librandosi

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Libri, libri ovunque, lo spazio che voleva diventare una libreria sterminata, ecco cosa immaginava. Gli interessavano i libri e ciò che contenevano: intelligenze, idee, persone con la loro memoria e soprattutto la loro fantasia e razionalità. Gli interessava poter leggere e capire. E apprendere, anche se non avrebbe mai potuto leggere tutto quello che accumulava. No, non era un bibliofilo, anche se gli piacevano i bei libri, i caratteri eleganti, la carta, le librerie di legno pieno, quello che lo sollecitava erano i contenuti. Bastava una frase, un giro di parole, che per lui erano come un giro armonico, e si scatenavano pensieri paralleli, connessioni, nuovi ragionamenti. Sostanzialmente era curioso, e onnivoro, non c’era un ambito, una specializzazione perseguita, era la sua testa che si specchiava, e costruiva, attraverso quello che apprendeva, ma sopratutto era ciò che desiderava sapere che lo rappresentava. Per questo comprava i libri che lo attraevano, bastava una pagina, una trama, una suggestione particolare e li prendeva. E siccome con l’accumularsi di libri, la sensazione di ignoranza cresceva, gli pareva che anche sapendo a malapena leggere (leggere è un verbo che esprime non una capacità meccanica di dare un senso a dei segni, ma il capire cosa essi sottendono), sarebbe stato lo stesso. Tutti quei libri, e quel leggere, non l’avrebbero reso più saggio, sapiente e tanto meno intelligente, avrebbero continuato ad alimentare la fornace della curiosità, mettendo assieme cose disparate dove il senso, per lui chiaro, avrebbe dovuto essere a lungo spiegato se fosse interessato a qualcuno, ma questo non lo pensava. In pratica, attraverso i libri e la loro presenza, perseguiva una sanità personale, qualcosa che altri avrebbe definito una mania o una risposta non razionale a una carenza, invece per lui era la costruzione di un’immagine visibile e tangibile del suo possibile e dei suoi limiti. Non gli interessava una cultura smisurata, gli interessava capire profondamente che gli altri pensavano e che il loro pensiero, comunicato, trasfigurato e mutato nel suo, lo costruiva. Rendeva tangibile il fatto che esisteva, e che a sua volta sviluppava pensiero originale perché suo. Insomma tutti quei libri attorno erano la prova che lui esisteva per davvero e ciò lo rassicurava perché era un pezzetto di tutto quello che c’era e sarebbe potuto essere. Era la sua immagine che riconosceva, e non era statica, ma diventava come la sviluppava e la metteva assieme. Insomma alla fine quella rielaborazione di pensieri, suoi e altrui, era lui. Per questo i libri erano il suo riconoscersi, molto più delle persone che incontrava, e che pure suscitavano la sua curiosità, ma i libri erano impudichi al confronto, entravano nella mente, si mostravano nudi anche quando fingevano o raccontavano falsità, mentre le persone alle quali si poteva davvero attingere al cuore e riconoscersi, erano poche e non di rado, era arduo il loro lasciarsi indagare, andare, toccare dentro. Considerava tutti quei libri una nevrosi positiva, la sua strada per giungere a sé. E questo gli dava una grande rassicurazione: sapeva dove andare per trovarsi.

uno stile calligrafico

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Il pendolo risuona nel bagagliaio con quegli armonici dolci d’acciaio che vibra. Non a caso si chiama acciaio armonico, penso. Perdersi per un momento nei particolari porta a un dialogo che guarda dentro. Cosa si sente in quel pezzo di realtà che non è più tale proprio perché è un pezzo di noi? I particolari, nell’osservare, nell’estrarli dall’insieme, hanno un linguaggio molto diretto, sensuale. Sono grana, asperità, morbidezza, densità, colore intenso che resta o che sfuma. E tutto trova rimandi, simmetrie, in noi. Così nello scrivere, o nel fotografare, o nel dipingere, si porta all’esterno qualcosa che ci appartiene profondamente. E lo si guarda, spesso insoddisfatti perché approssima, ma non siamo noi stessi una approssimazione di ciò che potremmo?

Di che colore è la mia anima? Di quale consistenza? Uniforme o ambigua di più nature? E di questo impalpabile, che pure c’è, emerge un colore e una sensazione tattile che la riconosce e l’approssima. Il pendolo tintinna sui dossi, il suo rumore che evoca ciò che farà appeso, suonerà le ore e i quarti ingentilendo il tempo che scorre. Quel tempo.

