Ora la violenza del silenzio, della riprovazione, della presenza muta che toglie il sonno al potere cieco.
Ora la consapevolezza che porta l’amore altrove, lo schierarsi senza reticenza e senza passaporto, l’esserci perché non si tollera più la distruzione del presente e del futuro.
Ora la fuga dal servilismo, l’ostentazione muta del diritto violato.
Ora la forza anarchica della risata che confina i potenti nella solitudine del ridicolo.
Non meritano le nostre canzoni, i nostri slogan e allora silenzio, esecrazione. Ogni giorno finché non cambia.
In ognuno di noi c’è il senso del mistero, di ciò che ancora la ragione non comprende eppure è dentro ciò che viviamo. Questa parte sconosciuta ci appartiene, genera stupore, spesso bellezza, a volte timore. Possiamo ignorarla, coprirla con il presente, nasconderla sotto desideri e obiettivi, ma tornerà a presentarsi con una semplicità che disarma perché in essa è racchiusa la possibilità e la speranza. Nel mistero c’è il pezzo di noi che manca e che ci renderà felici. O almeno così pensiamo a volte, ma questo ci metterà dinanzi all’uomo, alla sua imperfezione, al desiderio di equilibrio che rende la pace una conquista personale da trasmettere a chi amiamo. Nel mistero troviamo affinità con l’inizio e con l’amore. Ciò che non sappiamo pur volendo apprendere di noi, si mostra in una nascita interiore, dialoga con lo spirito, usa la mente per trovare le domande destinate a non avere una risposta definitiva se non vivendole. Questo coincidere tra domanda e il vivere acquista il senso del rinnovarsi, della rottura di una consequienzialità che tutto determina e prevede. Per questo l’amore e la sua forza di rompere gli schemi conosciuti e generare nuova vita in noi, è parte integrante del senso del mistero. C’è una speranza che ci parla se esiste la fiducia nel lasciarsi andare al vivere, nel rovesciare ogni previsione che ci condanna al grigiore delle abitudini. Vivere diviene rinascere con il nostro bagaglio di ricordi e di essere stati e di essere scelte e fatti. Una necessità resa leggero da un bene atteso. Abbiamo bisogno di accoglierci per accogliere, sentire il limite per saggiare la forza del conoscerci e spingerci oltre. Non occorre credere se non nella vita, sentire che ne siamo parte, che i messaggi che essa ci manda parlano al nostro essere più profondo. Sentire il mistero è non sapere cosa fare, ma lasciarci andare al flusso della vita, accettare di essere amati e di amare per questo bene che si vuole completare. Non c’è una ragione che metta assieme il razionale con ciò che non lo è, basta accettare il limite dove non arriviamo perché comunque ne usciamo cambiati. Non ho risposte, devo trasformare la paura in fiducia, guardare ciò che ho attorno e in me. Coglierne la bellezza che si manifesterà come vita.
Bisogna stare attenti a non esagerare. Percepire il limite. Vale ovunque e con chiunque. Anche con noi stessi. C’è sempre in agguato una ferita mai rimarginata per davvero, e non conta se siamo stati noi a farla. Quei piccoli segnali si dovrebbero cogliere, evitare le piccole nefandezze della disattenzione, oppure lasciare che tutto accada come deve. E se non si coglie la necessità della cura, allora va bene consumare. Non è forse il consumo che ci viene insegnato? Il consumo come motore della crescita, del movimento. Dicono. E ben pochi guardano i fiori delle scarpate, neppure li colgono. Forse questo fa loro bene ma è strano, perché sono pieni di poesia e vengono riempiti di rifiuti.
