Vorrei parlarvi d’amore,
di quello quieto,
ma anche dell’altro che ustiona e brucia.
Vorrei dire che un passo,
nell’indefinibile infinito, s’è compiuto,
che l’amore è più dolce e maturo
al tempo della paura,
Vorrei dirlo,
e tra le mani giro il fragile vaso
che contiene il sentire,
è porcellana esile, fine,
color rosso cuore,
se la agiti piano si senton le parole pronunciate,
quelle trattenute,
quelle pensate e poi svanite.
Parole che suonano del tintinnio dolce degli amanti,
sperano come mai sarà altrove,
mentre lamentano ogni patita assenza,
termometri veritieri,
nell’aria dolce di primavera.
Nulla dice che qualcosa sia mutato,
che quel passo di speranza già si sia compiuto,
e come in ogni tempo di bufera
si stringono i corpi,
cercando nell’altro l’unica certezza:
l’ esser soli e salvi,
nell’attimo che non rispetta il tempo.
Ma poi il pensiero afferra
e se pur spera,
già, non muta.
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sparpagliato cuore
Anime cadono in vortici a spirale,
tardive foglie,
pacciamature di vite scorse,
mentre il vento affila le sue armi,
spiana il prato, percuote, insinua voci.
L’ironia nell’amore, racconta trame intessute d’aghi di pino,
l’aria leviga intonaci di lucertole e di vuoto,
ha aperto una porta nei fortilizi, sbattuta una finestra,
ma gli ansimi, quelli, sembrano d’umani.
Nel vicolo una bottiglia di plastica giocosa corre,
sbatte con rumori secchi tra gli stretti muri,
è solo vento che pulisce l’aria,
rimette ordine tra vecchie carte, foglie che s’erano nascoste,
e porta pezzi di note, si lascia derubare
di sguardi, di svolazzar di gonne e di cappotti.
Dentro al bar, guardo oltre la vetrina.
Aspetto,
mi parlano e sento parole,
escono, via nel vento,
senza traccia.
Sparpagliato cuore.
esecrare
Ora la violenza del silenzio, della riprovazione, della presenza muta che toglie il sonno al potere cieco.
Ora la consapevolezza che porta l’amore altrove, lo schierarsi senza reticenza e senza passaporto, l’esserci perché non si tollera più la distruzione del presente e del futuro.
Ora la fuga dal servilismo, l’ostentazione muta del diritto violato.
Ora la forza anarchica della risata che confina i potenti nella solitudine del ridicolo.
Non meritano le nostre canzoni, i nostri slogan e allora silenzio, esecrazione. Ogni giorno finché non cambia.
un analgesico mite, per favore
Stasera stavo un po’ così, accade. E quando se ne conosce il motivo non è meno doloroso, ma che fare con quel disagio verso il tempo e ciò che porta con sé ? Francamente a me non piace il malumore, non ci sguazzo dentro neppure quando lo ritengo logico o giusto. Un conto e’ la melancolia, quella la conosco, un conto è il malumore. Già la parola definisce un disagio che sembra provenire all’equilibrio degli umori dell’antica medicina di Ippocrate e mi pare di dargli troppa importanza se pensa di risiedere altrove che dal cervello. È un sentire transitorio da dipanare e separare da altre cose che hanno acuzia, siano esse fisiche o mentali. Sono sentire che implicano, per affrontarli, l’uso di altre energie e risorse. In fondo per questo malstare, si devono chiarire le cose con sé, e con il divario tra ciò che si vorrebbe e ciò che si è.
Non mi convincono, e non invidio, i satolli, i cinetici, i soddisfatti, li sento in cerca con altri modi d’essere. Vivere senza pelle e’ una scelta, qualcosa che ti ricorda in continuo un’ appartenenza, una condizione. Uscire dai malesseri strani e’ possibile, basta sentire meno, oppure diversamente, ma anche il sentire e’ una droga auto prodotta, come le endorfine, e crea dipendenza. Si può scegliere di disintossicarsi facendo scorza, mutando la percezione in indifferenza, ma bisogna sceglierlo, cambiando il modo di sentire se stessi e gli altri. Difficile.