La stilografica traccia segni, comprensibili e netti. Sono parole che rimandano ad altro, che spiegano sempre in parte, ma il segno ha una sua vita, distinta dai significati di ciò che si legge. Per questo mi piace leggere e scrivere a mano? Grossezza del tratto, asole che si gonfiano e si stringono, t non tagliate, allineamenti e altezze regolari. Dimensioni. Né troppo, né troppo poco. Mi piace scrivere, penso, e di più sui fogli bianchi perché le lettere si succedono orizzontali. Perché rappresentano il mio ordine e mi rassicurano. Corrispondenze tra dentro e fuori. Non è questione di forma, ma di altro dialogo e questo modo di usare i sensi diventa stile, penso, modalità di vita. Nella ricerca di chi si è, il particolare notato è specchio in cui riconoscersi. La fatica senza fretta è dare significato a ciò che colpisce. Non spiegarlo ad altri, ma a me. Ci sono analogie con il sogno in queste corrispondenze, come se esso continuasse nei simboli attraverso il giorno. O viceversa il giorno continuasse nei simboli, nella notte. Perché mi piacciono gli orologi meccanici, penso? Le ruote dentate che si muovono regolari, scorrono come il tempo che misurano arbitrariamente. Guardandole sono pezzi di metallo, precisi, belli a loro modo, insieme agli altri diventano segni, corrispondenze. Perché mi piacciono gli inchiostri, i pennini, i colori? Eppure non sono un buon disegnatore, penso. Quale mancanza sto colmando con le mie passioncelle? Se indago benevolmente, trovo nei piaceri, nei particolari che mi attraggono, cose che si svolgono con lentezza. Che sbocciano. Vita che cresce, che colgo nei particolari. Prima era occultata, poi si palesa. E’ specchio che mi mostra. Cosa? E’ il limite? Non direi, c’è talmente tanto da vedere, sentire, toccare, annusare che mi riporta a me che non c’è limite, penso.

Alla fine, lietamente capisco che non mi conosco, ciò che scopro mi affascina e questo non mi chiude, ma cerca corrispondenze continue con l’esterno. Che esterno e interno si parlano, diventano sé. Ciò m’induce a cercare negli altri ciò che m’assomiglia, penso. Che sia questo una parte del bisogno d’amore ? So che entrambi non si esauriscono, la ricerca e il bisogno, e in questo non finire, non finisco.

i grandi davvero

La grandezza di una persona si vede dalla sua consapevolezza del limite. Gli altri non si accorgeranno di questa fatica del superarsi, vedendo il risultato, presi dalla meraviglia, dal nuovo e l’ inaudito e parleranno con le parole dell’agiografia, del tutto eccellente, ma non è stato sempre così e la grandezza è passata attraverso errori, scontentezza di sé, instancabile rifarsi. Ciò che è grande si ripete, ma non è mai eguale ed esso stesso addita chi lo affianca nella grandezza, chi lo seguirà. Sono i nani che strepitano per farsi notare, chi è grande può frequentare il silenzio. A chi ha la fortuna di vivere quando ci sono grandi uomini, dovrebbe essere dato discernimento, giusta distanza, compartecipazione nel comprendere ciò che accade. Perché non è facile partecipare della grandezza, esserne mutati, sentire che essa ci parla oltre le opere e spinge anche noi a superarci. 

la ripetitività dei numeri primi

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Chi l’ha poi detto che il criterio cronologico permette di capire tutto? Ovvero come si sono svolte le cose. Avevo un collega e amico che ogni volta che gli chiedevo notizie sul suo magazzino, di cui era il capo, cominciava un lungo discorso che partiva dalla recinzione. Una volta gli dissi che avevo poco tempo, 5 minuti,  e dovevo conoscere il carico di uno scaffale, cominciò : quand’ero piccolo e mia nonna… Doveva per forza partire da lontano, ci abbiamo scherzato per anni, ma a me non interessava come si estraeva il ferro che era servito a fare lo scaffale, mi interessava ciò che ci stava sopra. 