Scendiamo per prati innevati, la luce è azzurra di freddo e di sera. Oltre il bosco, verso occidente, il tramonto arrossa le nubi e scrive la linea dei monti. Come nel ritorno dalla caccia di Jan Brueghel, torniamo, stagliati sulla neve che riflette un grigio chiarore. Le case sparse hanno i camini che fumano. La sera è meno triste se si ha un posto dove andare. Non distante c’è il ribollire delle luci della piccola città, il corso, la piazza, i negozi pieni di persone, i saluti, i discorsi vacui e leggeri. Bollicine nell’aria e nei bicchieri. Colori accesi e soprabiti imbottiti di piume. Scendiamo a lato, al limite delle luci e delle auto. Guardando verso Orione si dovrebbe vedere una cometa, ma è la luna, grande e piena a dominare il cielo. C’è un freddo che non si placa, ottunde i pensieri, per questo i sogni tornano indietro e ripercorrono gli infiniti ritorni. Quelli nostri e quelli che sono diventati nostri nel vedere, leggere, raccontare. Ciò che si ripercorre è avvenuto e non può più far male. Qual è la differenza tra calma e quiete? Noi, io, che scendo sento la quiete che si fa strada nel muoversi, come se ciò che si è vissuto, oltre il suo carico emotivo, avesse distolto una paura. Quella del futuro, così prossimo da essere nei passi che si succedono. Non siamo calmi, siamo quieti. Per consapevolezza e per obiettivi vicini. Semplici. Accendere un fuoco, fare gesti consapevoli, ascoltare. Dentro una corda ben tesa, a volte per simpatia, risuona. Come animali entriamo nella notte, spinti dal silenzio che ci avvolge, da un grido di rapace, dal piccolo frangere del ghiaccio sotto i passi. Torniamo da una caccia che non c’è più, e neppure nessun successo, non c’è una preda da spennare e arrostire, un vino che ci arrossisca le guance e alzi il tono della voce e le risate. Noi siamo preda se usciamo da questa quiete che ci guida dentro la notte. Senza di essa cadremmo in una solitudine senz’ argini, in un cercare orgoglioso nelle tasche perché qualcosa da mostrare ci definisca: un sigaro, un portachiavi, un fazzoletto, un telefono. Qualsiasi cosa per dire che siamo noi e invece non lo siamo più.
Ogni anno ricevevo un piccolo libro di poesie, conteneva un’ acquaforte ed una dedica su un cartoncino. Era un libro quadrato, di poche pagine, in sedicesimo, semplice nel suo colore pastello e nei caratteri in inchiostro seppia. Le parole a volte colpivano, altre volte scorrevano, leggevo, spesso tornavo a rileggere. Erano poeti che non conoscevo, c’era il piacere della scoperta, spesso l’affinità del sentire.
Non confrontavo mai, né confronto, quello che leggevo con quel mio, che non oso chiamare versi, mi bastava l’idea di capire di più attraverso le parole e il loro disegnare un vedere a me noto e nuovo.
E’ un regalo che non attendo più quello del libro. Faceva parte del ruolo perduto, dismesso. Credo che chi me lo spedì a non sapesse il piacere che mi procurava.
Essere inseriti in una mailing list, in questo caso, è stata una scelta di altri momenti che continua a generare code di felicità. Ormai è strana l’attesa dei rari doni da adulti, incongrua, anche se mi fanno un piacere particolare, come il sapere che qualcuno aggiunge intenzione all’amore dell’altro.
Nel mio passato ho molto da rimproverarmi al riguardo, disattenzioni, frette da ultimo momento, stanchezze, finché le parole fatidiche sono risuonate: non facciamoci più regali, tanto si possono fare tutto l’anno. Ed invece la meraviglia del bambino che ci portiamo dentro, in giorni particolari attende di più. Ma è una sensazione personale senza pretese di generalizzazioni.
Così quando arrivava il mio libro di poesie, ne ero felice e il suo profumo d’inchiostro prolunga a il piacere, tagliavo le pagine intonse, leggevo e dopo l’epifania lo mettevo accanto ai predecessori. Di costa, nel loro cantuccio negli scaffali di poesia, in attesa sono ancora allineati nei colori, sentendo che pure le parole si allineavano dentro. È una bella sensazione che i significati si allineino e un senso d’amicizia antica e fidata, per un attimo, mi percorre.
Stasera stavo un po’ così, accade. E quando se ne conosce il motivo non è meno doloroso, ma che fare con quel disagio verso il tempo e ciò che porta con sé ? Francamente a me non piace il malumore, non ci sguazzo dentro neppure quando lo ritengo logico o giusto. Un conto e’ la melancolia, quella la conosco, un conto è il malumore. Già la parola definisce un disagio che sembra provenire all’equilibrio degli umori dell’antica medicina di Ippocrate e mi pare di dargli troppa importanza se pensa di risiedere altrove che dal cervello. È un sentire transitorio da dipanare e separare da altre cose che hanno acuzia, siano esse fisiche o mentali. Sono sentire che implicano, per affrontarli, l’uso di altre energie e risorse. In fondo per questo malstare, si devono chiarire le cose con sé, e con il divario tra ciò che si vorrebbe e ciò che si è.
Non mi convincono, e non invidio, i satolli, i cinetici, i soddisfatti, li sento in cerca con altri modi d’essere. Vivere senza pelle e’ una scelta, qualcosa che ti ricorda in continuo un’ appartenenza, una condizione. Uscire dai malesseri strani e’ possibile, basta sentire meno, oppure diversamente, ma anche il sentire e’ una droga auto prodotta, come le endorfine, e crea dipendenza. Si può scegliere di disintossicarsi facendo scorza, mutando la percezione in indifferenza, ma bisogna sceglierlo, cambiando il modo di sentire se stessi e gli altri. Difficile.
