Potrebbe essere un film di Germi, la partenza è da un centro commerciale. Quelli che si mettono fuori dei caselli autostradali e che hanno tanti negozi dentro oltre al supermercato. Negozi che aprono e chiudono, perché, prima che merce, contengono speranze e illusioni. Chi apre s’indebita, tenta e poi se sbaglia prodotto o c’è la crisi, si mangia tutto e chiude. Così nel centro commerciale le serrande sembrano chiuse per ferie, ma in realtà sono chiuse e basta. Una bocca cariata, ecco cos’è diventato il ventre opimo del nord est. Seduto su una panca, aspetto. E guardo. Entrano uomini con i calzoni corti e i sandali, le donne hanno vestiti leggeri e trasparenti, caricano i carrelli di offerte. Si avvicinano alla cassa, tolgono qualcosa, poi dell’altro, tacitano i bambini che protestano. Promettono. Poi escono. Dietro alla mia panca c’è un bar pizza e coca cola, ma nessuno mangia e le ragazze puliscono i tavolini per ingannare il tempo. Fuori fa finalmente caldo. L’autostrada era meno affollata del solito, il parcheggio è quasi mezzo pieno. Fa speranza dirlo, ma con gli occhi bisogna pur vedere che c’è ripresa. Di cosa? Cosa riprenderà? Conosco bene le zone industriali che non si fermavano mai, qui ci sono ancora molte imprese, tra qualche capannone vuoto, ma adesso sono ferme. E’ agosto. Speriamo su settembre, così m’hanno detto. Quando cala il lavoro, spariscono i sogni. Era un sogno, abbiamo sognato tutti, ma poi ci siamo svegliati. Qui c’era benessere e piena occupazione, adesso no e allora comprano il necessario al supermercato e scelgono le marche e i costi più bassi.
Attraverso il piazzale, entro in un altro edificio commerciale, qui c’è anche una palestra per fare free climbing, ci sono ragazzi che arrivano con la loro borsa, si mettono la tuta, e cominciano ad arrampicare. Ci sono anche ragazze che arrampicano, snelle nelle loro tutine, si parlano finché sono in parete, scherzano, ridono. Sotto c’è un bar, ma siamo solo noi a consumare. I ragazzi vengono, arrampicano, si rivestono e ripartono. A fianco del bar c’è un negozio specializzato in attrezzature e alimenti dietetici da palestra. Qualcuno entra, guarda i bottiglioni, poi saluta ed esce. E’ importante essere educati sempre. Noi intanto parliamo, diciamo, prevediamo. Troviamo un accordo, ci salutiamo. Ognuno va verso un punto cardinale diverso. Punto ad ovest. Fa caldo e me lo godo, apro il finestrino. E’ mezzo pomeriggio, il piazzale è ancora mezzo pieno. Comincio una sequenza di strade statali e provinciali. Sullo fondo c’è l’azzurro delle prealpi. Azzurri tenui, nostalgia. Quando cammino a lungo in montagna, mi sorprende sempre la distanza che si riesce a fare a piedi:. Si vede una montagna lontana e si comincia a camminare. Poi pian piano si sale e si arriva in cima, si guarda e si vede lontana la pianura, il posto da cui siamo partiti, neppure si scorge. Poi si ridiscende e si torna dov’era rimasta l’auto o la casa, e in mezzo alla stanchezza ogni volta capisco la percezione fasulla che ci portiamo dietro. Distanze, luoghi, oggetti, tutto alterato. Non credo sia solo un mio problema, è proprio che non sappiamo dove saremo, come fa un corpo che porta se stesso a spostarsi così tanto e restare se stesso. A me meraviglia sempre, magari per gli altri è normale.