Però mi piace la storia. Così ogni volta che inizia una nuova enciclopedia storica, con trepidazione compro il primo volume. Sfoglio le pagine, mi immergo nella lettura, confronto, mi faccio domande, poi constato che è una riedizione, rimaneggiata, di qualcosa che è già uscito e concludo che non c’è così tanta novità per aumentare il peso complessivo delle librerie di casa. Adesso anche National Geographic riedita ? (mi pare di averla già vista) una sua enciclopedia storica e parte dall’Egitto e i faraoni. 

Non se ne può più, dell’Egitto e dei faraoni, ma perché magari solo per confondere le idee, cari esperti di marketing, non partite dalla riforma protestante, dall’impero Ittita, dalle crociate, dall’impero Turco, dalla storia della Cina, che per averne una di decente bisogna spendere un patrimonio con Einaudi.

Partite dal novecento e risalite, così capiamo quante cazzate si sono ripetute nei secoli. Indagate sull’assedio de la Rochelle  e perché gli olandesi protestanti affittavano navi ai cattolici francesi contro i protestanti ugonotti. Fate confusione e parlatemi della battaglia della Marna, e di quello che successe sul fronte russo che così capisco perché abbiamo quasi vinto una guerra ma non ci hanno riconosciuto che era vero.

Insomma parlateci d’altro che ormai di Ramses terzo sappiamo molto, uscite, dai luoghi comuni, estraete il midollo, lo facevano anche gli egiziani, date aria, non alle mummie ma al resto della storia dell’umanità che attende di essere messa in prima fila. E se proprio vi piace l’Egitto e i faraoni, tirate fuori qualcosa dalla sabbia e dalle decine di dinastie, che poi vengono ridotte a dieci nomi, fateci viaggiare nel tempo per davvero.

E per farlo, imparate dalla rete, parlateci di molto, ma senza criteri cronologici (?), che le vite non ci bastano per leggere ogni volta dall’inizio. Diteci dei vostri dubbi fondati, non spacciate per scienza il collage, il predigerito, stupiteci, fate confusione, appassionateci che le pareti ormai sono coperte di primi volumi.

Non fateci abbandonare la storia, guidateci nel dubbio, fateci capire quanto siamo ignoranti, che anche se lo sapessimo non ci gioverebbe per allargare la mente senza una grande curiosità.

Ecco, incuriositeci, e non vuotate i fondi di magazzino riempiendo a caro prezzo le nostre case. Mi ricordo ancora una serie di cd, con tanto di pubblicità dell’editore, su Glenn Gould, ad un prezzo esattamente il doppio di quello a cui li vendeva Feltrinelli. Poi si dice che la cultura non dà da mangiare, certo che lo fa, ma non a chi la frequenta, piuttosto a chi la usa.

Insomma cercate di essere nuovi e adeguati ed evitate la noia. La noia uccide tutto, anche voi.

cocci, bordure e tulipani

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Balconi screziati di giallo e di bianco, una spinta vitale, plebea, incoercibile come il genere, sapiente di dna. adesso, sembra dire: tocca. Ed esplode ovunque, anche nei piccoli spazi, nella case ristrette degli umani, nella vicinanza, negli stretti vasi. Oggi le terrecotte sono soppiantate dalla plastica, il coccio, troppo a lungo vilipeso, ora è una ricchezza. L’avete mai udito che risuona alle nocche come campana povera? Provate a farlo con la plastica che al più imita il colore e poi si disfa al sole. Nei cortili, in campagna e in città, a volte nei muri, ci sono le tracce di questo tornire, formare, cuocere e contenere, tenere bellezza. Che meraviglia.

A me piaceva, nelle case di campagna, spesso a fianco delle porte, vicino all’orto, vedere le latte grandi delle cipolline o della giardiniera, piene di terra e di geranei, immaginavo ciò che c’era stato prima: i lessi sontuosi delle feste, l’aceto pungente da conserva, e questo riusare, perché i vasi di coccio costavano, ma i fiori dovevano esserci, era un modo di vedere la povera economia della casa senza rinunciare all’essenziale. Come una gentilezza dell’animo che non sottostà alla condizione, ma emerge comunque e si imbeve nella sostanza, non nella forma. Nell’erba, a bordure (venne poi l’aiuola già ricca a soppiantare l’orto), la finta altezzosità del tulipano, la sua ansia di luce, il colore denso, la vita breve, lo sfogliarsi su tavole coperte di cerata a fiori o riquadri, spesso verdi o azzurri o rossi, con quel colore un po’ slavato che sbiadiva nel tempo e nell’uso. Non era allora, né adesso, metafora della giovinezza, ma esplodere prepotente di vita che si rinnova. Lasciato in terra affonda e fiorisce ogni anno, con fiori più esili, ma costanti. Ma allora si toglievano, a fine fioritura, i bulbi ed erano messi ad asciugare su carta di giornale, per poi trovare un posto sino al prossimo ripiantare. Cosa e cura di donne, come se al maschio fosse precluso il tener da conto la bellezza. Guardavano poco gli uomini, il lavoro piegava gli occhi, anche se prefigurava voglie. Tutto più semplice e determinato allora.

