nessuno nasce libero

pensieri in libertà
Posted on willyco.blog 25 aprile 2016


Nessuno nasce libero. Sin dall’inizio qualcuno si preoccupa di mettere orari, regole, paletti alla tua vita. Costruiscono per te un ordinato vivere che è sapere cosa accadrà in ogni parte del giorno, ogni settimana, ogni anno, ogni età.

Nessuno nasce libero. Il bisogno d’essere accuditi, protetti, amati, coincide col taglio del cordone ombelicale, con lo sforzo del primo respiro, con il pianto che ne segue, con il primo freddo, con il primo sogno che s’alimenta nel mondo senza protezione.

Nessuno nasce libero e la libertà è una conquista anzitutto personale. Cosicchè ognuno disegna la sua libertà e i limiti della sua prigione e non smette mai di farlo perchè la libertà è fatica prima che piacere.

Esistono tante libertà, alcune sono così importanti da essere condivise. Senza la libertà di parola non si potrebbero, pur volendo, comunicare i propri pensieri, il sentire, la propria tristezza, la percezione della bellezza. Già in famiglia non si può dire tutto quello che vorremmo. Ci sono stati, aree del mondo, religioni, regimi, società in cui si può sentire solo ciò che è permesso, si deve essenzialmente tacere oppure dire ciò che non dice nulla. Qui nasce il primo confronto tra la libertà personale e ciò che la impedisce, ovvero la libertà di essere ciò che si è e si potrebbe essere. Nasce un legame tra libertà individuale e collettiva perchè l’una non può essere senza l’altra. Eppure questa libertà di eprimere ciò che si è, non viene insegnata, per cui conquistarla è una consapevolezza individuale, un confronto tra essere e dover essere che dura una vita. Ma se posso pormi tutti questi pensieri banali sulla libertà, se posso misurarmi con me stesso per trovare i miei soddisfacenti limiti senza invadere quelli altrui, è perché la mia libertà in divenire, limitata, faticosa e preziosa è stata fatta crescere da molti che prima di me si sono posti il tema, che hanno sviluppato una sufficiente intolleranza all’assenza di libertà, al sentirsi ingiustamente oppressi, tanto da ribellarsi insieme ad altri e ottenere spazi nuovi per tutti. Hanno superato la solitudine della libertà, tanto da renderla un problema di crescita collettiva. Le mie piccole, grandissime, libertà, la possibilità di dire di no, è dipesa in misura essenziale dalla loro ribellione.

Capisco che tutto questo sembra acquisito e lontano, che riflettere sulla libertà assomiglia a un esercizio ozioso. In fondo ciascuno, ogni giorno, registra sconfitte e vittorie in questo campo che sembrano appartenere solo alla sua vita. Capisco anche che fatti e parole, un tempo importanti perché legati a eventi terribili, a ingiurie, sopraffazioni e conseguenti atti di viltà e coraggio inenarrabili, siano oggi svuotati del loro significato nel nostro Paese, ma in esso e pochi altri perché altrove essere liberi comporta un rischio altissimo. In Italia, le parole di Calamandrei, di Primo Levi, dei tanti condannati a morte sembrano letteratura, pensieri alti, poesia, ma prive di un riscontro effettuale, di una incidenza vera sulle vite odierne. In questo iato tra esperienza e storia della libertà contemporanea vedo e sento il baratro dell’indifferenza che si consuma attorno a noi sul tema della libertà come conquista. Sento che non si è attualizzato e reso concreto nella sua potenzialità umana e sociale, il valore che possediamo, che non si è trasformato in ragionato patrimonio collettivo ciò che ha coinvolto allora tante donne e uomini, ma che questa spinta ideale e vitale si è consumata come fosse inesauribile e data. L’educazione ha oscillato paurosamente tra vecchie e nuove coercizioni. Ci sono stati tentativi, sogni di pochi che hanno riproposto il tema della libertà per sé e per i figli, aggregazioni educative e sociali originali, ma l’economia e la società si sono incaricate di rimettere le cose a posto, nell’ordinato vivere che è conformismo prima che necessità. Un recinto in cui le libertà soggette alla diseguaglianza economica, alla coercizione degli interessi dei gruppi multinazionali, hanno perduto consistenza e la miseria crescente nei nostri pur evoluti Paesi, ne è dimostrazione. È vero, oggi ci si può muovere senza troppi limiti, c’è una libertà sessuale maggiore, si può dire molto purché qualcuno ascolti, ma il processo di affrancamento è ritornato ad essere solitario e personale. Irrigimentato dall’utile, confinato nel ruolo, nell’età, nella convenienza. E se faticosamente è proseguito un cammino collettivo, con nuove parole, nuove libertà e nuove costrizioni, esse non hanno conservato quella spinta dirompente che le aveva originate e oggi non è possibile misurare quanto di questo cammino sia stato guidato da altri. Quanto le libertà siano state più un potente affare economico che arricchisce pochi più che una conquista collettiva di crescita. Perché la libertà ha come correlato la critica e non si può dire che questa si sia -e si stia- sufficientemente esercitando nei confronti della società liberale. Queĺla che di certo non è proseguita, al di là della retorica delle celebrazioni, è stata la riflessione sulla libertà e il legame che essa ha con l’educazione che mette assieme libertà personali e collettive. Si è pensato che essere e avere fossero coincidenti nella libertà e cosi la stessa parola, in conseguenza della crescente diseguaglianza economica, si è via via svuotata di significato rivendicativo tanto che ormai il 40% dei cittadini di questo paese è disponibile a ridurre la libertà personale in cambio di beni.