La pianura è un susseguirsi di alberi ai lati delle strade, case, capannoni, e più dietro campi. La pioggia insistente ha reso tutto verde. Inopinatamente così verde d’agosto quando il giallo e il marrone erano ben presenti. Alla radio, Molesini parla del suo ultimo libro. E’ ambientato al Lido, allo scoppio della prima guerra mondiale, al grand Hotel Excelsior. Mi torna a mente il gran ballo con lo stesso nome, il positivismo, la nascita di tutto quello che oggi conosciamo. Einstein con quattro articoli cambiava la fisica e la percezione del tempo e dello spazio e così ci consegnava in luoghi che ancor oggi non capiamo bene per le loro conseguenze. Freud cercava di dare ordine logico alla mente e alle sue manifestazioni, la pittura, l’arte faceva esplodere la percezione e tutto prendeva il volo o velocità. Su terra, mare, aria. Facile dire adesso, piroscafo, transatlantico, ma allora c’erano ancora navi di legno e vele. Tutto ribolliva e il mondo sembrava un’ immensa femminilità feconda che forniva piacere e nuovi figli. Poi i padri avrebbero sacrificato i figli in un immenso massacro. Ben presenti da queste parti le tracce di allora. Ogni uomo contiene una meraviglia: i suoi anni, bisognerebbe dargli modo di viverli, sia quelli passati che quelli futuri, ma pare sia difficile viverli davvero bene. Anche da giovani. Forse di più da giovani adesso.
Strade, rotatorie, pubblicità, altri centri commerciali, città piccole che per chi ci abita sembrano grandi e minuscole allo stesso tempo. L’attività umana non è solo cose, oggetti costruiti, simboli, denaro, successo con tutti i loro opposti. Attività umana sono anche questi campi di grano ceroso che alimentano la più grande pianura per animali da carne d’Europa, sono questi fossati mal tenuti, i canali, la gora di un mulino che gira una ruota di un ristorante, gli infiniti filari di prosecco che rigano le colline. Attività è il dubbio, l’indecisione tra un amore per il proprio lavoro, la terra, il guadagno, la contraddizione di tutte queste case, villette, giardini e aree industriali che sono ingresso e arrivederci dei paesi.
La strada è quasi una schioppettata e sino a Bassano non ha dubbi. Lì poi dovrà scegliere, o puntare su Trento inerpicandosi per la Valsugana, oppure continuare a lambire i monti per andare a Vicenza e poi a Verona. Altrimenti si sale sull’altopiano, ma questa è un’altra storia. Quelle montagne che erano azzurre ora sono verdi e grigie di rocce, schermano la luce, la ricevono dalle nubi che riflettono. Tutto si corruga, si semplifica e si addensa. I prati, le case, i capitelli, le strade che perdono le intersezioni. Nella mappa dell’andare in quest’arco sotto le prealpi, emana pensiero, cura dell’esistente, stravolgimento, ferita, violenza, riordino, ipotesi mal riuscite e slanci d’ingegno. Poi qualcuno si ricorderà il nome di un ristorante famoso, ma non saprà nulla della gipsoteca del Canova a Possagno, né della bellezza di Feltre, però calzerà scarponi iper tecnologici, senza dolersi di non sapere che da queste parti è nata la stampa a caratteri mobili. Ci saranno evidenze che lo colpiscono, ci passo in mezzo, qui si vende la cultura di un fare antico, sia esso un formaggio o una ceramica, un vino, un assale, un liquore, che qui è nato, anche se poi non sempre viene fatto qui. Però spesso lo è, ci provano. Andrea Molesini parla di un tempo sospeso: è il 28 luglio 1914 e in un grande albergo, la notizia che il mondo entra in guerra dev’essere filtrata, ricondotta alla normalità. Anche qui il tempo è sospeso, pare anche normale lo sia, ma per fortuna non c’è nessuna guerra, solo che non si sa più dove andare. Cosa accadrà. Per questo rallento e guardo attorno, come per apprendere risposte da ciò che mi circonda. E che non dev’essere muto. Sono io che non capisco. Deve pur significare qualcosa tutto questo dimostrare d’essere, costruire, fare, mutare. Ascolto e cerco di recuperare un senso, ricucire uno strappo, trovare un nuovo futuro, ché quello vecchio ormai non ha più risposte. Così penso mentre vado e viene sera.