E’ erotico il tulipano, nel suo esplodere di vita, nel raccogliersi dapprima nella carezza delle foglie lunghe, per poi essere cuore che si apre, colorando gli occhi. E’ erotico nel suo alludere, nel prefigurare ansia e soddisfazione. Cose da poetastri perditempo vederlo nel pensiero che si colora, dopo il guardare, se sceglie il momento e lo colloca nella propria infinitezza. Già. 

aggiustaio

Ho una piccola mania, che magari è grande e non me ne rendo conto: mi danno fastidio le cose che non funzionano. Tutte. Mio figlio diceva che ero un aggiustaio, non era vero, però ci provavo. Forse era una reazione al fatto che non avevo manualità e vivevo tra persone che ne avevano sin troppa. Forse era il tentativo di rimontare virtualmente una delle tante sveglie smontate da piccolo e che erano servite a fare piccole trottole dentate, prima di dissolversi nel nulla, ma comunque fosse, ci provavo.

Adesso lo faccio molto meno, si butta via molto, ma un accanimento con le penne che non funzionano, ce l’ho. E così cerco di farle funzionare, anche quelle più difficili, le biro. Non ci riesco sempre, però la considero una disciplina. Mi applico, uso astuzie, attenzioni, ingegno che non hanno riferimento al valore, ma solo al fatto che uno strumento di scrittura deve scrivere.

Non è un problema di carenza, preziosità o numero, da sempre colleziono penne e ne ho a centinaia, ma forse la piccola follia è nella rassicurazione che all’occorrenza scriveranno, che sono pronte per qualcosa e non sono solo cilindri di vario colore e materiale accumulati.

Anzi il senso di sicurezza si spinge più in là, se penso che possono scrivere qualcosa che adesso non conosco, tracciare segni, ideogrammi, appuntare pensieri ben oltre al loro valore. E’ la certezza che le cose utili servono a quello per cui sono state fatte.

Così provo penne e se posso le riparo. E  quando riesco a farne funzionare una di particolarmente riottosa, mi prende un piccolo senso di soddisfazione, quasi un piacere, che sconfina in un sorriso.

le grandi specializzazioni: il Kipferl alle mandorle

Uno dice, parlando al bar: devi specializzarti, trovare una tua strada, solo così puoi vivere in un mondo dove conta la differenza. Così ho pensato a lungo, valutato le mie capacità con onestà e intransigenza, e mi sono specializzato nella degustazione della sfoglia alle mandorle, il kipferl come lo chiamano nel lessico dolce. Allo scopo ho esplorato, e continuo sistematicamente a farlo, tutte le pasticcerie con servizio bar. Anche quelle senza servizio bar esploro, ma qui le brioches sono rade ed appena tollerate, spesso striminzite, messe di malagrazia, inverecondamente esposte sul ripiano all’aria, ancelle dell’impero della pasta, del dolce, delle mignon.

Con studio e sistematica applicazione, ora sono in grado di indicare la graduatoria delle pasticcerie eccellenti, indicare le primazie, interpretare e seguire l’umore dei pasticceri, la variazione atmosferica, l’andamento delle materie prime sui mercati. Tutte cose non frequenti nella pratica di settore, spesso consegnata all’improvvisazione e alla frettolosa, distratta rincorsa dell’attimo fuggente. 

