito s’era rotto dentro la scarpa,
oppure per un colpo uscendo dalla vasca.
Non si sa mai bene come vanno le cose,
voglio dire, l’attimo in cui accade,
ma anche ciò che accade dopo
tutti ne abbiamo percezione nell’amore.
E anche il perché ciò che accade accada
è incerto,
soverchiato dalla determinazione che a suo modo
ci racconta d’altro.
Quindi certamente c’era un altro pensiero,
forse neppure una distrazione,
il corpo è abituato a funzionare per proprio conto
e tace di questa fatica finché non protesta,
lo fa a suo modo, per attrarre un po’ d’amore,
gli manca la comunicazione che non accarezza.
Funziona così il male che è dolore
e poi passa, ma non è nato male,
il male è altra cosa,
questo è dolore, una richiesta d’attenzione
che sfocia in amore
se ad essa si dà bada.
volavamo seguendo una canzone
Con ironia prendere sul serio ciò che avvince,
l’amore esagera sempre
genera il riso e il pianto
non tiene in buon conto il visto, l’amato, il fatto,
ma genera
e di ogni cellula sente il canto,
di quando eravamo uccelli
e volavamo seguendo una canzone.
lo so che non mi cercherai
Lo so che non mi cercherai,
e io neppure lo farò.
Mi metterai nel canto buio dove impallidiscono le storie,
dove il ricordo non s’annoda ai volti, ai corpi,
alle parole.
La polvere dei fraintesi si è mescolata con il nuovo,
fanno così le vite che si perdono,
hanno gli stessi occhi dell’anima,
ma vedono altri colori.
Non ti cercherò
e tu neppure lo farai,
resteremo desideri pensati,
diverse attenzioni
e lampi, in un cielo che ci ricomprende
ma non ci avvicina.
Così ricchi da buttar via tanto
e tenere il poco.
cossa feto, dito, gheto, sito

Cossa feto, dito, gheto, sito?
Cussì come late, ‘e paroe xe passà,
daprima sensa saver ben, da la boca,
pò come giosse, pian pian in na macia e se gà ponà.
Ponà, te gò domandà, cossa vol dire?
E co la to voze piana te me disevi de le onde
che pin pianelo, posa sabia su sabia,
graneo su graneo, capa su capa
cussì che quando te meti el piè se sente on sfrigolar de tenaro,
un desfar che ben tien el caminar,
dolse da sentir come na caressa de man che gabia lavorà.
Cussì, te disevi, ‘e paroe se pona,
una sora st’altra
e come i sogni no è gà peso, fin che no le xe dite.
No te me ghé mai dito dei tò sogni
e ti vol saver dei mii ogni matina
e par i to oci, cussì pieni de ben mio,
xe passà on lampo che xe finio nei basi,
e te me ghè brassà par no dir,
furba ti e piena de ben par mi.
Chissà cossa sognava i veci,
pensavo tra mi,
lori che gà visto e po’ tuto ghe xe ponà,
in tea testa sensa desmentegar.
Chissà cossa che i sogna quando de scorlon i se sveja
par po’ riscomissiar.
Chissà cossa ch’i sogna i veci,
quando i verze i oci e i varda el scuro.
E quando ch’ei pianze, chissà cossa i gà sognà.
Desso che lo sò, gnanca mi lo conto
e no xe sempre vero che su queo che xe ponà se pol caminar.
No xe vero quando l’acua rosega
e porta via lontan,
e resta on vodo, na buseta
che nessun jorno impenirà.
Però ghe xe del novo,
eco queo che te disevi, dopo verme brassà,
ti che che gavevi visto tanto ti vedevi lontan:
ghe xe del novo, tienlo streto,
vardalo, viveo, ma vaghe drio pocheto
sensa stufarte de zontare vita a la vita,
parché la resta insieme al ben,
e queo no teo star desmentegar.