Il secolo scorso è stato il secolo dei sentimenti, nel senso che il ruolo del sentire è stato valutato come condizione alta dell’uomo. Forse anche sopravvalutato, perché tutto questo sentire non ha impedito eccidi immani e inumani, dislocando il sentimento in sfere che non avevano apparentemente relazione con le atrocità che venivano commesse. Gli aguzzini dei campi di sterminio amavano i loro bambini, in primavera guardavano i prati fioriti, ascoltavano Bach e Beethoven, leggevano Goethe e Rilke, quindi sentire non significa essere buoni, neppure e’ una vaccinazione contro qualcosa, pero’ se diventa una scelta crea domande e le domande possono far male.
Il vantaggio delle domande è che hanno risposte e una risposta sincera, anche se fa male, è una terapia che fa crescere, mutare se stessi di fronte alla realtà che accanto ai disastri mostra positività sorprendenti. Certo queste ultime non bastano, solo che ogni tanto ci sarebbe voglia di riposarsi dalla sequenza di distorsioni dell’umano possibile che portano a un continuo racconto della sofferenza e vedere anche il bello che ci attorniato e che spesso non conosciamo. Non è sostitutivo del vedere la realtà ma unisce la speranza alle scelte. È quello che vorrei nella realtà esterna: una tregua e un cessate il fuoco che duri, che lasci vivere, crescere, trovare soluzioni, dare spazio alle cose semplici e belle, all’amore, alla poesia che vede dentro e oltre.
A noi il tempo che viene, e ognuno trovi le ragioni dell’umore in sé e le sciolga se sono aggrovigliate, ma che la realtà ce lo lasci fare, che basti un analgesico mite.
Ieri c’era il sole limpido e rosso del pomeriggio e un vento di piccole raffiche fredde. Tra l’una e l’altra, l’illusione che si fosse quietata la lama gelida di tramontana. Gli abeti si scuotevano, i larici vibravano perdendo gli ultimi aghi. Immagino, osservassero i mucchi di rametti secchi e di aghi, che erano stati lasciati attorno ai tronchi e ora si disperdevano in colonne e mulinelli.
Di questo inverno strano e parco di neve s’aggirano attorno i ricordi di ciò che si è stati, e nel farlo poi ci si sconsola, attoniti per il risultato, come se il nuovo non si nascondesse nel ripetersi delle abitudini e dei gesti ma mutato, imprevedibile e meraviglioso nel suo risultato. Così pensavo, pasticciando il noi degli affini, augurandomi e desiderando per chi mi è vicino, sia l’abitudine con le sue certezze d’identità come il nuovo che essa produce.
Intanto infornavo il pane.
La sera precedente, c’era ancora luce, guardando dalla finestra, avevo impastato la farina, l’acqua, il lievito.. A lungo e a mio modo, senza la meticolosa minuzia degli appassionati panificatori del web, pensando piuttosto al fare beneaugurante del gesto. Al coincidere tra parola e sostanza che risiede in ciò che poi diverrà intimamente nostro. E non solo nostro perché sarà diviso con altri, l’aggettivo buono lo distaccherà da qualcosa di consueto perché sarà sempre diverso e il nuovo e il buono coincideranno più con la novità che col ricordo.
Cuocere il pane il primo giorno dell’anno e mangiarne nei giorni che seguono appartiene a una continuità che sento beneaugurante. E anche come lo si pensa, con la parola che diviene fare materiale mi sembra un gesto significativo.
Nella laica modalità dello stare assieme a pranzo ci si sceglie, ma è già un dopo l’aver preparato la mente e il desiderio di condividere, quindi non è il fare, ma il desiderio che unisce. Il cibo lo seguirà sapido, soddisfacente il corpo, oltre il necessario. Così la convivialità diviene eccezione e si distacca dagli innumeri pranzi e cene consumati per abitudine, ed è condividere lo stare assieme.
Per analogia il fare il pane il primo giorno dell’anno è per me, un fatto simbolico, che precede ciò che poi avverrà, una sorta di auspicio dell’essere assieme.
Fare il pane è sperimentare il senso del miracolo che avviene nel combinare che trasforma le cose. Mobilitare i lieviti, farli agire con le farine, aspettare i tempi e le temperature che li fanno prosperare, e lasciare che si esprimano nella semplicità del soffice e del bianco dentro un involucro di profumata croccantezza oppure dare un sapore ulteriore con l’olio o i semi. Tutto ha una sua bellezza e ogni volta sorprende.
Per questo mi piace fare il pane e ancor più il primo giorno dell’anno, magari non verrà qualcosa di memorabile, non sarà qualcosa da confrontare con quello del fornaio ma è il fare che continua e si rinnova in gesti antichi, conservando memoria di sé e restando buono per più giorni.