L’umore si sente dalla delicatezza degli strati di sfoglia, dalla tostatura del ricoperto di mandorle (basta un attimo per perdere la sintesi tra il croccante del tostato e il molle proporsi del crudo della mandorla scaldata), dalla pennellata del caramello sulla superficie che indurisce in un velo uniforme oppure, distratta, si raddensa in piccoli grumi incongrui. L’analisi dell’umore del pasticcere, penetra nel profondo, si legge nella ricchezza del ripieno di pasta di mandorle, oppure si ravvisa nella sua ristrettezza, quasi piccola dimenticata scia di presenza, più per dovere e rispetto alla ricetta che per sontuosa elargizione di bontà d’animo, buonumore e dolcezza. Si legge nel contrasto tra la croccantezza della superficie, il sovrapporsi della sfoglia appena addensata, il trionfo della vena di dolcezza morbida del ripieno, che testimonia l’equilibrio interiore di chi compie l’opera, il suo umore/amore per la vita altrui, la sua disponibilità al mondo.

Ma la vera perizia sta nel mettere assieme l’esteriore e l’interiore, l’umore e il mondo, sintesi alchemica della natura e dello spirito. Se fuori la pressione è bassa, se c’è pioggia, o peggio nebbia, le paste lievitano con difficoltà (anche i lieviti impigriscono e dormono al calduccio nei giorni impervi), se gli sbalzi di temperatura alitano sui vassoi, il kipferl s’ammoscia. Amante deluso si ritira in una malinconia che ammataffa sul palato, ovvero s’appiccica, s’impalla, rifiuta il rapporto con il gusto, risentito vorrebbe star per suo conto e non ingollarsi in stomaci voraci di quantità senza discernimento e amore. E’ la cosa peggiore, evito infatti le giornate a rischio se non per dovere, oppure scelgo la mia pasticceria preferita dove, in una teca a temperatura controllata, il kipferl guarda il mondo in una eterna primavera. Ma anche in questa situazione d’ amorevole cura, il tempo, la distratta affezione, l’abitudine, possono insinuarsi e toccare la fragile natura del kipferl, che pur senza ritrarsi, si mostra incline alla malinconia, pervaso da un un senso della caducità che lo porta a farsi fretta, lui, che per sua natura amerebbe il rapporto senza tempo, la dolcezza delle labbra, lo sbocconcellare attento e lieto, il raccogliere goloso delle briciole, che nella sua esuberanza dissemina, come prova della sazietà che non si sazia. Il non lasciare nulla perché tutto soddisfa, ma ancora chiede, a lui, proprio lui, che permette che il rapporto frettoloso mantenga l’intesa, che si rimandi ad altro più tenero ed intimo momento una  rinnovata intensa storia. Perché l’abilità dell’amante goloso e mai sazio, in questo si vede, ovvero nel mettere un ulteriore, un dopo che apre e non chiude, un promettere che sarà un mantenere ed ancora un aprire a nuove possibilità e dolcezze.

Ma se il tempo atmosferico irrompe nel giorno, come in ogni rapporto l’economia irrompe tra le cose. L’andamento dei mercati, il prezzo delle materie prime, si riflette nel prodotto e sente nella generosità, certo anch’essa ben governata dal pasticcere che può elargire, anche nei momenti difficili, ma la crisi a volte s’insinua, attacca il numero di mandorle presenti in superficie, il loro spessore, ché l’eccellenza le vuole sfogliate, ma consistenti per non arricciarsi in pose sguaiate (van bene a mezzo), deprime il ripieno, la stessa sfoglia risente della minor presenza di burro e ripiega su consistenze troppo secche per essere equilibrata. Che fare allora, se non sperare che il momento di crisi passi, che le mandorle arrivino copiose, che casomai si rarefaccia l’offerta, ma che piuttosto di deprimere il mercato almeno alcuni fortunati possano avere l’eccellenza.