Camminando, dove non ci sono strade, ci si accorge della semplicità e rarefazione dei simboli rimasti. Le cose perdono ambiguità e ridiventano ciò che sono. Si semplificano, apparentemente, acquistando identità e profondità. Non o che effetto abbia tutto ciò sul corpo, magari qualche neuro scienziato lo spiegherebbe con i flussi, stimoli elettrici e quant’altro, ma sarebbe leggere una mappa, non sentire un territorio. La mia sensazione è che il corpo si accordi e forse da questo -e dalla fatica antica e nuova- si svuota la mente e subentra una serenità legata al luogo. Anche per questo dovrei spegnere il cellulare e casomai raccontare dopo.
Decodificare in continuazione stimoli e simboli affatica, anche se è in automatico. Riempie di semplicità apparenti, perché molti simboli contengono divieti. Lavora la testa e non il corpo. Nella natura, e non occorre che fatichi, le cose per me s’invertono, è il corpo che sente e comunica.
Ho l’impressione che si sia confusa la razionalità con l’intelligenza e l’efficienza con il benessere. Ciò che mi consente di comunicare mi rende più difficile sentire, come agisse costantemente un giudizio di valore che mi dice ciò che è buono e ciò che non lo è, e che tutto questo confliggesse con il piacere, ma per analogia non per esperienza. Una cultura edonista che ghettizza il piacere nel momento in cui lo esibisce in forma di eccessi o lo sottopone a finte virtù, ha ben poco di naturale, al più è un altro sistema di regole che si aggiunge ai precedenti. I limiti, in natura, sono più sinceri. Si può frequentare il pericolo, ma non a lungo perché la natura non lo tollera ed espelle, quindi il cammino è più piacevole , meno adrenalinico. Il corpo ascolta e dice, stabilisce ciò che fa bene. Anche sui pensieri lavora. E quando non libera mostra almeno una strada, e la lascia al nostro arbitrio. Finalmente libero.
Dopo giorni d’inusuale freddo, la magia dell’aria sul corpo nudo al mattino, il leggero aggricciare della pelle prima della carezza del sole, il profumo del caffè appena fatto. C’è la sensazione d’essere vivo nel mondo. E il pensiero si conforma, segue il succedersi del giorno, finalmente libero da vincoli e pareti.
Lo scozzese parla dello Yunan e della Cina. Arrossisce se gli si chiede degli amori e delle donne, dei fatti personali. Sorride e cambia discorso. In Cina credo si trovi bene con la sua riservatezza che volentieri parla di paesaggi, tempo e persone del campus. Si attarda sulle abitudini generali e la bellezza, ma non parla di sé. Così qualcuno si preoccupa di raccontare la sua storia. Molto in inglese e un po’ in italiano. Sono singolari le vite avventurose, una sequenza di fatti particolari, rotture dell’abitudine e dei vincoli che si ripetono tra tempi senza storia. Raccontati sembrano naturali i molti, disparati, mestieri, i 18 mesi sabbatici in giro per il mondo, il naufragio alle Figi dopo 1500 km di mare senza saper bene navigare. Le sciocchezze che si possono raccontare perché c’è un dio che protegge gli avventati prima che diventino avventurosi. Così lo lasciamo in quella barca in metallo incagliata nella barriera corallina di un piccolo atollo e pensiamo che è sempre possibile ricominciare se si è vivi.
La conversazione prosegue e si spezzetta. Parlo di politica con il mio vicino. Abbiamo idee simili, ma lui è molto più radicale di me. Non ha i miei imbarazzi nel capire, le sue idee sono chiare e ne ha ragione professionale. Mi racconta cose che in buona parte conosco, ma con la penetrazione di chi ci lavora. E così la riforma della pubblica amministrazione, si rivela molto meno riforma di quel che sembra, il potere si parcellizza, le cose semplici da fare non si fanno e si continueranno a produrre montagne di inutile carta e pochi controlli. Intanto lo scozzese è arrivato in Cina e lì si ferma. Potere dell’inglese, si può trovare un lettorato in una università e molti studenti che seguono le lezioni, anche se prima nella vita affittavi macchine a Edimburgo. E’ da dieci anni nello Yunan e quando gli parlo di Puccini, Turandot, e di Ping, Pong e Pang, un po’ capisce e un po’ no. Gli spiego e si sorride. Bizzarrie di italiani. La conversazione si spezza e si capannella. Torno a parlare di politica, di analogie autoritarie per quanto sta accadendo. E se quelli che non si preoccupano, che rassicurano, si sbagliassero? Difficile essere indifferenti se capisci cosa accade.