Ci si innamora anche delle metafore per sentire la vita che è sempre nuova e non si dimentica di interpellarci mentre continua.
Non so bene chi sei, e chi può dire davvero di sapere qualcuno? Hai i nomi che mi hai dato, ognuno geloso dì sé oltre l’ apparenza, ma questo era nel conto perché il nostro nome segreto lo doniamo solo a che ci prende davvero in fondo al cuore. Quindi non so chi sei eppure ti scrivo perché c’è del noi quando ci pensiamo. Accade per caso, oppure per intenzione, di pensarti, ma non posso sapere se sei pronto a ricevere il pensiero. Pensarci ci appartiene e se mi chiedo cosa starai facendo, magari immagino e sorrido al pensiero ma so che spesso non ci prendo. Però che accada di pensarci ( magari via distrattamente, direbbe Guccini) ne sono sicuro. Sei la persona con cui vorrei parlare e se lo faccio con la penna, non prendermi per matto.
Volevo parlarti di oggi perché a fine anno mi avevano insegnato a fare bilanci e a trarre insegnamenti, tradurre il tutto in propositi e magari scriverli per poi sentirsi in colpa se non si erano attuati. Da molti anni non lo faccio più e i propositi emergono tutto l’ anno quando mi accorgo che proprio non va. Quando riprendo quella frase che mai mi lascia indifferente: era questa la vita che volevi? In fondo forse sì, anche se le vite immaginate sono sempre differenti e se mi sono approssimato, è stato per strade mai immaginate. E ogni volta ciò che pensavo probabile non accadeva come lo volevo, mentre altro prendeva il suo posto e mi sorprendeva. Quella frase ci chiede del risultato e di dove siamo arrivati ma non dice nulla del presente e del futuro, per questo bisognerebbe mutarla in: è questa la vita che vuoi? È quale vita farai? Per questo penso più agli spropositi che al raddrizzare le cose che ho fatto. Insomma mi perdono e se uso una parola che da queste parti significa qualcosa di negativo e fuori d’ogni ordine non è così che la intendo, sproposito ora è il contrario del programmare, del pensare che dipenda dal mio fare ciò che accade, mentre al più posso approssimarmi, fare ciò che mi pare giusto, ciò che asseconda un desiderio. Insomma liscio il pelo al gatto e il gatto siamo, io e il tempo.
Così mi curo poco degli anni, del loro numero. Credo servano più al calendario che a me. Mi pare ieri che cambiavamo millennio, pensa che ho pure conservato una bottiglia di champagne dello scorso secolo da aprire quando il tempo sarebbe cambiato per davvero. Era una data mitica il 2000, la pensavamo come il realizzarsi di un futuro pieno di meraviglie e totalmente differente da quello in cui eravamo immersi. E invece era solo una continuità, le cose sono cambiate per strada e noi con loro, cosicché la mattina ci si svegliava uguali eppure un po’ differenti. Quello che non cambiava erano i sentimenti, ci siamo sempre innamorati allo stesso modo, abbiamo sempre pensato che non avrebbe avuto fine e se è finito, il dolore è stato iimnane, come sempre. Quindi ho smesso di pensare agli anni e li ho lasciati all’anagrafe. Anche quelli dei calendari sono più una sfida all’ intelligenza che la misura di qualcosa che ci separa da un evento. Pensa a quanto di quell’ evento è stato mutato per strada, reso simile al momento, insomma manipolato per cui ora è più un numero che un inizio. Gli anni hanno questo difetto, ci assomigliano, mentre il tempo è il continuo fluire in cui siamo immersi.
Stamattina sentivo il ghiaccio che si rompeva sotto la neve camminando, e c’era il sole che tracciava ombre lunghe, mi pareva logico che fossero le stagioni a parlare con le vite e che esse contenessero le attese. Le stagioni non deludono, anche con il cambiamento del clima, anche quando fuggiamo altrove perché pare bello essere differenti, esse parlano al nostro corpo. E in fondo è proprio a lui che dovremmo rivolgerci per sentire se è questa la vita che vogliamo, a lui dovremmo sussurrare i desideri, parlare dei limiti e di ciò che non abbiamo esplorato. A lui dovremmo chiedere il possibile e lasciarci stupire, dovremmo fidarci perché ci conosce come nessuno.
Così questo è il mio sproposito che auguro a te che leggi, ovvero di saper ascoltare e parlare con te, di sostituire i giudizi con la fiducia in te, di perseguire i desideri che ti approssimano e di non lesinare su ciò che ti pare giusto.
Non facciamolo domani, ma ogni volta che ci viene.
Arrivi a te i mio desiderio che il tempo per noi sia buono.