frugalità
Scrivo impressioni, emozioni personali senza pretese d’infinito, piccole cose, particolari che mi colpiscono e che si riconnettono con altro che riemerge. Non è una scrittura da affreschi, ma una calligrafia, un insieme di note a margine su un testo che leggo(la mia vita) e su cui è facile soffermarsi. Il mio scrivere è quello che vedo e che sento. Quindi sono un lettore, che indugia nella disattenzione e segue il pensiero suo e quello dell’autore. Un pessimo metodo per imparare e ottimo per perdere se stessi e il proprio tempo in qualcosa che attinge al piacere del dialogo quando è possibile, dal vero, oppure nella propria mente. Gli autori spesso rispondono, non sono tutti uguali e il mio modo di mostrare loro che capisco è mettere assieme senso e parole. Un lettore devoto che si sofferma sulle parole e ne resta incantato dal significato. Le parole contengono, mostrano e nascondono, dipende da come si leggono. In questo si costruisce un rapporto se non si ha il corpo a disposizione, ed è un rapporto con emozioni, attese, delusioni (non poche) e intuizione. Cioè lo strumento più vero e fallace di cui si dispone per parlare, sapere, conoscere l’altro. Manca il corpo con i suoi linguaggi potenti, ma questa, seppur virtuale è carta e allora ad essa più che le note di un seguire sé cosa si può attribuire? Seguirsi per seguire, dire in verità ciò che conta per il momento in cui nasce. Un’ immensa mappa di segni, di tracce, di cose apparentemente scollegate a cui trovare nesso e senso: ad una sola condizione: che interessi, come in un libro, chi ci sta davanti. È questo un ossimoro della mente perché tali e tante tracce si sono sommate, stratificate, che i punti comuni ormai dovrebbero emergere ed è così, in ogni massa di indizi ci sono plurime verità che il tempo rende vere e false e una frugalità appena sotto la superficie. Oltre gli aggettivi, i testi che si gonfiano, le ripetizioni che rafforzano, oltre c’è il poco e l’essenziale, quello che nella mistica ebraica è il numero, ossia la lettera: ciò che dà la vita e insieme la rende un mistero. A questo serve il girovagare, penso, tra lettere e parole, tra luoghi e particolari, nel sentire multiplo che ricomprende i sensi. O almeno spero sia così, perché comunque altro non saprei fare.
non so di te
Non so di te. Che significa sapere se non far coincidere i desideri?
E allora non so di te,
però vorrei sapere, avere un portolano che indichi la strada,
non servono mappe dettagliate, basta la fiducia
e quel tipo d’amore che non si riesce a trattenere:
il coraggio.
Non so di te e vorrei sapere,
perché non so più nulla di me. Sono disperso,
appannato, sfuocato, ombra dello specchio ch’eri tu,
Non so nulla che davvero serva e tutto si sgrana.
è anche piacevole passare tra le dita e intuire,
questo era, quest’altro doveva essere, di questo c’è speranza
Grana grossa e sottile, una scia di pigmenti,
dovrei correre prima che s’alzi il vento,
ma di sicuro tu saresti altrove.
la figura è a 2/3, sulla sinistra
La figura dell’uomo è eretta, tiene un bastone con un manico strano, quasi un anello, a cui non si appoggia. Penso alla storia di quel manico modellato da chi, ben attento a non bruciare il legno nel calore umido di un camino, ha lavorato in una sera d’inverno e di nebbia. Poi, soddisfatto, l’ha messo con gli altri, tutti diversi, e venduti al mercato la primavera successiva. Un manico strano e unico, come i luoghi in cui è nato: dalle parti del partigiano Johnny.
