Come si dovesse ristabilire un equilibrio, un’ autostima da recuperare appieno, dopo la sconfitta nelle sue varie forme (e l’abbandono o la delusione sono tra queste), appare la rabbia. Chi ci legge, la vede negli atti, la sente nel tono, persino il negoziante straniero la coglie è ci sorride chiedendo e ragione. Una ragione che non c’è perché la rabbia è l’ultimo atto di debolezza, il colpo di coda, già oltre il tempo massimo. Ciò che genera è un gesto che forse scarica la delusione, ma impedisce di guardare avanti con razionalità.
Accade sempre quando c’è passione, si rompono le amicizie per questo. Forse perché le cose in cui crediamo portano con sé una carica emotiva, amorosa che le fa sentire come estensione di noi e quindi intangibili. Comunque sia, in amore, politica, vita quotidiana, la tentazione di rompere il giocattolo emerge. E siccome questa tentazione è sempre prossima nelle passioni, meglio fermarsi e capire prima dell’irreparabile. Ciò che diviene insopportabile è quasi sempre un bersaglio fittizio e neppure collegato alla ragione profonda del proprio disagio. Allora vale il rifiuto della rabbia, meglio gettarla nella fornace della prossima volta, nella certezza che nulla si conclude mai davvero e che il futuro sarà non una rivincita, ma un dar ragione alla ragione.
Guardando avanti c’è comunque una risposta dovuta : dove abbiamo sbagliato? E se pure non emerge l’errore, qualcosa che ha condotto le cose in una direzione diversa dalla nostra volontà c’è stato. Anche se fortuna e fato conducevano le linee del destino a quell’esito, almeno il non aver compreso a tempo ciò che accadeva, sarà stata pur stata un non vedere. Non penso ci sia colpa in tutto ciò, quando si vive si è miopi. Riesaminare, con la giusta distanza, è piuttosto la necessità di guardare in noi prima che all’altro, perché se ci piace vivere, con noi facciamo sintesi. E il nostro sarà un perenne confronto, un imparare che non apprende abbastanza, che ci condurrà in una mischia o in una relazione guidati da un sentimento che ci procura energia da spendere.
Nulla di più fallace dal punto di vista della razionalità. Nulla di più bello dal punto di vista del vivere.
C’è sempre del buono nell’errore ed estrarlo prima che si aggiunga errore a errore è un amaro che fa bene. L’in cauda venenum come agire, sperimenta l’impotenza del rancore: è un pasto che non soddisfa mai
Ho parlato a lungo dell’amore, forse era solitudine, ancora sconosciuta, che scavava il senso alle parole. Era così arcigna e acuta, vetta ancora non scalata appieno, e nel bosco confuso in cui si cresceva, persino le foglie incerte dell’autunno ne avevano timore. Eppure era lo stesso lasciare incontrando il nuovo, era volo e terra e di nuovo volo, ma con altra compagnia e senza il sole dell’estate a tracciar profili e attese. Mancava lo spingere scherzoso della primavera, l’osare dei germogli, l’umore scivoloso e dolce che spingeva allegro lo sbocciare. Staccarsi, volare, capire ed essere molti restando un sé concluso. Cosa non dappoco, eppure in questa nuova follia l’imprevisto, l’incontro era il nuovo, che interrogava il sole Lo stesso che chiedeva di riscaldar l’inverno.
Ho mani grandi, hanno appreso la leggerezza, per contenere e prendere, i polsi sono a volte fragili, e non tutti i pesi indifferenti specie quelli della mente, che debordano, sguaiati.
Mio padre aveva mani forti, precise, ad ogni giorno adatte, parlava il necessario, amava senza dirlo troppo. Mia madre era attenta e delicata, le mani eran belle e morbide, avrebbero potuto costruire orologi e farli scorrere senza faticare il tempo. Non lesinava in nulla, il suo bene tracimava, lo si sentiva nell’abbraccio, nella parola che nell’inverno non temeva di fiorire. Mia nonna aveva mani magre, avezze al lavoro e alle carezze, sapeva percorrere la mia guancia con cura leggera, la stessa con cui aveva percorso il mondo. Collocava le parole nel suono come fossero figurine Liebig, mostravano il contenuto necessario al sogno.