Il secolo scorso è stato il secolo dei sentimenti, nel senso che il ruolo del sentire è stato valutato come condizione alta dell’uomo. Forse anche sopravvalutato, perché tutto questo sentire non ha impedito eccidi immani e inumani, dislocando il sentimento in sfere che non avevano apparentemente relazione con le atrocità che venivano commesse. Gli aguzzini dei campi di sterminio amavano i loro bambini, in primavera guardavano i prati fioriti, ascoltavano Bach e Beethoven, leggevano Goethe e Rilke, quindi sentire non significa essere buoni, neppure e’ una vaccinazione contro qualcosa, pero’ se diventa una scelta crea domande e le domande possono far male.
Il vantaggio delle domande è che hanno risposte e una risposta sincera, anche se fa male, è una terapia che fa crescere, mutare se stessi di fronte alla realtà che accanto ai disastri mostra positività sorprendenti. Certo queste ultime non bastano, solo che ogni tanto ci sarebbe voglia di riposarsi dalla sequenza di distorsioni dell’umano possibile che portano a un continuo racconto della sofferenza e vedere anche il bello che ci attorniato e che spesso non conosciamo. Non è sostitutivo del vedere la realtà ma unisce la speranza alle scelte. È quello che vorrei nella realtà esterna: una tregua e un cessate il fuoco che duri, che lasci vivere, crescere, trovare soluzioni, dare spazio alle cose semplici e belle, all’amore, alla poesia che vede dentro e oltre.
A noi il tempo che viene, e ognuno trovi le ragioni dell’umore in sé e le sciolga se sono aggrovigliate, ma che la realtà ce lo lasci fare, che basti un analgesico mite.
foto d’interno con famiglia
Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere. In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre un’ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano.
Edifici dismessi: la tipografia
La macchina è un corpo piegato,
sinuoso nello spazio ristretto,
funziona nella sera, sola, gioca in curve veloci, pagine e dorsi.
Oltre è buio e silenzio,
attendono le pile, i pallets pronti ad essere inforcati,
sono libri or fuor d’interesse.
Un’altra sera, eravamo in due,
si sentivano i passi,
rimbalzavano su scaffali e soffitti,
su tubi d’aspirazione, sulle condotte colorate di rosso e di blu,
sui fasci di cavi e sulle macchine ferme.
Nel disfarsi d’un progetto ci sono catene d’eventi,
e i muri ricordano tutto,
le macchine una ad una si fermano,
le dita e le voci non accarezzano più i quadri di luci,
tutto si spegne un poco per volta.
C’erano cento persone ora trenta eran troppe
e nel rumore dei passi si sentiva l’attesa,
il fermarsi che voleva spiegare,
discutere,
mettere evidenze a compensare gli errori.
Prima che tutto fallisse,
prima che una vita
diventasse indifferente,
nessuno sembrava percepire il tracollo,
governava la speranza a dare un senso all’evolvere.
Questione di soldi, d’interessi, impazienze,
poi sulle macchine la polvere ha iniziato a cadere,
si sono chiusi i portoni
e il freddo ha investito ciò che di silente restava,
Ora dagli alti lucernari, a entrare fatica la luce,
non illumina più, inutile essa, ascolta i passi,
e cerca nel suono che qualcosa muti l’attesa.
