aspettative fuorvianti

realtà è anche plurale

sparpagliato cuore

l’età e l’innocenza

primavera a febbraio

Lavava la camicia come s’usava un tempo,

la tela insaponata su se stessa strofinata.

E attorcigliava e risciacquava,

riassumendo attento

mentre parlava con la vita.

Ma non aveva un ruscello a disposizione,

un flusso d’acqua chiara,

solo una bacinella e la rastrelliera

davanti la chiesa dei Cappuccini.

E intanto pioveva a raffiche

mentre lui lavava

immergendo e sbattendo la camicia sulla rastrelliera.

A capo scoperto, cantava

come fosse in chiesa

con parole chiuse in gola,

grumi di vocali buttate

in mezzo a consonanti di saliva.

Cantava strascicando le parole,

per ascoltarne il suono

sotto la pioggia, si fermava,

muto.

E nessuno chiedeva.

dagli ombrelli frettolosi,

dalle paste della domenica,

dai passi sottobraccio.

Il piazzale si vuotava

e per lui già era primavera.

foto d’interno con famiglia

Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere.  In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre un’ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano. 

tempo previsto per oggi domenica…

il buon errare

Come si dovesse ristabilire un equilibrio, un’ autostima da recuperare appieno, dopo  la sconfitta nelle sue varie forme (e l’abbandono o la delusione sono tra queste), appare la rabbia. Chi ci legge, la vede negli atti, la sente nel tono, persino il negoziante straniero la coglie è ci sorride chiedendo e ragione. Una ragione che non c’è perché la rabbia è l’ultimo atto di debolezza, il colpo di coda, già oltre il tempo massimo. Ciò che genera è un gesto che forse scarica la delusione, ma impedisce di guardare avanti con razionalità.

Accade sempre quando c’è passione, si rompono le amicizie per questo. Forse perché le cose in cui crediamo portano con sé una carica emotiva, amorosa che le fa sentire come estensione di noi e quindi intangibili. Comunque sia, in amore, politica, vita quotidiana, la tentazione di rompere il giocattolo emerge. E siccome questa tentazione è sempre prossima nelle passioni, meglio fermarsi e capire prima dell’irreparabile. Ciò che diviene insopportabile è quasi sempre un bersaglio fittizio e neppure collegato alla ragione profonda del proprio disagio. Allora vale il rifiuto della rabbia, meglio gettarla nella fornace della prossima volta, nella certezza che nulla si conclude mai  davvero e che il futuro sarà non una rivincita, ma un dar ragione alla ragione.

Guardando avanti c’è comunque una risposta dovuta : dove abbiamo sbagliato? E se pure non emerge l’errore, qualcosa che ha condotto le cose in una direzione diversa dalla nostra volontà c’è stato. Anche se fortuna e fato conducevano le linee del destino a quell’esito, almeno il non aver compreso a tempo ciò che accadeva, sarà stata pur stata un non vedere. Non penso ci sia colpa in tutto ciò, quando si vive si è miopi. Riesaminare, con la giusta distanza, è piuttosto la necessità di guardare in noi prima che all’altro, perché se ci piace vivere, con noi facciamo sintesi. E il nostro sarà un perenne confronto, un imparare che non apprende abbastanza, che ci condurrà in una mischia o in una relazione guidati da un sentimento che ci procura energia da spendere.

Nulla di più fallace dal punto di vista della razionalità. Nulla di più bello dal punto di vista del vivere.

C’è sempre del buono nell’errore ed estrarlo prima che si aggiunga errore a errore è un amaro che fa bene. L’in cauda venenum come agire, sperimenta l’impotenza del rancore: è un pasto che non soddisfa mai

fraintendimenti

Ho parlato a lungo dell’amore,
forse era solitudine, ancora sconosciuta, che scavava il senso alle parole.
Era così arcigna e acuta,
vetta ancora non scalata appieno,
e nel bosco confuso in cui si cresceva, persino le foglie incerte dell’autunno
ne avevano timore.
Eppure era lo stesso lasciare
incontrando il nuovo,
era volo e terra e di nuovo volo,
ma con altra compagnia
e senza il sole dell’estate
a tracciar profili e attese.
Mancava lo spingere scherzoso della primavera,
l’osare dei germogli,
l’umore scivoloso e dolce
che spingeva allegro lo sbocciare. Staccarsi, volare, capire
ed essere molti
restando un sé concluso.
Cosa non dappoco,
eppure in questa nuova follia
l’imprevisto, l’incontro era il nuovo,
che interrogava il sole
Lo stesso che chiedeva di riscaldar l’inverno.

una perdita di sé ?

” Davanti a lei c’era il solito viso giovane di Senkichi, ma non aveva il fascino oggettivo che si può provare per il corpo di un uomo al quale ci si comincia ad abituare. No, era un fascino magnetico, sempre più ambiguo, sempre più totalizzante. qualcosa in lui l’aveva rapita e non sapeva se sarebbe riuscita a separarsene. La sua voce, un gesto banale, il suo sorriso, un’abitudine insignificante come la smorfia esitante che faceva ogni volta che accendeva un fiammifero e ne ammirava la fiamma… Non poteva lasciar andare tutte queste cose che, soprattutto da quando avevano iniziato a convivere, si erano incollate al cuore di Taeko come vischio. Se qualcuno le avesse estirpate con la forza, la sua pelle si sarebbe lacerata fino a sanguinare. ”  