Nella febbre la mia fronte veniva rinfrescata, nelle prime lettere, il pennino è stato sostenuto e accompagnato, e dopo un giorno di corse e giochi, il sudore e la polvere, lavati.
Nelle mani c’è il compendio dell’amore, la sua passione, l’intelligenza, la cura innata, il sapere, la parola da tenere a mente, la frattura che si ricompone, il pianto deterso e spento. Se il tempo s’unisce è in una carezza che nel profondo nostro universo non ha timore di generare un sole.
C’è differenza tra vivere e lasciarsi vivere. Lo dici mentre cerchiamo un luogo dove fermarci per uscire dal rumore e dal freddo. La città di mattina si muove a fiotti, come le tue parole, che spiegano, si gonfiano finché parli e sembrano scavare a ondate, con furia che si ferma indecisa e poi riparte. Infatti esiti a volte, usi quelle forme che servono a prendere fiato, i come dire. Mi pare che tu stia cercando più a fondo. Così, mi pare, frasi dubitative… Mi pare.
Si parla e si riflette sul vivere. E si cammina. Sul serio e metaforicamente, dico, che è vero che le nostre vite non sono solo storie. Dopo le leggiamo così. E a volte anche finché sono in corso, quando si deve occultare qualcosa. Relativizzare. Mai nello stesso momento in cui, con precisione millimetrica, ciò che sentiamo accade. Talvolta si immaginano le evoluzioni delle vite, anche un fine , ma appena dopo i fatti. E se si è aperti a ciò che c’accade, la storia va ancor più per suo conto, ne siamo immersi. E’ una strada intrapresa, una direzione da assecondare con lievi movimenti di guida. Un obiettivo intermedio che consegna alla nebbia una destinazione non determinata.
Ti ricordi Ulrich, l’uomo senza qualità? Mi dici. Ad un certo punto, spiega che vorrebbe vivere come un opera letteraria, con una vita che si svolge e si interpreta, senza tempi inutili, per vivere di più? Poi se lo osserviamo, leggendolo, di Ulrich, si colgono le abitudini, l’amante, gli obblighi di un incarico da portare innanzi, molta quotidianità, insomma. Ecco, credo che il pensiero di trasformare la vita in racconto lo facciano tutti quelli che leggono molto. Forse anche quelli che scrivono. Meno i pittori o i fotografi che hanno bisogno del reale per farsene attraversare e sentirlo. Anche chi ama solo il piacere è così. O magari ne dipende solo quando emerge la pulsione e la sua soddisfazione diventa più forte di un fine che la comprenda, e poi tutto torna nei ranghi. I lettori invece, confrontano le storie che leggono con la propria, si riconoscono nelle parole, nelle situazioni, nei personaggi. Cercano la realtà che per loro coincide con la verità. In fondo avere a disposizione tante vite vissute aiuta a verificare la propria. Costruirla. Riconoscerla. L’analista dice che quelli che procedono a questo modo non si vedono sino in fondo, scelgono un modo di interpretarsi e basta.
Adesso si tace, ciascuno per suo conto, la vita attorno è più svelta di noi. Essere seduti fa scendere i pensieri lungo il corpo. Cambio discorso. Hai mai osservato, ti dico, che se guardi una bella donna in piedi lo sguardo e l’attrazione sono rapidi, uno scatto d’occhi e sensazioni. Senti che ti prende e cerchi un senso d’insieme come in una fotografia. Da seduti, la stessa donna diviene più morbida, procede per somma di attrazioni, ti soffermi sul viso, sul corpo, assorbi la bellezza lentamente, aggiungi pennellate, e lasci lavorare i sensi in modo calmo e intenso.
Non abbocchi.