Autunno palindromo



Il filare dei platani alza il grigio dei tronchi verso un trionfo giallo e bruno. Le strade dei contadini e dei signori erano piacevoli all’occhio, toglievano il peso dell’andare, almeno per poco. Novembre era un mese in cui i fittavoli che avevano terra e orto e stalla avevano già predisposto i campi per l’inverno e si dedicavano ad avere cibo e attrezzi necessari a superarlo. L’orto dava radicchi, verze, carciofi, cavoli. Le zucche erano scorta come le castagne e la frutta da maturare e seccare. Il maiale, ignaro, ingrassava, come i polli che non avevano notato il destino delle oche, tutti mangiavano in un ciclo in cui nulla veniva gettato. La sofferenza si consumava lentamente, inframmezzata da racconti e giochi, luci fioche, freddo ovunque che non fosse la cucina, la stalla o il letto con lo scaldino. Crescita e vite sempre nel limite della fame e della fatica.
La mezzadria, i patti agrari, il bracciantato sono termini che nessun giovane conosce, quelli della mia età li hanno rimossi. In cinquant’anni un paese agricolo si è trasformato in industriale, poi in generatore di servizi e marchi di moda, adesso non si capisce bene verso cosa vada.
Qualche giorno fa ero in mezzo alla campagna, all’inaugurazione di un impianto fotovoltaico a terra da 2.7 MW, cinque ettari di pannelli. Un tempo ci vivevano due famiglie fatte di nonni, figli, bimbi, anche 40 persone che coltivano grano, vino, orto, pollaio. Crescevano figli, imparavano molto dalle mani, il necessario sui libri, appena grandi sciamavano come uccelli, verso città di cui conoscevano a malapena il nome. Cercar fortuna era un modo di dire che includeva immane fatica, lingua nuova da imparare, usi, costumi, cibo, lettere da scrivere ai vecchi che avevano 40 anni ed erano ancora legati alla terra, alla fatica, agli alberi che erano sul limite del campo, nel fosso. Se c’era fortuna e generosità, un po’ di soldi andavano a casa, per comprare quella terra da stenti, la casa, con l’idea di tornare che troppo spesso passava e diventava racconto.
Non mi piacciono gli impianti fotovoltaici a terra, sono solo soldi senz’anima, che producono energia per alimentare spesso ciò che è superfluo e trascurano il cibo che un tempo nasceva da quella terra. Guardavo, sentivo pezzi di discorso, rumore di bottiglie stappate. Faceva freddo, c’era il vento giusto per il primo raffreddore di stagione. Su due tavoli con tovaglie candide, piatti di salame, pane fresco, vino e pasticcio caldo. Tre camerieri in giacca e grembiule bianco porgevano assaggi. Un quadro incrinato, felliniano e stridente, zuppo di significati e contrasti.
Una classe di ragazzi di un istituto tecnico, faceva folla, interessati al salame e a un lavoro futuro, trattenuti a forza nel presente e meno alla precarietà dei contratti che avrebbero conosciuto. Toccherà sempre ad altri, ma non è così.
Il prete ha parlato a lungo con Genesi e preghiere, la nascita della luce e il fotovoltaico, più stringato e concreto, l’amministratore della società tedesca ha tagliato il nastro. Io pensavo a Olmi e all’albero degli zoccoli e mi parevano fuori posto quei ragazzi, con i vestiti degli studenti di campagna, fatti di strati di felpe da mercatino e calzoni sformati di jeans, con la professoressa giovane, piena di freddo, vestita per altra occasione importante, ma non per quel posto in mezzo ai campi, (calza giusta, vestito di lana a pelle e giubbino da bar del pomeriggio). L’insegnante maschio, invece era incappottato e desideroso di tornare nel caldo di una stanza. Supponente come chi ne ha viste tante, e provate di più, sbuffava scetticismo sulle promesse solenni della politica. Sapeva che da essa e da lui, non sarebbe dipeso quello che quei ragazzi davvero avrebbero potuto fare nella vita. Senso dell’inutile a cinquant’anni, una diversa vecchiaia.
Quei ragazzi erano i nipoti dei fittavoli, poi diventati metal mezzadri e infine artigiani, a loro non era rimasta appiccicata la sofferenza degli avi.