Yukio Mishima. La scuola della carne. Feltrinelli

Taeko, la donna, ama e si lascia prendere dal fascino e, man mano, trasforma la presenza dell’amante in vita propria. Appartiene e la sua libertà evolve solo in relazione all’altro finché coincide con l’appartenere. Ma Senkichi non ha lo stesso sentire e ha una libertà che non corrisponde con eguale appartenenza, ha vita propria, e Taeko, mentre dipende sempre di più, lo capisce. Oppone desideri, destino proprio, ma solo nella sua mente, in realtà tutto è a due e vorrebbe un’ attenzione assoluta, essere libera di appartenere ed agire in conseguenza. Non essendo così, si lascia andare all’obbedienza, si conforma agli ordini erotici, modella la sua vita su quello che le viene chiesto, immagina una conclusione comune come libertà condivisa, ma sente che l’altro vive più vite e lei è solo una di queste. Di questo colloquio con l’amato, molto avviene nella sua testa, anche la richiesta di rassicurazione continua per timore della perdita che sarebbe perdita di sé, è implicita. Chiedere troppo potrebbe implicare l’addio. Teme la fine dell’amore come fine propria e il dolore fisico indicibile che ne conseguirebbe, è sul crinale, ha paura, non rompe l’incantesimo e quindi non può andare per proprio conto, deve procedere.

Se qualcuno vuol sapere come va a finire meglio legga il libro, a me interessa capire perché una cultura così differente dalla nostra com’è quella giapponese e in autore così imbevuto di tradizione come Mishima, diventi tanto simile la paura dell’abbandono nei suoi effetti. L’abbandono non ha sempre avuto la stessa fisiologia in occidente, in epoche, anche recenti e attuali, dove le migrazioni sono frequenti, c’è quasi un’inclusione della modalità del lasciarsi nell’ordinato evolvere delle storie amorose. Prima per una necessità che era immanente, dettata dalle cose, ora per una sorta di termine dei vincoli. Per cui è anche strano che questo sentire si sia portato, intatto nel dolore che provoca, nelle vicende di una società come la nostra, più leggera nei contenuti, meno vincolata. Diminuendo i vincoli sociali e religiosi legati al contratto matrimoniale e alle storie amorose era sembrato inizialmente che i sentimenti perdessero incrostazioni, fossero più naturali e liberi, che le storie avessero un evolvere che tralasciava gli assoluti e puntava sulla realtà. Come vi fosse finalmente un primato dell’amore, soprattutto nella sua eguaglianza di sentire e che il resto assumesse man mano la consistenza degli obblighi e della loro soluzione sociale. Invece non è stato così e pur essendo diverse le situazioni in occidente a seconda del contesto nazionale -ciò che è normale in un paese protestante sembra non lo sia in un paese cattolico- l’amore ha evidenziato la difficoltà di essere simmetrico e ha forse accentuato il dolore dell’abbandono. Più libertà ma non eguale, più dolore nell’abbandono, ma non eguale. A ben vedere tutto come prima. Quindi una fisiologia dell’abbandono e del dolore connesso non si è sviluppata. E non parlo delle grandi storie d’amore, ma della quotidianità dell’incontrarsi, amarsi, tenere assieme l’amore, oppure lasciarsi. Che questo accada in ogni cultura, anche se in modi, e credo con intensità differenti, rendono l’abbandono un punto fermo di analisi. A partire dall’abbandono (o dal suo non esserci) si arriva alla tipologia d’amore. E qui, ancora, oriente e occidente si incontrano, l’appartenenza e il sono come tu mi vuoi, è dipendenza, snaturamento del sé. Ma se si chiede a chi percorre questa strada, ci si sente dire che questa libertà consegnata all’altro è prova dell’amore e ancor più è dono assoluto. Piegarsi diviene facile se l’insicurezza di essere amati è alta, eppure in tutte le altre manifestazioni del vivere la vita sembra continuare con gli stessi principi di prima, è solo in quell’ambito che non ci sono più resistenze. Se in una storia non c’è simmetria, qualcuno rincorre perennemente e oscuramente sa che l’abbandono è già compreso nell’inizio, quindi ciò che si vorrebbe, indipendentemente dai sistemi culturali in cui si è nati, è che quel destino fosse rovesciato, che non fosse vero. Così Taeko, immagina evoluzioni cruente e comuni, non riesce a vedere un futuro felice e trasferisce alla passione asimmetrica il compito di far coincidere con un dolore/piacere, il destino comune. Manca un’ ipotesi dell’abbandono come evoluzione della storia amorosa, anche come sintesi di realtà, come passaggio/nascita verso qualcosa di nuovo che sia maggiore perché comprende una crescita. Il dolore come riconquista del reale e di sé, l’amore come qualcosa che mentre segna le vite, le spinge avanti, fa desiderare un nuovo assoluto. Manca questo pezzo nella cultura e quindi ciascuno lo elabora come meglio crede, trova una soluzione oppure implode in ciò che non stato. E questa singolare comunanza rovescia l’analisi: per sapere chi siamo e come saremo amati dovremmo capire perché l’abbandono pesi così tanto in noi come paura assoluta. Anticipo di una solitudine, questa sì assoluta nel nostro vivere, una incompletezza a trovare l’altro e quindi a sentirsi amati per davvero. Manca una educazione ai sentimenti, e questo è così poco naturale da far presupporre che sia un’area lasciata intenzionalmente vuota, come se nell’infelicità degli uomini ci sia un esercizio di potere.