Quando non si sa che fare si accavallano le gambe. Lo faccio con frequenza. Ci sarebbe bisogno di silenzio e invece tutt’attorno ci sono rumori che mostrano le vite altrui. Cose che si muovono o stanno ferme, il fare, le identità, tutte storie che si svolgono per loro conto. Un’immensa biblioteca di caratteri, di segni di cui non resterà traccia comune. La raccolta delle vite avviene in silenzio e si confina in cerchie ristrette. Di parole scambiate e sensazioni che restano, vibrazioni che si disperdono portando altrove energia. Il voler bene resta, ed è la propria storia mescolata per buona parte con la storia di qualcun altro. Abbiamo paura a legarci nel profondo, troppo invasivo, siamo troppo nudi nello stare assieme, non è per questo che attrae il piacere che mette assieme sensazioni che poi si spengono e ricominciano finché si può? Mi chiedo se sia questo il principio di piacere. Intanto hai ripreso a parlare, m’ero distratto un po’ troppo.
L’analista sostiene che vivo in modo letterario. Lo dici guardando le persone attorno, non me. Dice che quando gli racconto qualcosa seguo una trama e questo lo fa sentire in superficie. Credo semplicemente che sia in difficoltà perché le storie raccontate e vissute non lasciano troppi margini. Sono conseguenti, già decrittate, e io ho un rapporto particolare con i ricordi e il presente, questo lo so, ma davvero non saprei come vivere diversamente. Non si può essere diversi da ciò che si è, se ci si racconta la verità. Ossia lo si può essere per costrizione, per convenienza, ma che vite sono in definitiva, vite d’altri vissute nostro tramite.
Magari viviamo tutti in modo letterario, ti dico, o forse chi consideriamo notevole vive così. E magari letterario significa avere un filo, una trama che conduce le cose. E poi non è così per tutti? Conosco così poco degli altri tanto che adesso mi pare di non conoscere nulla di me. Più si procede e meno certezze restano. Vengono a galla le sensazioni, i sentimenti, ci si fa guidare da essi, ma se appena guardiamo sotto si vede che sono ancorati a principi forti che risalgono a chissà chi. Noi ne siamo portatori e in parte sono nostri davvero. Per questo lasciamo che la confusione galleggi, spuma per pelle e cervello per vivere capendoci qualcosa, sotto è tutto così torbido, c’è solo forza che tiene e si confronta. Bisognerebbe dare un nome alla forza per capire qualcosa. Ma dimmi, tu sai perché il piacere non è storia, perché si smarrisce e mal si ricorda? Ecco, vedi, questo ti dà misura della mia confusione. Sul piacere si orientano le vite e io non so capire cosa significhi davvero. Sembra un ornamento di qualcos’altro che avanza con fatica. Si adoperano piacere e felicità come sinonimi, eppure non lo sono, l’uno si può perseguire, l’altra è una condizione che movimenta tutta la persona. Ma entrambi non durano, però significano molto. Forse quel modo letterario di cui parla il tuo analista è la ricerca della felicità sempre e del piacere a volte, e il modo è una direzione verso cui scrivere la propria vita. Come si può. In balia dell’esterno, del caso e dell’interno con le sue forze oscure. Forse una storia è il tentativo di un ordine.
E forse chi non scrive e si affida, cerca le stesse cose. Lo dici guardandomi. Semplicemente spera la felicità e il piacere, ma lascia fare alla volontà che dura un attimo, alla decisione del momento. E’ un altro modo di vivere, con la storia che si scrive da sola. Hai notato quanti forse abbiamo adoperato? Si capisce poco e quel poco sono i comportamenti di tutti. Ci assomigliamo tutti, ma ciascuno vuole le cose in modo differente. Come dici tu, capisco poco anch’io e se mi guardo dentro ancora meno. Vivere letterariamente significherebbe rispettare un teorema, arrivare a una sintesi filosofica. Cose d’altri tempi, ora è tutto relativo, solo noi in fondo non lo siamo.
Tra i colori, tu pensi il rosso difficile, spesso sguaiato di cuore, da tenere per poche tumultuose occasioni, E invece ti racconto d’aver visto due scarpe allineate sull’ asfalto. Erano strane nel loro ordine, come stessero per andare, eppure stanche, consunte di tempo e abbandonate, ma rosse, come la passione di chi le aveva accese, fatte correre incontro a una speranza, messe in punta di piedi per unire insieme le bocche: l’ una rossa di spavalda accuratezza l’altra, troppo a lungo serrata, nel raccontare le verita del cuore. Di quelle scarpe risaltava l’asfalto, il suo grigio passar d’auto e di storie, eppure ogni ruota rispettava, quel rosso che voleva ancora andare, come si tien da conto un sogno che ancora non s’è sognato.