Fin qui la mia specializzazione per sommi capi e ora queste brevi note introduttive vorrei tradurle nel curriculum in formato europeo che manderò ai miei futuri, possibili, datori di lavoro. Vorrei che fosse colta l’apertura al mondo, l’interesse che, pur nella specializzazione specifica, sono in grado di esprimere, la mia capacità di adattarmi a prove anche difficili (quante degustazioni si sono trasformate in pena…), la disponibilità a viaggiare perché degusto e confronto ovunque, l’uso creativo delle lingue, sia nel cercare nuovi, più consoni, significati al prodotto (cosa necessaria quantomai in un mondo in cui il marketing è parte integrante del processo produttivo), come pure nel mettere la lingua stessa a servizio dell’apprendere, del gustare, del valutare, insomma l’uso del corpo a servizio dell’azienda. Vorrei anche emergesse il processo progressivo, la disciplina, che ha portato a sviluppare competenza. Non solo studio e titoli accademici, ma applicazione sul campo, pratica dispendiosa, che non ha evitato gli errori, che ha sopportato notevoli fatiche ed impegni nel definire il campo d’azione, il range in cui effettivamente potersi esercitare secondo l’inclinazione, il talento, ma senza dar nulla per scontato. Quindi la capacità di rischio, di riflessione, il feedback sono qualità che già hanno avuto modo di esprimersi ed applicarsi. Prima di passare ad altra specializzazione e per non accumulare titoli e capacità senza mercato, adesso vorrei una offerta adeguata per uscire da questa condizione di precarietà in cui il talento si deprime. Non voglio essere eccessivamente choosy, ma per cortesia non mandatemi ad assaggiare brioche confezionate al supermercato.

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Chissà quali sono i motivi reali che ci fanno preferire un fiore rispetto ad un altro, certo è che una identificazione con il mondo vegetale emerge negli uomini. Forse più nelle donne che negli uomini, ma se io ascolto il mio lato femminile(?) trovo una predilezione per le fresie e le bulbacee. Tralascio il perchè delle fresie e a cosa mi riporta, vorrei indagare sulle bulbacee.

Nella mia vecchia casa, c’è un fiorire di tulipani, sono bulbi antichi, piantati da mia mamma o da me, che si rinnovano da soli negli anni, scendono in profondità, ma nell’epoca della fioritura, si fanno strada tra l’erba e riempiono di colore incuranti della poca cura che ormai ha quella terra.

La stessa cosa avviene in alcuni vasi della terrazza, dove abito ora. Sono bulbi piantati da me per scelta ed entusiasmo. Acquistati in Prato in qualche sabato di sole hanno già allietato, poi sono stati recisi ed hanno continuato per loro conto a vivere e crescere. La cosa mi provoca un’emozione lieve e lieta, un’attesa curiosa di scoperta che sempre si soddisfa. La motivo così: come nelle persone che mi attraggono, c’è l’intuizione che qualcosa sia coperto, eppure lavori con alacrità sommersa, che il colore sboccerà improvviso, che la forma anch’essa sorprenderà senza rispettare l’idea canonica che porto in testa. La durata, sia pur breve, non si esaurirà in un anno, ma tornerà a stupire, in una munificenza che è dono e novità che insegna, senza noia o paragone.

Francamente le rose mi annoiano, se non le ultime d’inverno o la prima d’aprile, si ripetono e danno la certezza di un colore, d’una forma esplicita già nel bocciolo. Nella rosa, come in altri fiori, sento un proporsi esteriore, le bulbacee , invece, hanno la discrezione di chi opera su di sé, a tratti si mostra e del suo splendore offre traccia pudica, mentre poi in silenzio continuerà il suo discreto, notturno lavoro.

 

you tube ed io cheffò

Evito i doppi sensi, parlerò di musica. Per ora.