Le libertà personali da conquistare sono più o meno difficili se il contesto delle libertà collettive è carente e diseguale. E ancor più se esso include l’ingiustizia nel sentire comune. Portandoci verso la sola libertà individuale, facendola coincidere con l’avere è stato ristretto e chiuso il recinto della riflessione collettiva suĺla libertà. Chi ha, è libero, tutti gli altri sono costretti in piccoli spazi personali, piu o meno come nelle società autoritarie dove la possibilità di essere liberi è oggetto d’acquisto.

Nessuno nasce libero, la libertà è una conquista personale, ma il suo esercizio è una consapevole conquista collettiva.

pasque al mare

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Molti sabati e pasque li ho passati al mare. Di alcuni ho un ricordo particolare che come tutti i ricordi è più impressione che fatto, di altri mi è rimasta la sensazione che avrei preferito essere altrove. Superata l’età in cui la Pasqua aveva un significato particolare, specifico dal punto di vista religioso e quindi di per se stessa fonte di pensieri direzionati, restava una sensazione di festa particolare, però con la libertà del pensiero e quindi dell’andare, Ancora oggi faccio fatica a considerare la fede altrui come un fatto da antropologia culturale e quindi mi trattengo nel violare le intimità, i riti più ostentati, fermandomi alla soglia e facendo un passo indietro. Dove inizia ciò che per altri è importante, come non avere rispetto? Ma non ricevo lo stesso trattamento, nemmeno lo sforzo di dire qualcosa che consenta una riflessione. M’ infastidisce ricevere messaggi religiosi, citazioni di telefoniche di salmi da persone, che ti hanno messo in una mailing list perché in qualche modo sei stato importante a loro. Quando è accaduto eravamo diversi e allora questo fenomeno semplicemente religioso consumistico non c’era. In molte pasque che ho vissuto da solo o in compagnia, non c’era neppure il dato umano delle piazze davanti alle chiese gremite di persone auguranti, le mie, semplicemente si svolgevano al mare dove mio suocero aveva un villaggio. Arrivavano i villeggianti estivi a prenotare ed io che c’entravo abbastanza poco, mi godevo il mare fuori stagione.

La spiaggia era ancora ingombra di alberi e di residui della civiltà di pianura.  Cercando con attenzione si potevano immaginare luoghi e fatti d’origine dei resti. Qualche moria di polli, una buriana di novembre, un nuovo detersivo dentro contenitori in plastica dal colore inusuale, molti frammenti di giocattoli, dalle teste di bambole ai pezzi di ufo robot segno che natale aveva fatto felicemente il suo corso. C’era un pranzo particolare, molte chiacchiere, di quelle che non affondano nel personale, perché non sta bene, e parecchio vino e caffè. Così arrivava il pomeriggio e la sensazione di una giornata strana che sarebbe stata riscattata dal lunedì con qualche scampagnata per argini. Se il tempo teneva. Lì, a Pasqua, era il mare il gran protagonista, con il suo aspirare pensieri, isolare le persone in sé e lì si giocava la partita dell’utile e dell’inutile: avevo perso tempo, ero contento, l’avevo fatto per forza? Di tutto un po’ ma ciò che emergeva era la capacità del mare di riportarti a te. Questa era la solitudine del mare e devo dire che appoggiato a qualche capanna appena costruita, riparato dal vento e con il primo sole tiepido, tutto questo mi pareva una dimensione bella e positiva, che magari non c’entrava nulla con il giorno e la ricorrenza, ma apriva una alternativa alle abitudini, alle feste obbligate, alle giornate che celebrano qualcosa e passano lasciando un senso di vuoto senza nome. Cos’è successo davvero? E adesso? No, questo riportarmi a cose che io solo sentivo era un passo avanti, un senso per me. Poi sarebbe arrivata la sera e il ritorno, ma quell’angolo era mio, solo mio.

occhi che apprendono il senso da indossare

Prima la brezza allunga l’ombra,

si scurisce il verde, e la terra bruna dipana e abbraccia le radici,

nel cortile un suono di ringhiera che vibra,

e una campana:

che strano, il suono ora è quiete.

E tra rumore di stoviglie, sera. 

Nello sfaldarsi dei soffioni,

e nella fragranza che si spande dalle fresie,

si coglie l’ordinato crescere nel tumulto delle vite.

Una finestra sbatte,

una, due volte, prima d’una voce che rinchiuda,

ma gli uccelli sanno d’esser nuovi,

nell’ incessante volo tra le case,

e in un piccolo vaso lasciato in disparte,

la menta racconta, incurante e folta,

che non è solo la primavera,

sono gli occhi che apprendono il senso da indossare,

leggono la traccia della notte che c’accompagna nel saperci un poco,

noi, imperfetti, e nudi,

dinanzi all’immeritato senza nome della vita.

facilmente la notte scivola nel giorno

Nell’abitudine a togliere il fastidio del ricordo c’è il senso degli anni bianchi, nascosti accuratamente assieme alle passioni e ai sentimenti d’allora. Aver deciso significava prendere una strada, non eliminare i desideri e ciò che promettevano nel mutare la vita, è il timore d’aver sbagliato che fa dimenticare? E perché ha trascinato con sé l’attesa e la gioia delle estati calde e fresche d’acqua di canale o di mare, le primavere disposte attorno a una Pasqua ricca di verde e di paure per la prossima fine della scuola. Come se lo scegliere allora avesse sporcato la coscienza e reso il dimenticare lieve e pervicace per non tenere come riferimento il piacere mischiato alla paura di crescere. E’ stato un ripulire il pensiero che eccede il presente a difenderlo dal senso d’aver perduto anziché vissuto.