Riemerge l’inglese, i racconti di vite senza posti dove tornare per davvero. Spinte incoercibili ad andare, ad annodare e poi allungare la fune. Penso alla scorsa settimana, quando ero in mezzo alla folla. Mi pareva di sentire un brusio. Mi accade sovente quando non conosco chi mi sta vicino, e non sono le parole, sono le vite che vivono a far rumore. Chissà cosa pensano, mi chiedevo, tra persone che andavano o si fermavano secondo trajettorie sconosciute. Sono sicuro che esiste un dizionario semplice, fatto di poche parole che descrivono ciò che si vuole, ciò che è urgente, ciò che condiziona. Se lo si conoscesse, nella folla non importerebbe la lingua che viene parlata, ma emergerebbe un riconoscersi oltre le storie. Toh, anche tu… e sarebbe quasi un battersi sulle spalle. Così avviene nelle vite avventurose, ci si riconosce al livello necessario. Invece tutti proseguono percorsi propri, apparentemente liberi, immersi in solitudini che vengono scambiate per identità e che confluiscono nel rumore senza suono, nel tentativo di scacciare domande fastidiose.
Così penso e lo scozzese continua a raccontare. Le parole si intrecciano. Faccio fatica a seguire il suo inglese, mi perdo, metto assieme il senso con l’inglese più alla mia portata degli altri. Mi stanca questo capire a tratti, il non avere le parole giuste. Mi distraggo. Penso che attorno a noi il mondo ci parla con segni e linguaggi che non capiamo appieno. Anche se è tutto in italiano. Cosa accade nel mondo e in Italia, ma per davvero, oltre la reticenza e la propaganda. Siamo sull’orlo di una svolta autoritaria, come dice G.? E chi lo capisce davvero? Chi fa la fatica di decodificare senza essere già apocalittico e quindi avere un giudizio preformato. C’è confusione appena fuori. Qui la cena e il vino sono buoni. Siamo in un circolo che si protegge con le parole, con i gesti e le abitudini. Con l’amicizia. Eravamo tutti comunisti al tempo di Bellocchio e la Cina di allora era vicina e comprensibile, ma in altro modo, ora che l’abbiamo in casa, siamo tutti liberali. Anche le nostre storie sono ricche di fatti senza tempo in mezzo. Chissà cos’è successo negli anni silenti che ci pare di non aver vissuto. Lo scozzese tornerà in Cina e noi dove andremo?
Oggi il cielo era così ricco d’azzurro, di grigio scuro e di perla che pensando di parlarti, non avevo parole. E non era quell’intercalare vuoto che oggi si adopera per manifestare uno sconcerto di maniera, ero proprio senza parole. O meglio, mi sembravano tutte imprecise e poco ricche per racchiudere la sensazione. In questi momenti vorrei che le parole avessero la forza delle immagini, quelle fatte dai fotografi che vedono nei particolari un mondo che si disvela e lo mostrano. Così gli occhi passano dalla distrazione alla meraviglia e l’evidenza di un colore, una connessione, una prospettiva riprendono il loro significato di una parte per il tutto. Ma non era di una figura retorica o dell’uso delle parole che ti volevo dire, era invece del sentire, cioè di come si avverte che siamo in un contesto e di come questo sia eccentrico rispetto ai nostri problemi o anche solo ai pensieri che ti avrei voluto raccontare. Come se ciò che non vogliamo vedere avesse una ragione forte in sé, indipendente e indifferente a noi se restiamo con le nostre piccole categorie e urgenze.