Da orrende scatole di latta e pixel, l’idea del suono si ricompone in noi, mp3, you tube, quel che passa il convento. Sembra basti. Forse un segno dell’evoluzione del sentire è questo, o dal vivo oppure approssimazione. Ieri un’amica mi diceva che non ha in casa riproduttori di suono, a parte la radio. Fa parte della conventicola snobbiosetta, di cui faccio anch’io parte, degli ascoltatori di radio 3. Solo che io aggiungo le radio digitali ai miei ascolti via etere, poi i cd, l’mp3. Gielo dico oppure taccio che ormai il mondo non è quello della sua giovinezza, quando un giradischi era un segno di opulenza?  Oppure è lei che è avanti, con i suoi ascolti su you tube ed io invece spaventosamente retrò, con i miei troppi impianti hi-fi, le scaffalate di dischi, i registratori, la marea di cd che occupa lo spazio non occupato dai libri. Premetto che mi piace la musica, ma non ho particolari conoscenze e neppure l’orecchio assoluto. Avere a disposizione strumenti plurimi cosa comporta per il nostro rapporto con la musica? Faccio un esempio carogna: nel pezzo della Grimaud dell’opera 80 di Beeethoven pubblicato ieri, al minuto 0.35, c’è una nota sbagliata. L’ho letto, non me n’ero accorto. Ho riascoltato, è vero, per questo ho preferito questa versione a quella più bella dei proms 2008. E’ vera. E la questione della nota sbagliata mi pare esiziale, finalizzata a qualcosa che poco ha a che fare con il rapporto vitale che possiamo (in questo possiamo ci sta tantissimo) avere con la musica. Se si ascoltano concerti dal vivo, a me capita, con orchestre, direttori e solisti importanti, l’esito della serata dipende dall’estro, dalla sala, dallo strumento, dall’emozione di chi suona, dal momento. Non di rado qualcuno stona, aggiunge di suo suonando a memoria, parliamo di musica scritta e quindi terreno di caccia per i melomani in vena di bravura. Già una cadenza è materia del contendere, opinabile. Ebbene la magia c’è sempre, anche quando non si è d’accordo, anche quando l’applauso è solo liberatorio per sciogliere la tensione, anche quando l’applauso si trattiene perché l’incanto non si vorrebbe rompere. C’è un caso, ma io sono di parte perchè riguarda il mio direttore preferito ovvero Carlos Kleiber, che finita l’ultima nota, lasciato spegnere il suono, ancora nessuno applaude, finché uno prende il coraggio ed esplode la sala. In questo caso l’applauso era poco per descrivere il senso di unicità di ciò che si era udito, eppure magari ci sarebbero chissà quante osservazioni sul metronomo, oppure sulle parti di orchestra, ma era il grande incantatore che aveva preso tutti e portati altrove, per un tempo unico e non ripetibile. Questa è la musica fuori studio: iterazione ed emozione prima quasi che senso. Glenn Gould scelse ad un certo punto della vita, di non fare più concerti, la sua volontà di perfezione si poteva attuare solo in studio, solo con quella sedia, solo con quello Steinway CD 318. Per chi lo ama, quasi più degli autori che ha interpretato, Bach ad esempio, non resta che ascoltare ciò che ha lasciato ed il suo imperativo della musica che si genera e poi si fa esperienza e poi si stratifica in vita.

Bisogna ascoltare, questo è il comandamento, lasciare che sia la musica ad entrare e l’interprete essere il servitore dell’ascolto, colui che porta alla soddisfazione del desiderio, ciò che serve. In questa ricerca di ascolto, nelle mie piccole manie tecnologiche ho cercato qualcosa che si avvicinasse al vero, ben sapendo che quell’elettronica, quelle scatole e quell’aria spostata in vibrazione, non erano il vero, c’assomigliavano. Per questo ho infarcito la casa di impianti e casse acustiche, ma l’esperienza vera si svolge solo in due modi: andando a concerto e abbandonandomi nelle mani di chi potrà provocare emozione, sensazione irripetibile, ricordo. Oppure nel gesto di scegliere un cd o un disco, metterli sul piatto, sedermi in poltrona e lasciare che il pensiero che ha scelto quella musica, quell’autore, quell’interprete, prosegua ad emozionare. A questo punto non m’interessa che ciò che ascolto sia il frutto di un ingegnere acustico, ascolto ciò che alimenta un pensiero.  Gould, come tutti quelli che registrano, accettava di buon grado, anzi pretendeva che alcune frequenze fossero evidenziate rispetto ad altre, in questo caso l’elettronica si inserisce nell’interpretazione, non c’è solo la perfezione delle note, ma anche il volume del suono corretto per un riproduttore. Ecco, questo è il mio limite, oltre cambia il rapporto con l’ascoltare e uso mp3 e you tube per altro, non c’è più la magia complessiva. Punto al particolare, a volte lo vedo nel gesto nel direttore, oppure colgo l’espressione, la rarità, ma il suono è compresso, inscatolato, spesso svilito dalla registrazione. Cosa mi resta, allora, di quello che penso sia l’emozione della musica, ciò che mi cambia e a volte mi salva? Poco, solo la testimonianza che è accaduto qualcosa, che qualcuno era in quel posto ed è stato fortunato a sentire ciò che io non sento. A volte è la voglia di confrontare un’idea, capire qualcosa in più, ma per ri partecipare ci dev’ essere una curiosità, una necessità veniale da soddisfare senza grande fatica, qualcosa di accessorio rispetto al piacere e la volontà dell’ascoltare profondamente.   