Le notti erano brevi senza ora legale, interessanti e ricche di fresco e di profumi, di pietre calde e di scalini in cui sedersi a parlare o stare a guardare le nuvole gialle illuminate dalla città. Attorno c’erano persone che s’alzavano molto presto, prima dell’alba erano in piedi con pane e caffelatte sulla tavola, la porta chiusa piano, l’odore dei corpi che dormivano nelle stanze sempre troppo piccole. Erano autisti d’autobus, ferrovieri, facchini, macellai, spazzini, baristi di bar per pescatori e i cacciatori di valle. Il chiarore distante non diceva loro, nulla della fatica che attendeva il giorno. Per me tornare all’alba o alzarsi a quell’ora, era una libertà, un andare altrove, per loro era la vita assegnata e mai scelta. Conoscevo una città diversa, strade vuote, portici immersi in laghi di buio con le piccole luci dei campanelli, fornai con la serranda a mezz’aria, la porta semi aperta da cui usciva il profumo del pane. Bastava battere sulla serranda, una moneta e la crosta calda e croccante del pane riempiva l’olfatto e il gusto. Attorno vedevo la doppia luce, quella del giorno che si alzava e quella elettrica della notte che voleva un luogo per rintanarsi a meditare tra il silenzio e le case immote. I fari delle rade auto e la luce delle biciclette che correvano al lavoro evitando una rotaia o una buca, erano l’annuncio di una confusione che ci sarebbe stata ma ancora dormiva.

Ti raccontavo di queste persone e mi vergognavo supponendo la noia dei miei discorsi, sembrava t’interessassero per riderne, gli ultimi approcci alle prostitute, la faccia o il vestito di chi ancora era alzato per un desiderio, ma il resto che mi prendeva dentro, lo perdevi in quello sbadiglio da tavolino di bar, tondo e freddo come il cicaleccio che c’era attorno. Di notte non parlava nessuno o quasi, chissà come si poteva descrivere bene, il silenzio fresco in cui c’erano solo ordini, gridi improvvisi, rumore di ferro, di freni, odore di gomma mescolati nell’aria che portava i rumori. Tolta la civiltà c’era il profumo degli alberi che fiorivano nei giardini segreti di questa città così gelosa dei suoi spazi e delle proprietà. La luce lasciata accesa, il movimento dietro le tende di una finestra, le case che non dormivano.

Come c’era qualcosa allora che urgeva, rendeva difficile il sonno e mi spingeva fuori, ci fu poi una svolta che con la biacca ha accuratamente cancellato quelle notti, il sentire, le paure di un crescere che si spartiva tra la necessità e la libertà. Ciò che ora emerge dalle crepe che la vernice del dimenticare non riesce a nascondere, sono tracce di colore. Il blu del minio, così simile a quello del cielo di notte che avrei trovato in quella scuola mai desiderata, il suo stendersi sottile sul piano di ferro levigato a specchio, la prova del lavoro fatto e l’insoddisfazione perché c’era sempre un eccedere che si mostrava per essere tolto. Era un provare in cui i desideri dovevano combaciare con il fare, i miei non combaciavano mai. C’era il grigio e l’odore del ferro, il rumore strusciato della lima da mazzo, quello discreto della lima piatta, l’odore della stoffa della tuta con l’afrore acido del grasso e del metallo. Era un attendere di uscire e poi fuori, all’aria, correre verso qualcosa che fosse diverso. Dalla biacca emerge il sapore delle lacrime, il cuore stretto dal buio, la sensazione di essersi perduto. Non smarrito, perduto a se stesso, la necessità di una riva, di qualcuno che ti creda, che non ti tiri un pugno o dei sassi, che non s’avvinghi in una lotta dove la camicia bianca diventerà marrone di polvere. Dalle crepe emerge un odore di sera e di soldi risparmiati e scialati per un poca d’amicizia che arrivi a fine settimana e forse oltre. La pizza bollente, la mozzarella, la bocca sporca di pomodoro e attorno tutto un mondo di grandi che fanno altro, si muovono, chiedono di essere lasciati in pace. Il freddo del pavimento della chiesa, le parole del prete, il gioco, la lotta a non farsi trascinare dove c’era buio, paura e sporco. E di giorno la scuola e la paura di crescere dove non c’era la giusta terra. Pianta senza criterio, destinata ad essere potata senza remissione, senza un fine che capisse. Così si capisce che avevo chi mi amava ma ero solo. Non capito, sconcluso, portavo pesi che non erano miei, ed ero solo. Fuorché la notte e con i sogni, lì ero libero e vorrei ricordarla bene questa libertà ch’era un andare, un fuggire senza il coraggio di non tornare. Vorrei riportarla fuori da quello strato di vernice che l’ha occultata quella libertà, anche se sento che ha spinto verso dentro il sentire e l’ha mescolato con lo scorrere successivo dei fatti della vita, invece emergono frammenti, colori che stranamente si combinano subito con ciò che sono. Persino gli odori trovano le corrispondenze, ma non basta perché non è tornare indietro e rimettere in ordine le scelte, fare altro e altrove. Questo è sogno e utile com’esso sa essere ma il kairos, d’altro parla, per questo odora sempre di futuro e d’intuito nel cogliere l’occasione. E forse per questo si bianchettano pezzi di vita, anni, perché in altra forma si ripresenteranno, ci meritiamo infinite occasioni e sarà quello il momento di decidere se c’è del nuovo in noi oppure è davvero passata la notte.