I proprietari dell’impianto avevano scelto le 11 del giorno 11, San Martino, per l’inaugurazione. Chissà che funzioni davvero per questi ragazzi la baggianata delle coincidenze, che porti bene anche se nasce da sistemi di misura inventati da ometti che neppure sanno ordinare bene il mondo in cui vivono.
Intorno c’era la campagna della bassa, così bella d’autunno che (lei si davvero palindroma e insensibile), si poteva leggere in senso inverso e lo diceva a chi ascoltava con gli occhi : io c’ero prima e ci sarò anche poi, voi no.
Mi sono fatto travolgere dal pensiero di ciò che è stato, così immobile di stagioni e fertile di mani, come fosse un pensiero trasversale della terra. Un sistema di numerazione basato sull’11, che accorciava gli anni per seguire il tempo meteorologico che ormai sfuggiva le stagioni e mi faceva sorridere la capacità che abbiamo di entrare ed uscire dal reale pur di far finire quello che ci annoia.
Ero davanti al mare di foglie giallo brune di vite e di platano, immerso nel riflesso dei pannelli e pensavo che qui, in questo luogo, poteva nascere qualsiasi pensiero, qualsiasi idea che poi avrebbe rigato il mondo.
Con l’ultima parola che ancora oscillava dalle casse acustiche, è scattato il rompete le righe ed una folla di mani si è avventata su piatti, forchette e cibo. Il gruppetto dei notabili sorrideva, mentre con i proprietari, si avviava al ristorante.
oggi è San Martino
In questo giorno i carri dei fittavoli e dei mezzadri, se l’annata non era stata soddisfacente, venivano sfrattati e andavano in cerca di una nuova casa sperando in migliore fortuna. Perché di fortuna e non di diritto si trattava e se la mezzadria era già un passo avanti rispetto alla servitù, la vita di quelle persone era consegnata comunque all’indigenza, alla fatica, alla malattia, all’interminabile sequela di disgrazie che accompagnavano la miseria.
Beppe Fenoglio ne parla in un racconto: la malora, cupo come la sorte che si accanisce, ma proprio l’etimo del titolo è sbagliato perché non si trattava di una condizione momentanea, ma di una vita di stenti e di insulti, di angherie che toglieva dignità alla persona. Le vite si chiudevano in silenzi cupi, con scoppi improvvisi di rabbia. E fece scalpore nei primi anni del ‘900 l’ omicidio della contessa Onigo compiuto da parte di uno di questi quasi servi della gleba di fronte all’ennesima angheria subita.
Solo emigrare sembrava dare una alternativa, ma anche in quel caso i pochi che ce la facevano erano accompagnati dai tanti che soccombevano oppure proseguivano altrove vite di stenti. Ebbene queste persone desideravano gli stenti e l’arbitrio di casa quando furono in guerra. Perché è bene ricordarlo, la guerra fu soprattutto di contadini contro altri contadini. Persone che guardavano il terreno e ne vedevano i pregi e i difetti oltre a scavarlo di trincee. Persone che conoscevano i nomi delle piante, ed erano in grado di usare gli attrezzi e di farli. Persone messe assieme in una accettazione del destino che sempre investe chi non si ribella, ma che pensavano ai campi e ai lavori da fare a casa, alla miseria che cresceva finché loro erano al fronte.
Le lettere dei soldati dovrebbero essere lette e spiegate ai ragazzi nelle scuole. Credo che non sia rimasta alcuna percezione di cosa avvenne e quanto esso fu disastroso per le famiglie. Piccole prosperità distrutte assieme alle vite, orfani a non finire accanto a non pochi figli nati fuori dal matrimonio. Tutto venne occultato in una propaganda che parlava di santità della guerra e di una sua giustizia che non c’era e non ci poteva essere.
