
Poi si capisce che non si sa molto,
e quel poco, ha avuto importanza un tempo,
quel che è rimasto consente di continuare
perché la notte è appena fuori
e chiede senza mai dar risposte.
Lo ascoltavo parlare e le parole erano precise, scelte, naturali nel suo discorso. Quelle, e solo quelle, andavano bene. Tutto si sistemava in percorsi senza inutili sospensioni, il silenzio era parte del discorso, serviva a rapprendere le suggestioni, ma era la pulizia delle frasi che rendeva bello il capire.
Come in una recita dove l’attore diviene il personaggio interpretato, si vedeva nel gesto, distante dalla sguaiataggine dell’insicurezza o del mostrarsi, che l’armonia era parte di un ragionare acquisito e profondo. Sono cose che conformano il corpo e il viso, rendono gli occhi luminosi, come accade ad ogni bellezza, meritata o meno.
C’era nel raccontare, nella persona, la fusione di quella cultura ordinata dalle letture, dallo studio come mestiere e piacere. Era il buon profumo del sapere che è legno, cuoio, inchiostro, carta. E quel leggero sentore d’aria che viene dalla finestra appena aperta che si posa sugli abiti e rende morbide le lane.
Ed è già tempo e già sole col suo sentire, tostato di luce.
Pensavo in questo piacere che ascoltavo e che anch’io avevo desiderato, ma confusamente, e poi praticato con passioni poco educate e collocate nel disordine. Le mie carenze erano un vissuto mescolarsi di colpe, sudore, piacere, ricordi, fatiche abborracciate nella scarsa soddisfazione di allora. Avevo disseminato il mio tempo senza risparmio, trattenuto con rabbia il poco e perduto altrove il molto ricevuto. E se questo m’indicava che un’altra vita sarebbe stata possibile, non me ne spiacevo, perché altrimenti avevo vissuto. E potevo ascoltare, e capire quel ragionare. Potevo goderne. E pensavo che, in fondo, la vita non poteva essere tutte le proprie possibilità, o avere tutto, ma poter godere del bello che c’era intorno a noi.