correzioni di rotta

Cara L. credo tu sia in qualche parte degli Stati Uniti o magari in un’isola del Pacifico in qualche base astronomica. Di fatto, a parte qualche accenno di comuni conoscenti, non so più nulla di te dal viaggio a Lviv, e dal tuo stage in Germania presso il Comune gemellato. Conoscevi il russo e questo te lo invidiavo molto, pur sapendo che era stata una fatica non da poco per un’americana. Eri la nostra interprete della delegazione che ci vide assieme a Lviv. Ora anch’io la chiamo così, allora era per me Leopoli ed ero sicuro che fosse il nome giusto per una città che aveva un leone nello stemma e che aveva cambiato nome spesso girandoci attorno. Mi piacerebbe adesso sapere cosa pensi di questa guerra in corso e cosa di essa arriva dove sei. Mi dicono che negli Stati Uniti è percepita come lontana e che altri sono i problemi che attraggono l’opinione pubblica che ragiona di se stessa e del proprio Paese. La pandemia ad esempio, so che è al centro di non poche discussioni e attenzioni e così l’attesa delle elezioni di medio termine. Insomma la considerate una questione europea e vi immagino alla finestra in casa e guardate fuori ciò che accade. E così vedete l’Europa, terra di vacanze ora rarefatte dalle limitazioni del Covid 19, ma anche abitata da popolazioni strane e poco comprensibili nelle loro litigiosità. In fondo se voi siete gli Stati Uniti d’America, noi, Inghilterra a parte, non siamo mai riusciti metterci assieme per davvero pur avendo ben più interessi di voi per farlo. Anche la lingua comune che manca non ci ha aiutato e tutti siamo gelosi dei nostri dizionari. Ne parlavamo allora e io ti dicevo che questa era una ricchezza non un limite, adesso la tecnologia ci aiuterebbe a essere diversi eppure assieme. Ma non è di questo che volevo parlarti, credo che siamo stati sempre distanti e che le cose non si misurano con la bellezza posseduta o con la potenza militare, ma con il sentire comune. Se non riusciamo a sentirci noi vicini, come possono farlo gli altri? Poi per partecipare alle vicende di un continente non è solo questione di sensibilità, ma di distanza e ci deve essere una legge emotiva per cui la partecipazione diminuisce con il quadrato della distanza fisica. Se insegni Tedesco o germanistica in qualche università, probabilmente sei informata e attenta per ciò che accade in Europa, ma se la tua passione è rimasta per l’astrofisica, allora non credo che siamo particolarmente interessanti.

Assistemmo nel teatro dell’Opera di Lviv a un Barbiere di Siviglia, cantato in russo. Il baritono era bravo, il conte d’Almaviva appena sufficiente, Rosina discreta e poco birichina. Fu una piacevole sorpresa essere in un edificio progettato da un italiano e immergersi in una realtà che era così differente da quella che conoscevo. Non c’erano che pochi vestiti da sera e l’odore di naftalina si mescolava con il taglio un po’ d’epoca, ma il teatro era gremito e l’attenzione e il calore, altissimi. Guardavo le persone, nel foyer, mi sembravano tutti russi, anche se i lineamenti erano sia europei che euroasiatici, forse era perché parlavano russo quando lo feci capire tutti si affrettarono a spiegarmi che non era così, che le etnie erano differenti e forti, ciascuna orgogliosa della sua cultura e lingua ma tutti erano ucraini. Fosse solo per le religioni presenti: tutti cristiani ma Uniati o Orientali i cattolici, gli ortodossi reduci da uno scisma recente tra russi e greci, poi evangelici e protestanti di varie confessioni. Solo gli ebrei erano pochi, in gran parte finiti nello sterminio della Shoah o emigrati. Mi sembrava strano tutto questo fervore religioso per un Paese che aveva avuto l’ateismo di stato come interpretazione delle questioni spirituali, fino a pochi anni prima. Le chiese erano piene e la domenica mattina i fedeli erano in gran numero sin nel sagrato che ascoltavano le messe. Cose mai viste in Italia e neppure da te, mi dicevi. C’era stato un riavvicinarsi alle questioni spirituali che forse per chi abitava la città era naturale, per me era la reazione a tanti anni in cui era mancata la libertà di risolvere i propri problemi spirituali, pubblicamente e appartenendo a qualcosa.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi ora dell’Ucraina oggi. Eravamo assieme all’università americana, quella più a est, dicevi con orgoglio, quando iniziarono le manifestazioni e gli scontri con il movimento arancione. Ci capivo poco perché parlavo con professori universitari, con persone di cultura e artisti che avevano stipendi davvero ridicoli, ma una serie di servizi gratuiti, compresa la casa, anche se mancava la manutenzione dappertutto e gli infissi, i muri, avevano bisogno di cura e l’acqua non c’era tutto il giorno dappertutto. Pensavo, quando parlavamo nei bar con i nomi italiani e il caffè espresso, che giustamente l’occidente che vedevano attraverso le televisioni o nei film, era un eldorado per chi faceva fatica ad arrivare alla fine del mese. Ma l’Università privata costava 10,000 dollari all’anno e non capivo come si sarebbero potuto avere un diritto allo studio per tutti. C’era molta corruzione e molte rimesse dall’estero, ma poteva bastare per costruire un paese? E quali erano le idee che non lo rendessero un paese in cui trasferire le lavorazioni a basso costo e nocive approfittando della quantità di manodopera a basso prezzo? Poi c’è stato un po’ di tutto, rivolgimenti, rivoluzioni vere o fasulle, interessi crescenti che trasformavano il Paese. In meglio o peggio, non so, ma certamente in fretta. Sono tornato altre volte, ma il mio progetto non reggeva la situazione e certamente non ero all’altezza di portarlo avanti, però vedevo le cose cambiare, ho ascoltato altre opere a teatro e le mise erano più eleganti. Insomma non era la musica ma anche una nuova agiatezza che voleva mostrarsi. Le auto erano tedesche e c’era una notevole presenza di grandi società occidentali. Non faceva per me e ho cambiato itinerari.