Penso ai comandanti e ai non tanti di essi che vedevano gli uomini prima dei soldati, alla razionalità, anche nel combattere, contrapposta al puntiglio; erano ufficiali in minoranza che ragionavano di fronte all’inutilità di posizioni da raggiungere e abbandonare subito dopo, che obiettavano nella pianificazione di attacchi fatti di ondate dove gli ultimi dovevano camminare sui morti che li avevano preceduti. Cosa avranno pensato nel giorno di san Martino quei contadini già immersi nel freddo, nella paura di un ordine.
Ungaretti si guarda attorno e usa le parole scabre e definitive della poesia.
Eppure, lo dico per esperienza, se andate a san Martino del Carso non c’è traccia di queste persone. Se andate sulle doline del san Michele, non c’è la presenza di queste vite. Ci sono i monumenti, lacerti di trincea, ma non gli uomini, o meglio non la loro umanità.
Ai ragazzi di adesso cosa viene trasmesso di quanto accaduto in quei luoghi, come si riesce a far parlare le vite per non disperderle nel nulla? Credo che l’identità di un popolo sia fatta non tanto della storia, ma della sua umanità. Che se dovessi parlare in una scuola a dei ragazzi delle medie direi loro della sofferenza del non avere identità, dignità. Gli racconterei non dei generali, quelli verrebbero dopo, nella sequela infinita di errori, ma di cosa pensavano e scrivevano quelle persone a casa, perché noi siamo cresciuti sulle loro vite. Gli direi che molti di loro conoscevano la famiglia e la fatica e molto meno l’Italia e che essere liberi, poter scegliere, era un privilegio.
E partirei da san Martino e dai traslochi per dire che un tempo la stragrande maggioranza di chi lavorava la terra e quindi del Paese, era precaria, ma che ci fu un momento in cui anche questa precarietà sembrò una felicità perché le stesse persone stavano peggio. E che san Martino era un militare che tagliò il mantello per darne metà a una persona che non aveva nulla. Era un militare che capiva la miseria e rispettava la dignità.
Sì partirei da questo.
Buon san Martino a tutti.
quelli che









Ci sono quelli che non si voltano mai indietro. Hanno una grande coscienza di sé, lasciano uomini e cose e pensano al nuovo. Altri, più incoscienti, sono incollati alla propria storia, l’hanno ficcata dentro uno zaino che è diventato pesantissimo. Pensano di conoscerne a memoria il contenuto e così ci guardano di rado. Ma se lo facessero scoprirebbero cose interessanti. In compenso lo portano in giro rassicurati dal ricordo e dai fili che sembrano tener aperte comunicazioni. Dall’altra parte dei fili ci sono esigenze ormai spente, oppure altre che non s’accontentano. Intendimenti diversi che si erano incontrati. Ora che resta? Per fortuna pesi diversi.
Qual è il limite di peso consentito per volare davvero con la mente e la fantasia? E quale è il peso tollerabile del vivere se in un momento di quiete, oppure di passione, venisse voglia di andare e basta. Di togliere senso al tempo non proprio e camminare? Si sarebbe fatta la pace con ciò che non è accaduto, e vuotato lo zaino, riprenderebbe la storia dall’incipit evitando quelle noiose prefazioni che spiegano tutto e tolgono gusto. Capire il limite del passato non è accontentarsi e neppure farsi una ragione.
Nell’adattarsi il corpo si piega e si chiude, lo si vede nella postura che a volte si ribella; soccorrerebbe allora l’immagine del risveglio felino, che si stira e si guarda attorno stupito. Per un attimo, solo per un attimo, prima di una nuova mobile indifferenza.
singolare e plurale
Singolare e plurale,
continuità che sciolgono gomitoli di fato,
eppure ognuna resta a suo modo eguale.
Segno d’un armistizio che sa,
quali strade frequentare,
o le abitudini ch’è fatica lasciare.