Ammiro l’ordine tuo rigoroso, lo continui in pareti pastello, nei libri in attesa, ben distinti da quelli già appresi. ti accompagna una scelta corte di cose che attendono il tuo cenno e volere. Ammiro la tua agenda nel tavolo, sola, le caselle con i nomi accennati, gli orari di color lineati, in obesi caratteri, a margine, note. Sono annuncio di appuntamenti già dati, giorni che scorsero e riposano quieti: li penso governati ed amati.
Il mio ordine sparso è luogo di tempeste furiose, di colpe notturne, di bulimiche scritture sconfitte, i libri s’accumulano, le pile si sorreggono mute, rifletto, respingo le ragioni sensate, convivo con geometrie di senso dai desideri create. Non si può chiedere troppo all’ingegno comunque ci è stato donato, e non trovo colpa nell’innamorarsi del volo e dello scavo, nel correre l’insaziabile orizzonte, dischiudere porte, vedere luci mai osate capire, sapere che tutto il poco raggiunto è meno di quanto ci sarebbe bastato. Aggiungere desideri a quelli non ancora esauditi e poi non trovarsi smarrito. Ma nel tuo pensiero mi riposo, riconosco le geometrie del governo delle cose e dei cuori, le penso come le carte di Alice: i battaglioni affiancati della regina di cuori che avanzano lieti e divorano il tempo. Il tuo che ordinato si offre con un piacere che azzurra i pensieri, mentre il mio s’attorciglia e nasconde, d’infinito s’illude esagera, ride, dispera e rispera. Un sasso che s’arrotonda nel flusso, a volte è felice, di tanto inconsistente sentire, e nel curioso conoscere abbandona piccole parti di sé, all’acqua e all’aria senza nulla richiedere. In questa sera che accumula notte e genera stelle mi chiedo se a te accade di donare il tuo ordine lieta di riceve scomposte parole. O forse è nei tuoi sogni che succede di lasciare che l’ordine fugga e come un cane d’autunno possa godere delle foglie in cui rotolare.
Un cane continuamente abbaia. né vicino né lontano, da ore è lui la notte per chi veglia. Instancabile continua, ferma un attimo, per illudere silenzio e cuori, poi ricomincia. Nella solitudine che lo travolge, non c’è mattino, e nessuno lo consola dalle strade. Sente lontano qualche auto, fari che scrutano case, alberi bruni, verde d’erba diaccia, e un branco di betulle sotto la collina. Chi veglia con lui scava nella notte, vede spettri diurni delle cose, funzioni che attendono il mattino. Ma ora sono livide e silenti, attonite nello sguardo che le vede, impudiche si mostrano solo per essere parvenza, forma e cosa. è un attimo, poi la notte abbraccia e sparge nella mente il buio.
In quell’attività dell’anima, ch’è scrutare nel mio specchio, vedo segni del tempo, un lampeggiare d’occhi, i tratti che conosco, ma anche il me che m’è sfuggito.
Allora indugio nei pensieri, le tracciate mappe, i solchi, ricordo e seguo: è lieve il dito e sfiora, ascolta ancora il dire, delle oggettive vanità.
Chi mi vede, scivola su tutto questo, chissà che cerca, ma anch’io mostro l’ardire, d’esser sopra il ripiegar la schiena e tengo per me, e per pochi altri davvero, il senso di quelle strade che costante indago.
Di tanti anni, e ripetuti errori, un po’ per volta m’è uscito il riconoscere (il ricordo è così mutevole e creativo), che a dire ciò ch’è accaduto, solo i segni restano oggettivi. Il pensiero si sospende e più non guarda, sente il sapere che una mano ancora lascia impronte di calore sulla mia.
Ed è un andare, nel guardare ancora, andare in scelta compagnia, andare e restar qui, in cerca di me stesso.