Ora sono impaurito e perplesso di quanto accade in luoghi che ho un po’ conosciuto. Impaurito perché capisco che le cose sono sfuggite di mano e che gli interessi e la partita tra una concezione del mondo basata sui poteri e le sfere di influenza si svolge altrove. Un gioco fatto di azzardi come negli scacchi, che possono sacrificare l’uno o l’altro pezzo in vista della vittoria finale. Negli scacchi la vittoria o la sconfitta vede sempre la scacchiera con pochi pezzi, ciò che manca è davanti a ciascun giocatore e servirà per la prossima partita, ma per il momento sancisce ciò che è già avvenuto sul campo. In questo trae origine la mia paura, che l’intera Europa da pezzo fondamentale, da Re, sia diventata una componente del gioco che è sacrificabile in vista di un vantaggio futuro. E l’Ucraina è solo un pezzo della scacchiera.

La perplessità, invece, si alimenta con la differenza tra ciò che vedemmo di quel Paese e la rappresentazione che ora ne viene data. Di certo l’aggressore è la Russia e ciò che viene invocato a giustificazione non ne ha ed è enormemente sproporzionato al costo di vite, sofferenze, distruzioni che stanno avvenendo. Chi viene colpito non c’entra nulla e se non si è voluto risolvere diplomaticamente le questioni in campo, sicuramente c’era un elemento che ha a che fare con il potere e la sua capacità di ignorare gli uomini che verranno sacrificati. Se come penso è una dottrina condivisa tra concezioni diverse del potere, allora m’impaurisco ancora di più perché quando verrà risolta questa guerra, le case ricostruite, pianti mai a sufficienza i morti, non ci sarà una ragione che s’acquieta ma il tutto sarà vissuta come un episodio di qualcosa che continua e che usa sempre gli stessi mezzi per essere risolto, cioè le armi.

Tu mi parlavi dell’oscurità che aveva seguito la seconda guerra mondiale quando il riordino delle capacità delle singole nazioni di essere Stato e di vantare reali libertà erano state subordinate a un nuovo ordine mondiale con un confine dove si scontravano due sistemi economici: gli alleati nemici, li chiamavi, e pur facendo affari tacitamente, tenevano come propri e coincidenti, mercati e potere d’influenza. Insomma una lotta tra botteganti o tra bulli che volevano avere il predominio sull’intero quartiere il tutto governato dal denaro e dal potere che consentiva di farlo. La dissoluzione dell’ U.R.S.S. come potenza ideologica aveva reso appetibili gli immensi mercati dell’est. Per me la cultura era un bene imprescindibile, unificante che doveva unire i popoli mantenendo le diversità. Tu sorridevi e mi dicevi ch’ero un sognatore. Mancava molto a questa prospettiva, gli stipendi in Ucraina erano a 100 dollari al mese, ma c’erano già le caffetterie piene di persone a qualsiasi ora, si facevano affari senza ancora un codice commerciale, per acquistare una casa bastava pochissimo oppure serviva tantissimo, dipendeva da chi si conosceva. Avevi ragione, credo che in questi anni le cose si siano normalizzate e occidentalizzate, un Paese che aveva il 50% del PIL assicurato dalle persone che erano emigrate pur essendo il granaio d’Europa e avendo risorse minerarie e industria pesante, doveva riassestare in fretta la propria composizione sociale e assomigliare a quei paesi in cui badanti e operai lavoravano e mandavano a casa buona parte di ciò che ricevevano. Ora però il mondo è cambiato e c’è chi pensa di conquistare il mondo con la tecnologia e con i mercati e pian piano rende tutti dipendenti oltre a togliere ambiente e aria, terra e acqua. Non so come l’Ucraina entri in tutto questo e neppure capisco dove sarà la prossima crisi, per questo mi interesserebbe capire cosa ne pensi, cosa pensano i tuoi colleghi nella tua Università o i vicini di casa. Se sanno come il tuo Paese si muoverà in questa nuova scacchiera che non ha più gli stessi pezzi. Ora le pedine sono antichissime e hanno un suono secco quando vengono messe sul terreno di gioco. Anche la scacchiera ha un’estetica e un legno che la esalta come se ciò che si gioca lo meritasse, non come noi straccioni europei che andavamo a giocare alla guerra con le scarpe di cartone. Sarà il mahjong o forse qualche altro gioco, ma in cui non mi piacerebbe essere né giocatore né giocato.

arrivammo

Arrivammo in tarda mattinata. Tirava un vento freddo che sollevava nuvole di polvere dalle stradine senza asfalto. Gli abitanti erano chiusi in casa e il fumo dai camini tentava il cielo ma poi piegava orizzontale e si spargeva tra case e vicoli. Mancavano persino le solite frotte di bambini in cerca di caramelle e monetine. Di certo non eravamo inosservati, il grosso pullman occupava l’intero parcheggio davanti a quello che doveva essere il nostro ristorante. Le rovine erano distanti qualche centinaio di metri oltre la fine delle case, mentre in centro, sotto la scritta museum e una tettoia, c’erano mosaici e resti di statue. Uno dei mosaici, di epoca romana, era molto particolare perché portava l’intero medio oriente con le città maggiori allora presenti, le strade e il mare con delfini e navi che viaggiavano tra Grecia e Syria.