Nella luce da est, già alle 7 di mattina, le auto erano scaglie variopinte d’un serpente che si muoveva poco e, in attesa di mordere qualche metro, s’attorcigliava nella libertà negata, con i suoi pari in amplessi irosi e pieni di rabbia. Salito in auto, avevo fatto i 100 metri fino all’incrocio e non mi muovevo. Ho guardato lo smartphone, ascoltato la radio, ma restavo senza possibilità d’immissione. A destra e a sinistra si stendeva una linea d’auto priva di soluzione di continuità. I paraurti si baciavano secondo un kama sutra meccanico, fatto d’impazienza e privo di piacere. Nessuno dava nulla a nessuno per cortesia, dovendo girare a sinistra, ho voltato a destra, nella corsia libera. Le strade che si conoscono dalle gite al mare potevano servire alla meta ed erano pure più belle, immerse nella pioggia e nella campagna. Muoversi per parallele e per tratti ortogonali o sghembi muoveva le labbra al sorriso di chi ne sa una più degli altri. Ho fatto 7 chilometri, ho cambiato comune godendo della vista di ville antiche e nuove case, le seconde molte e mai viste, le prime restaurate per nuovi usi. Qualche capannone industriale con giardino davanti, auto che venivano in senso contrario e con cui ci si sfiorava su una strada fatta per la quiete agricola. Sono arrivato alla provinciale parallela e ancora, ma diversa per protagonisti, c’era una linea d’auto, furgoni e camion, senza soluzione di continuità che si stendeva nelle due direzioni. Dovevo girare a sinistra, ho girato a destra e mentre guardavo avanti vedevo che i paraurti si baciavano e ogni tanto c’era un piccolo sussulto che apriva una speranza subito spenta. Altri 7 kilometri nella direzione che sembrava allontanarmi dall’obiettivo e la coda non finiva. Si sentiva nell’aria un pensiero ronzante, cattivo ormai, che centinaia di teste riepilogavano nelle scuse per i ritardi agli appuntamenti, al lavoro, agli impegni. Tutti si lamentavano, si vedeva nei volti tesi e nel muoversi di labbra, perché altri avevano fatto la loro scelta, perché tutti andavano in auto ovunque, perché le strada erano comunque insufficienti, perché il mezzo pubblico non era un’ alternativa, perché pioveva. Se un drone con telecamera si fosse levato avrebbe visto la statale intasata e ferma, le provinciali che tentavano di entrare in essa e non ci riuscivano. Avrebbe testimoniato l’accumularsi di strisce di mezzi impotenti, di rotatorie piene d’auto come nodi di una corda ormai frusta e rabberciata. Tutto questo in entrambi i lati della statale che attraversava un corpo di case e di terreni soffocati nei gas di scarico e nelle imprecazioni.
Nel mio lato c’era la libertà di andare verso i luoghi di provenienza di quelle auto e il traffico era minimo e scorrevole, così sono arrivato a un semaforo che interrompeva il muro d’auto e ho girato finalmente a sinistra. La strada era d’altre necessità, stretta, lungo un canale senza argini né protezioni, ma era frequentata solo da quelli che avevano avuto altre mete e altre code in passato.
Sono ritornati ricordi d’estate a notte, con il corpo che ancora emanava sale e profumo di pelle accaldata, gli occhi arrossati e la stanchezza bella di un giorno di mare. I chilometri intanto si accumulavano ma mi avvicinavo alla metà. Alla fine avevo aggiunto 10 chilometri alla distanza ma all’orario prefissato ero all’appuntamento che è poi durato 15 minuti. Le ore tra andata e ritorno, hanno maturato il pensiero che un premio me lo meritavo e l’ho riscosso in pasticceria, non era vicina ma eccellente. Poi il ritorno in una strada ormai svuotata, erano le 10.30 e ho pensato che è così ogni giorno. Se piove è peggio ma la coda che si allunga per molti chilometri è sempre la stessa, le imprecazioni le stesse, le considerazioni, le stesse. Così la vita si sciupa ma ognuno è solo, vuol restare solo, nella sua scatola di plastica e latta e pensa che la strada sia il problema mentre è solo la conseguenza.