Non c’era motivo o forse non lo percepivo, ma le cose, lentamente, si erano voltate e da baluardo delle giornate, assieme alle abitudini, si erano ribellate. Era il mio modo di vivere e ora si ritorceva, riottoso al ragionare fatuo, manifestava una precisione puntigliosa nel mostrare l’inutile più inutile allo star bene. Cominciava dalle cose che si erano accumulate ed erano instancabili nell’esercitare una richiesta costante di scelta e di ordine. Con la loro presenza, un tempo rassicurante, ora richiamavano incontrovertibili logiche generali che non riguardavano me e il mio piccolo mondo, ma una severa dimensione del potere dell’ordine sulle vite. Dicevano che ciò che era stato benevolmente concesso, il tempo posticipato, non poteva continuare ad essere tale, né ritornare ad una dimensione in cui tutto poteva ancora accadere nella misura del desiderio. Quel mondo si era esaurito, era già stato e ora non più.
Non c’è antidoto alla logica che ci portiamo appresso, solo il rifiuto della fretta del decidere e l’attesa del ristoro del sonno, perché non si deve per forza capire tutto subito, né tanto meno razionalizzarlo sempre. Ciò che non si capisce o non si accetta è comunque un peso, ma almeno lascia spazio al mistero, all’apparente inconciliabilità di ciò che ci accade con il mondo di cui abbiamo notizia. Questa inconciliabilità rende estetico l’ordine personale con la vita e ci fa capire che ci può essere un disordine senza colpa grave a cui si contrappone un ordine senza umanità. La misura del nostro piccolo mondo, della nostra sofferenza e del nostro piacere è un fragile equilibrio ma non per questo, l’una e l’altro sono privi di effetti nelle nostre vite. E bisogna capire che non la felicità ma già lo stare bene, il progetto dello stare bene, include la speranza e quindi una mitigazione forte del razionale che ci indurrebbe a non perdonarci.
Quello che non abbiamo e che sarebbe giusto avere, dovrebbe servire a vivere trovando passione e compassione per noi stessi, per le speranze di cambiamento, per non subire la dittatura della logica della necessità.
L’individualismo di cui ci si ammala, fa perdere il senso della misura. Risponde ad altro. Non è logico e asserve a dipendenze di giudizio. Porta in sé l’aporia dell’indifferenza e del lasciare che gran parte delle cose si facciano per loro conto purché ci sia ordine estetico. La colpa poi le concilierà con il voler determinare tutto ciò che è utile. Possediamo davvero un noi, che apre gli occhi, consente di guardare avanti ed attorno e che libera? Non lo so per davvero perché si è prigionieri di un ragionamento assoluto, l’io elevato a discrimine, socchiude gli occhi e scarta tutto ciò che non è razionale a sé.
La filosofia del momento è la razionalizzazione del pessimismo del vivere, del sapere già cosa accadrà e quindi negare nel profondo un progetto personale aperto alla sorpresa, al disordine della logica. Questo ci rinchiude unicamente nel sé immediato e non consente di posticipare perché presume che tutto finirà presto e che nulla sia davvero solido.
Le cose e ciò che accade, mostrano invece che non siamo un progetto razionale; con i costanti bisogni d’amore, di benessere nostro e di chi ci sta vicino. I bisogni non sono razionali e ci dicono che abbiamo necessità di introdurre la speranza, la fiducia nel corso positivo del nostro mondo.
Questo è un progetto poco ordinato e inclusivo, dove la relazione ha un aspetto sostanziale: noi siamo esternamente ciò con cui vogliamo avere una relazione. Questo implica il dare, e in esso c’è un passaggio che ognuno risolve a suo modo: il dare implica una idea di vantaggio relazionale oppure è un bisogno di equilibrio interiore? Se do perché m’aspetto di ricevere, ho già messo un limite, un giudizio, a ciò che riceverò e questo mi toglierà la speranza, l’inatteso dal vivere. Se invece il dare è “solo” un bisogno di rendere concreto ciò che sento, allora è un’apertura senza oggetto. Corro il rischio di essere solo e quindi di fraintendere ciò mi arriva, di attribuirgli significati impropri. Tutti abbiamo esperienza dell’innamoramento, momento in cui la comunicazione si basa enormemente sul dare, ma sappiamo, poi, che se questo dare non è equilibrato diviene un prendere, un pretendere, e il fraintendimento emerge con tutta la sua carica negativa.