In quel fazzoletto di terra, eravamo all’inizio della guerra civile in Syria, non erano ancora arrivate le battaglie, ma a qualche chilometro di distanza iniziavano le oltre cento città morte che nacquero e si spensero nell’alto medioevo. Dopo il pranzo, il villaggio si animò, arrivarono i venditori di reperti e cartoline. Oltre c’erano altre persone intente ai loro lavori, vivevano di pastorizia e agricoltura, non di turismo. Mentre mi incamminavo verso le rovine della chiesa e altri mosaici, pensavo che in tre generazioni, erano passate per quelle case almeno cinque diverse dominazioni e poteri. Che quelle persone erano diventati cittadini dell’uno o dell’altro stato, cambiando sistemi politici e continuando a fare quello che potevano, cioè vivere. In quel vivere c’erano state le stesse emozioni degli uomini delle grandi, civilizzate città d’occidente : amori, dolore, piccole gioie, feste, fatica, ma anche fame e morte. Non erano indifferenti quelli che vedevo, forse sapevano delle guerre mondiali, intanto guardavano e aspettavano che ci fosse qualcuno che li avrebbe fatto vivere meglio. E se guardavano con distacco ciò che accadeva in quel momento, probabilmente lo facevano anche quando il clamore era ben maggiore, al più immaginando la fuga e il suo dolore nel lasciare. Sapevano che il potere non sarebbe durato. Nessun potere. Solo le cose buone sembravano dare riposo e durare e loro attendevano quelle per lasciare la paura.

Però m’illudevo, il mio era il pensiero dell’occidentale che ha vissuto la pace per molti anni, loro, gli abitanti, avevano viste così tante invasioni che le avevano considerate parte delle vite e avevano resistito all’inimmaginabile. Si erano spostati solo un po’ oltre la collina, ma erano sempre rimasti, facendo largo a chi invadeva e voleva restare, restando fedeli ad una patria. Non so cosa sia la patria per un invasore, di sicuro non è un concetto praticato dalla geopolitica, però è qualcosa di radicato negli uomini che hanno bisogno di terra, di odori, di alberi e di punti di riferimento, di colori, di cibo cotto in un certo modo e di rumori diurni e notturni che sono suoni per chi ascolta. Questo sentire andrebbe rispettato perché è parte di quelle persone e senza esse sono molto meno. Il concetto di buono, di relazione, diventa labile quando manca la libertà di essere in un luogo. Il buono diventa impotenza e rabbia che cresce se porta via la terra, il lavoro, la sussistenza. Allora nasce la rivolta che vuole cessi la sopraffazione, la sottrazione di identità.

Ecco credo che allora pensai esattamente ciò che penso ora, il potere non dura, gli uomini restano, i valori profondi che una civiltà riesce a distillare, restano. E questi, se vengono ripuliti dalla retorica, danno la vera misura del valore, enunciano con verità gli obiettivi comuni, che poi sono semplici: vivere con dignità senza essere oggetto d’ingiustizia. E uniscono questi obiettivi, rispettando i vivi e morti, ma soprattutto conservano la dignità di essere ciò che non può essere tolto: essere uomini.

Lo penso in questi giorni in cui il vento non è più quello del deserto, sono in una casa calda, se fuori piove la mia città riluce ed è più antica di quelle città e anche se è stata distrutta è poi risorta più bella. Lo penso perché venti di guerra si gonfiano e non vedo preoccupazione sufficiente per la pace, non sento umanità per chi è stato privato di tutto e ora è ostaggio della carità dell’occidente. Lo penso perché ci sono indifferenza e inanità mescolate, perché le elezioni si vincono indicando un nemico e allora la guerra diventa plausibile. Ma ora questa guerra si avvicina e fosse pure per egoismo, servirebbe la pace, per chi muore e per chi ha timore che tutto questo non abbia una ragione sufficiente a evitare una catastrofe planetaria. 

Ma anche questa è brutta retorica.

 

di dimensioni e d’importanza marginale, non sono solo cose

Le giornate allungano la luce verso l’estate, lo si vede dalle ombre sui muri che il sole dipinge. E’ fresco la sera ma il giorno eccede nel calore e non piove da tempo. Nella giornata dell’acqua l’umidità vola altrove come fa da mesi. In compenso i venti di guerra si fanno sentire. La filosofa De Monticelli ha scritto un non agevole articolo sulla differenza tra prendere posizione e schierarsi, dove prendere posizione è rispondere a una esigenza di giustezza, cioè in ultima analisi, di verità. Mentre schierarsi comporta consentire a un ” male minore”, che sempre male è e comporta che il sentire nella nostra anima, nella nostra cognizione dei valori, si atrofizzi. Questa mortificazione del discernimento è la perdita della sinderesi ovvero della capacità di districare il bene dal male. Questo è lo schierarsi che non è prendere posizione.