You tube mi mette davanti ad uno schermo e l’mp3 mi porta altrove finché corro o faccio altro, le condizioni per essere davvero attento non ci sono, è arredo del giorno, colonna sonora di un film con vicende che a volte si combinano a volte no. Questo il limite e l’opportunità, come per lo scrivere ci sono mezzi crescenti, ma l’esercizio dell’emozione è cosa seria.   

p.s. per non parlare troppo male di questi strumenti, che se non ci fossero qualcosa adesso mancherebbe, allego sempre la Fantasia corale op.80, con il mio pianista di riferimento, Sviatoslav Richter, nell’edizione con Sanderling direttore. Val la pena di ascoltarla, proprio per quanto dicevo, senza pensare alla qualità del suono mono: sono entrato in sala da concerto, ascolto.

A 4

Col tempo si cambia anche negli oggetti dello scrivere. Adesso il mio formato di pagina è l’A 4. oppure l’ottavo di folio, il pennino preferisce il tratto medio, l’inchiostro grigio azzurro o l’avana. Sciocchezze, si dirà, eppure non tanto, dipende dalla testa credo, dalla disposizione, luogo, destinazione e dimensione delle parole, dei pensieri da scrivere. I formati più grandi esigono fantasia, libertà della mano, lo scorrere senza tema e fretta, ma soprattutto assenza di paura del bianco e del vincolo del contenuto. Nell’A 1 e ancor più nell’A 0, in assenza di un progetto, le parole si aggiungono in un collage di tratti, pensieri, colori, ma serve un tavolo, un posto fisso dove la carta, come fosse un muro, possa restare a lungo ed attendere interventi successivi. Per l’uso “portatile”, per lo scrivere, disegnare, intersecare appunti, ordinare i pensieri, va bene lo spazio medio del 210×297 .

Anche questo spazio, apparentemente conchiuso, consente notevoli libertà. Si può scrivere una semplice riga a metà pagina, contornandola di bianco, si può segmentare di testi ed intersecare di colori e caratteri, si può immaginarlo come una libertà che dalla testa continua sulla materia, quindi senza grandi vincoli.

Nello scrivere preferisco non avere un angolo canonico d’inizio, spesso inizio in alto a destra ad un terzo di pagina, ma non necessariamente. Ci sono dei rimandi, tratti diritti che traspongono verso frasi in altre parti del foglio, se si leggesse con attenzione si vedrebbe il percorso del pensiero che scarta, si muove a salti, poi si riordina. Non bado molto alla scrittura, ha sue abitudini, a volte la guardo dopo e l’osservo come muta con il tempo e l’umore. Mi piace il tratto più ampio, il carattere non piccolo, ma neppure grande, la mano che scorre libera come dipingesse. Ubbie che costano poco, manie. 

Scrivere sul foglio bianco è bello, com’è bello sentire la docilità del pennino, in queste settimane sto usando una Omas, pennino medio, caricata con inchiostro grigio blù.  Le aste delle lettere sono verticali, il foglio è leggermente sghembo, le righe di parole, diritte. Ci tengo alla scrittura orizzontale, penso rifletta come sono verso l’esterno, il nodo interiore dipanato e steso, le asole e le aste senza fronzoli. Non è una scrittura puntuta, è morbida, un po’ gonfia di parole che si aggiungono, ma che si possono scarnificare fino al limite del senso comunicativo. Togliere parole e aggettivi esige eguale impegno del gonfiare le frasi, in realtà il pensiero è lo stesso, solo che a volte serve una caraffa di succo per dissetarsi e a volte basta il profumo di un estratto. Credo ci sia un adattamento progressivo biunivoco, ovvero le parole, le frasi indossano il pensiero e questo a sua volta si conforma, cosicché quello che alla fine ne esce è nuovo, e se si evita la forma come prigionia, la sostanza ne viene arricchita.

Forse.

p.s. dai miei lontani trascorsi chimici, emergono ricordi: la tintura mi piaceva poco. Era aggressiva, con una personalità serva e forte, esigeva un uso, tingeva la pelle e le superfici, intaccava. Quelle poche volte che ho fatto degli inchiostri, la evitavo perché troppo violenta. E neppure le essenze usavo, pur sapendole generose, restavo sul confine tra vegetale e minerale, e i risultati erano incerti, però unici. Ubbie, appunto.