Ciò che penso è che la necessità di un progetto personale implichi dosi molto misurate di razionalità, che la percezione del proprio ignorare sia cosciente e accetti il mistero, ovvero ciò che non si conosce e non si razionalizza. L’imprevisto è l’apparente irrazionale. Penso che la proiezione in avanti di un progetto personale includa il momento, la soddisfazione del desiderio, ma anche il suo divenire e quindi introduca prepotentemente la speranza come filo rosso del vivere.
Ciò che resterà incompiuto non si doveva per forza compiere ma già l’incompiutezza è un percorso che ha aumentato la consapevolezza. Le cose vanno ricondotte al proprio posto con la benevolenza che ci dobbiamo, sapendo che ognuna di esse pretende l’attenzione del ricordo o dell’incompiuto, ma non è solo l’ordine che le riporta a un rapporto interiore, è la loro carica di irrazionale che deve essere espressa, vista e messa da parte. Chi scarta tutto ciò che ha significato e il rischio che lo accompagna, ha paura di essere privato di qualcosa, si consegna al transitorio, alla mera razionalità e alla sua finitezza immediata. Vuol portare a casa subito un ordine interiore che non è suo. Se tutto è destinato a finire si consuma per la propria solitudine.
Ma non è forse questo il presupposto per impedire una risposta positiva al bisogno d’amore?
La mente gioca per suo conto, è un grande pescatore di coincidenze. A volte una frase, una parola, risplendono : sono il tassello che s’incastra nel nostro puzzle di pensieri. Parole semplici, apparentemente prive di forza, banali come l’arancio slavato di questa luce che si fa strada tra nuvole di pioggia. Si sente che quel colore è l’astrazione dell’arancio e in esso realtà e idea di colore coincidono. La parola è ora sapida di significato ed è l’arancio di un dolce a fette, del suo sapore ricordato, è una casa sul canale, un fiore che rifulge disseccato.
La sensazione è che questo accada quando c’è una sospensione del tempo, che genera un equilibrio con una dinamica interna che non ha bisogno di moto, ma connette e comprende a fondo che tra il fuori e il dentro c’è un legame di significato.
Annullare le notizie ed entrare in una realtà che permane, dove il noi coincide. Uscire e sentire il sapore della pioggia calda d’autunno, fermarsi per dare un nome alle cose e assaporarne il sapore, come fosse un’onomatopea che non ha bisogno di rifare un verso. A volte le parole proseguono, nominano le cose come fossero nuove, acquistano ritmo, e suonano di vibrazione esterna. Diventano definitive. In quei momenti le parole scandiscono blocchi di emozione, di significato, che sono una scoperta per noi. Ci pare diventino importanti anche per gli altri e il bisogno di dirle è urgente, ma qualcuno che possa capire.
C’è un entusiasmo della parola, ma non so cosa sia davvero la poesia se non la realtà svelata nell’essenza. I poeti veri, quelli in cui si trovano i pezzi di noi, del nostro mondo interiore, ci fanno sentire disvelati, nudi e parte di un tutto improvvisamente chiaro.
La poesia di cui parlo è personale, accessibile e diffusa, e ci permette di leggere una realtà come libro comune a tutti. La si porta appresso, negli occhi e nelle connessioni neuronali. Sembra corrispondere a qualcosa di più alto e comune, tanto che la posseggono tutti i meno disattenti. Senza dirlo regala piccole felicità e introspezioni verso le cose, che sono un noi lanciato verso ciò che ci circonda.
Non ho opinioni precise di questo sentire, so che ad esso i poeti fanno compagnia, che legano indissolubilmente nel poco il molto e mostrano verità comuni, non importa se allegre o tristi. So che così rispondono affermativamente alle nostre domande. Forse ai poeti, ciò che a noi accade di rado, ovvero sentire che il pensiero e le parole sono un tutt’uno di significato, accade più spesso ed è con semplicità che fanno calare il sole mentre la sera ha lunghe dita intrise d’arancio e blu per toccare le cose, e noi vediamo questo colore nei palazzi, sulle pietre, nella pioggia che dirada, improvvisamente identico al nostro pensiero di sera e di colore.
E questo ci regala un attimo di comunione e d’improvvisa felicità.