Qui inizia un altro mio raccontare, perché alla guerra do il mio prendere posizione e mi rendo conto che soli siamo nulla, mentre molti siamo tutto, purché vi sia la sinderesi ben attiva. Gli antichi mentre si ammazzavano con facilità erano in grado di discernere l’anima, il bene e il male, poi tutto sembra si sia mescolato e ha reso, noi, gli uomini, inani. Gli animali si comportano molto meglio e seguono idee consolidate e precise.

Il pensiero torna a come vivi questo inizio di primavera e lo confronto con il mio, chiedendomi come cogli ciò che ti sta attorno, La fretta ti permette di vedere dalle finestre di cui noti la polvere accumulata, le cose apparentemente povere che attendono nel retro dei cortili delle case. Senti che il vento bussa sui tetti e scuote gli alberi e annusi come contrastano i fiori di mandorlo con il loro leggero profumo amaro reso dolce dal colore squisito delle corolle. Li vedi mentre volano tra secchi di plastica, tra i giocattoli dimenticati nell’inverno, come posano su opere lasciate a mezzo e sulle tende da sole che attendono di svegliarsi. Si metteranno ovunque a disposizione dei tuoi sensi purché tu dedichi loro la tua attenzione. Sono loro la guida alle cose che non vediamo e che usiamo senza discernere ciò che è buono per noi e ciò che soffoca.

La mia mappa è un portolano, un sentire che mescola il ricordo, la strada da percorrere, la sublime confusione del caso che mescola le cose e mette insieme il dentro e il fuori. Sentire è eccessivo in questa stagione dove tutto muta e noi siamo parte del mutare? Credo sia l’una guida che ancora possediamo per tenerci assieme a ciò che ci sta attorno. Una rete di visto, vissuto, odorato, toccato che corre inusitato tra giganti e fa fiorire i mandorli come attiva in continuazione i piccoli amori. Che isola e fa trepidare mentre scorge l’innocenza della terra arata e vuole già la freschezza dell’ombra. Il divagare che consente di uscire dall’insicurezza, dal timore e si perde nella dolcezza del sentire che esiste una dimensione in cui l’amore è possibile, in tutte le sue gradazioni, che la leggerezza dei petali che volano è la stessa dell’ape e del cuore. Feconda e distratta perché presa dai sensi, tracciata con le dita che già hanno altro che seguirà senza motivo apparente.

Le cose abbandonate, il vento, l’aria già profumata scivolano tra gli uomini e le case e chi ha un inutile andare sente che anche nel cuore le primavere non sono mai uguali.

spirale

La spirale mi ha sempre affascinato, l’assimilo alla vita nella sua capacità di tornare a vedere ciò che era vero, senza ripetere.  Percorrendo la spirale non si torna sui propri passi, si vede il passato e la prospettiva di futuro e alla fine si esce. Nei rapporti amorosi, il passato è più o meno allegro e la tentazione della leggerezza torna spesso nella vita. La spirale rappresenta bene anche quelli che non permangono, ma sono accaduti. Accadono… Da adolescenti, la continua scoperta, la precarietà, la necessità di misurarsi con la propria autostima fanno della leggerezza una opzione quasi necessaria: grandi gioie, appartenenze, dolori che si esauriscono in tempo breve. Dopo la giovinezza e una fase di progetti solidi, si presenta il bivio tra il continuare riprogettando in continuazione le vite e l’abbandonarsi alla ripetitività, al non impegno. Tutto si muove nella circolarità che non si sovrappone, nelle libertà individuali che si intende cedere. Sono così frequenti le separazioni, ciascuna con il suo motivo e il suo strascico di difficoltà dolorose e poi, se si sanano, il riscoprire che si è ancora attraenti, la necessità di nuovi stimoli oltre l’abitudine. Rispetto al passato molto conduce verso rapporti senza vincolo. Sembra basti dirlo subito: le cose saranno chiare e non si soffrirà. Poi viene scoperto che non è così, che il rapporto diventa asimmetrico, che l’appartenenza è la condizione per avere di più. E c’è la richiesta/bisogno di aver di più. La leggerezza si trasforma in necessità di decisione. Allora c’è la spirale che curva e sceglie: chi si ritrae, chi rischia, chi scappa, ma comunque la leggerezza è finita e subentra la sofferenza della mancanza. Non c’è nulla di leggero quando l’adolescenza se n’è andata, le regole di leggerezza non funzioneranno, i pensieri e l’umore rispetteranno l’esperienza acquisita. La sensibilità al dolore dipende da ciascuno, ma non sarà più vera l’illusione della giovinezza ritrovata e immemore. Per il semplice motivo che la vita ci ha plasmati, strutturati di ricordi e bisogni finalizzati. La leggerezza è parente del vuoto quando non ha coscienza del proprio bisogno d’amore. Parlo delle pene amorose, non della necessità d’essere lievi. Quella è altra storia e quando si è lievi l’impronta che lasciamo è forte e netta, come solo la delicatezza riesce ad essere: indelebile.

miserere

Questa mattina il cielo era ricco di nubi ma senza pioggia, Attorno tutto si svolgeva come se fosse un normale inizio di primavera, solo che è marzo e non piove. I canali d’irrigazione sono secchi ai bordi dei campi e la terra, dopo l’aratura ha mutato il colore delle grosse lucide zolle passando dal marrone scuro a un nocciola che testimonia l’aridità. Da mesi non piove. Gli alberi hanno cominciato le loro fioriture e le piante ornamentali sono colme di boccioli. Traggono linfa dal profondo. Si arrangiano con quello che c’è, ma non potrà durare sempre così.