In una sera d’autunno eravamo ad Alba e andavamo verso Barbaresco, una cena e una nebbia talmente fitta che la strada era un’opinione nella testa di chi guidava. Doveva esserci anche lui, l’uomo del bastone, alla cena, ma non venne, così tutto scorse tra antipasti e vino degno di ricordo. Non so ancora come tornammo, sopra di noi si vedevano le stelle e davanti un muro bianco. Dovevamo essere uccelli. La musica che leniva la fatica del digerire e guidare, era il clavicembalo ben temperato, suonato da Edwin Fischer, e tutti amavamo Gould, ma era bellissimo sentire che la musica ci avvolgeva. Il tempo non esisteva più e l’albergo era un semplice luogo, non l’andare e il restare. Un luogo dove dormire e poi partire. Ciò che contava era l’arrivare e vedere il sorgere del sole in una mattina d’inverno. Per testimoniare che eravamo lì e pieni di quella vita che rende le cose degne di essere vissute. Per questo arrivare tardissimo e dormire nulla, non contava. Così posso associare il ricordo di ciò che vedo in questa fotografia, scattata non distante. Colline, campi verdi e poi, sullo sfondo, le Alpi. Ma torniamo al nostro mancato ospite e conversatore. Il suo sguardo è rivolto verso il fotografo interlocutore e ha un sorriso un po’ forzato. Fino a poco prima ha raccontato dei luoghi che stanno attorno e di molti altri ben più lontani. Ha parlato di persone incontrate, alcune di esse sono di comune conoscenza, altre, famose, per la sua vita che non è stata usuale, diventano aneddoti, frasi secche che definiscono un punto di ricordo che ha lasciato traccia.
Ripensando a lui, mi torna a mente che la vita usuale è stato l’argomento di una conversazione che ho avuto con una persona da cui imparo molto, qualche settimana fa e che non si è conclusa.
Non sono necessarie avventure particolari o viaggi incredibili per rendere inusuale una vita, è l’approccio e la capacità di vederne la singolarità che ha importanza.
Nelle abitudini c’è una storia che ci precede, che abbiamo ricevuto. Anche nei rifiuti di accettare un modo di fare o di dire, è così, c’è una discontinuità con un passato che era la somma di sensazioni, di preziosità divenute comuni, di cose inusuali passate nei giorni e tali da punteggiare le ore. Cosa c’era prima del caffè mattutino e perché ne amo il profumo, se non lo ricollego a ciò che avveniva nella mia casa ogni mattina e prima di essa nelle case che erano state abitate dai nonni e dai loro padri, fino al punto in cui dall’assedio di Vienna quei misteriosi sacchi di chicchi tostati erano poi scivolati dall’alto verso il basso.
Di quante singolarità è fatta la nostra vita, che senza attenzione hanno un significato per i sensi più che per un pensiero cosciente. E dove è nato quel piacere che essi portano in noi, e come e quanto piacere noi abbiamo aggiunto ad essi.
E cosa trasmettiamo? Così mi avrebbe risposto, ricordando cose che si sbriciolano se non vengono stipate in parole.
Ora riguardo la fotografia, la figura è a circa 2/3 verso sinistra, con un ampio panorama davanti, guarda come volesse essere già oltre una linea del tempo: il passato è alle spalle. Ripenso ai suoi libri letti, e a quelli che ho evitato perché mi avrebbero disturbato l’essere immerso in un’altra mente che pure veniva dagli stessi luoghi. Mi piace il suo modo di guardare e di mantenere una posa così eretta, come usavano i militari che, in alta uniforme con uno sfondo sempre uguale, mandavano la fotografia a casa e posavano appena il cappello sul braccio. Guardavano l’obbiettivo e il cuore di una cosa che avevano dentro; mostravano ciò che avrebbe fatto piacere a chi li avrebbe visti non le fatiche della lontananza. Lui ha calzoni di fustagno e un maglione chiaro, di lana grossa, tra poco andrà a passeggiare. Forse farà un sentiero che lo porterà a scollinare e intanto, camminando, converserà pensando alla frase successiva e alle parole da non dire. Mescolerà dialetto e un italiano che possa essere connotato con il luogo in cui viene parlato. Così, per ribadire che un tempo, lì si parlava volentieri francese, ma senza dirlo.
Di quella notte è rimasto il pensiero d’una mancanza, ma forse è meglio così perché alle cene ufficiali difficilmente si hanno le giuste confidenze. Mi è rimasta una nebbia e un incrocio di coincidenze che ci ha portati e poi riportati senza danno, le stelle sopra di noi e il cielo così scuro quando non ci sono paesi attorno. La lentezza del trovare una via di mezzo tra il ciglio e la mezzaria, l’alba attesa come una liberazione, il piano di Edwin Fischer, e il sole che con pazienza dissolveva la nebbia mentre un’abitudine si rinnovava. Prima un caffè nero e poi un caffè con il latte a parte.