Questo è il tempo che viviamo, per ignavia anche nostra, per supponenza e protervia, tutte abitudini che si consolidano in un’idea di dominio che ora la realtà s’incarica di smentire. Tutto nasce nei sentimenti, nel rifiuto che essi siano i veri elementi di equilibrio e di guida per gli uomini. Le altre specie, non ne hanno bisogno, sanno dove andare, cosa fare, come comportarsi. Non noi. Non nobis.

Dietro ogni fallimento c’è un tradimento e dietro ad esso un sentimento mistificato. Se tradire è una forma di negazione del sentire, del patto stipulato con sé prima che con altri, esso non è scevro di effetti verso la vita: non si conclude e non la conclude tra un prima e un dopo. Ha in sé il germe rapido del fallimento, quello che rompe l’equilibrio e lo rovescia per un nonnulla. La vita nel suo scorrere temporale ha scelto e devia su una nuova strada che non è necessariamente un procedere, può essere un arrestarsi, un retrocedere, un capovolgere. Il cambiamento è aderenza e approssimazione a ciò che si è, non tradisce nulla e ci realizza, ma fallire è negare la propria natura, il daimon che è in noi e che pretende di essere cresciuto amorevolmente. E lo chiede non in forza di ragione o per pretesto, ma amorevolmente, con cura e misericordia.

Il daimon è comprensivo, ci vuole bene e include il fallire, l’inesperienza, la fatica e le avversità, ma non tollera il tradimento e chiede alla ragione di essere accogliente nel suo farsi consapevole dopo lo sbaglio. E’ strano ma non include la colpa se non come distruzione del sé. Non la chiama colpa, chiede solo venga preservata la possibilità della vita, della sua felicità, del coincidere tra l’essere e il fare.

A questo oggi richiamava la terra già sul punto d’essere arsa, priva di semina e concime, chiedeva ragione. E lontano c’è il terribile rumore dello scontro, le realtà del sangue e della violenza cieca. Il labirinto senza il filo di Arianna in cui si smarrisce il senso del limite, le vite disperse, si spengono nel dolore e generano minaccia. Il mondo è sull’orlo dell’inverosimile e lo è da molto, ma la capacità di trovare la strada nel labirinto delle passioni è affidata al senso dell’umano. Al fermarsi e sentire che natura e uomo sono parte di una stessa vita, che il potere è tradimento di molti e di sé e destinato per sua natura a fallire. Ma nulla di tutto questo basta quando le vite si spengono, quando la negazione o l’affermazione si appella a principi che dovrebbero essere più alti di chi li pronuncia e contiene e invece vengono usati per nascondere le verità effettuali, la realtà. Chi sacrifica il mondo crede di essere immune al sacrificio, ma non lo è e in questo tradisce il daimon profondo che cerca la comunicazione, il rapporto, il sentimento con l’altro e con il mondo stesso.

Quanta disperazione contiene il fallimento dell’essere uomini. Di quanta comprensione abbiamo bisogno per trovare un equilibrio con quello che calpestiamo e che dovrebbe essere fatto con leggerezza perché lì sotto un mondo vive ed è importante perché sopra vi sia vita. Quanta disperazione di uomini, di madri, di figli dovrà essere tradita perché ci si renda conto che non c’è via d’uscita se non abbassando le braccia, chiedendo a noi stessi di avere un’altra possibilità. Almeno un’altra per vivere, per pensare, per seminare e far fiorire, per cambiare ciò che non è istinto ma tradimento della vita. Quanta disperazione serve per evitare la fine?

rassicurami

Il mondo attorno a noi si agita, le volontà oscurano gli uomini e le persone diventano cose. Inutile la ricerca del giusto ammesso che vi sia una giustizia che prescinde dalla potenza. Tempeste si sommano a tempeste e come un tempo sotto le mura di Bisanzio, c’è chi discetta sulla teologia della pace. Come vi fosse una alternativa ad essa per non cadere nel baratro della guerra, delle uccisioni, sempre ingiuste. Sembrano pensieri da anime belle, da inani osservatori del mondo che guardano al prezzo della benzina e fanno incetta di pasta al supermercato, ma ciò che stiamo vivendo collettivamente supera di molto la condizione individuale, il tempo presente in cui collochiamo desideri e vite. Ci sarà un futuro che sia migliore del passato? La domanda è semplice e parte dalla realtà dove chi vuol vivere non si arrende ma vuole che i principi non siano un patrimonio personale bensì collettivo. Ognuna delle parole di cui ci siamo riempiti le bocche a partire dalla rivoluzione francese, devono avere un contenuto che contenga sia i diversi modi di vedere il mondo sia la possibilità che la volontà di potenza non sia l’elemento che unifica il mondo. E’ la diversità che coesiste e rende vera la libertà, concreta la solidarietà, certa la giustizia. Ora rassicurami se puoi perché questa ondata di rosso che non è cambiamento, investe e divora tutto.

Rassicurami se puoi perché gli amici servono anche a capire, ma noi siamo noi. La misura, il limite solido della nostra sofferenza siamo noi. Esattamente come nella gioia.

E’ facile prevedere cosa accadrà a chi ci fa del male, ma occorre troppo tempo e non toglie la sofferenza del qui e ora.

Rovesciando il Tolstoi di Anna Karenina, posso pensare che le infelicità s’assomigliano tutte, mentre le felicità sono singolari, non riconducibili ad altro che noi. E’ l’oscillare su questa consapevolezza che induce a muoversi e la certezza che il tempo sarà inesorabile.

Ma a che servirà il nostro sorriso stampato sulla decadenza altrui?