Mi guardavo attorno e nessuno aveva la testa verso il cielo, alcuni leggevano il giornale, altri parlavano bevendo caffè e cappuccini, altri ancora andavano verso auto che li avrebbero incolonnati da qualche parte. C’era vita, molta vita, ma singola e senza contesto. Per spiegarti, e avrei spiegato ben poco, dovevo dirti della sensazione che c’è nell’ oscillare tra cecità e vedere a seconda che si sia troppo dentro di sé oppure si esca e ci si guardi dall’esterno. E quando accade di vedersi dentro a un mondo ben più complesso di noi, ciò che è bello colpisce con una sua gentile forza. E’ il particolare che diventa contesto, mondo in cui si è. Credo che questo riguardi anche il comunicare e l’ascoltare in particolare. Ci accade in un concerto, oppure nel dialogo tra chi è molto interessato all’altro: il luogo diventa parte dell’esperienza.
In questa poca capacità di avere le giuste parole capivo perché ho la consapevolezza di non aver mai pensato d’insegnare nulla, ma al più parlato ad alta voce. Capivo che tra la saggezza e la sconsideratezza avevo quasi sempre preferito la seconda perché non aveva l’obbligo di dirsi. E così, anche ora, comunico quel che vedo e sento e il racconto, la trama di esso, è spesso così impalpabile da perdersi in un sussurro. Una sensazione è, a volte, un acuto ben tenuto, altre volte un mormorar di labbra che si scioglie nel silenzio. Così era stamattina, un non dicibile che volevo condividere, che riempiva di profondità e di luce, minacciava e prometteva, era presente eppur distante. Se avessi detto sarebbe stato un parlar del tempo, ma in realtà non era così: eravamo, in molti, immersi nella bellezza eppure non ce ne accorgevamo. Per questo spesso si è soli, troppo soli.
Resterà poco di noi dopo il diluvio di vita, di passioni, di dolori, di gioie sciolte nel quotidiano, smarrite nelle scelte. Abbiamo usato parole così sghembe da far scoppiare ilarità subito dimenticate. I nostri passi hanno preso a calci foglie e sono corsi sulla spiaggia, fatto cose insulse o piccoli eroismi, abbiamo amato senza che ce l’avessero insegnato. E a volte, stupiti, ci siamo soffermati davanti a tramonti colossali, compiuto viaggi assurdi, fatto sciocchezze e rincorso felicità, questo prima del digitale e di racchiudere ciò che eravamo in foto tutte eguali. Abbiamo costruito, dilapidato, sporcato pagine d’inchiostro, imbrattato tele, passato le dita su superfici lisce, prima scabre, e rimpiangendo il bianco, la grana, il lavoro non perfetto, abbiamo sorriso. E quante carezze e baci sono rimasti senza memoria, quante banchine di stazioni, sale di aeroporti, auto prese al volo, partenze difficili, ritorni ancora più difficili perché il cappello dalla testa era scivolato in mano. Quanto di tutto questo è davvero nulla, oppure semplicemente vita? Resterà poco se le esperienze si sono succedute senza mai fermare lo sguardo, se non ci siamo mai detti che il momento era così pieno di futuro da essere per sempre. Rincorrere l’esperienza è cacciare la paura della morte, ma chi più del ricordo la confina davvero dove deve stare? Per questo dovremmo scrivere, dipingere, fare oggetti, oppure raccontare molto di noi a chi ci è vicino.
Di te non conosco che l’adesso, e conoscere è parola davvero pretenziosa, sono attento, ecco, indago per interesse vero, ti faccio ridere, a volte, perché vedo cose che tu non vedi, ma del tuo essere d’un tempo non so nulla o quasi. E com’era l’amore nuovo che hai avuto allora, i palpiti te li ricordi e le tue tenerezze tra silenzi complici e parole sono tutte poi sfumate? Cosa fu il tuo mettere al mondo una vita, dei pensieri e delle paure che n’ è poi stato? Dei tuoi innamoramenti, delle gioie e delle disperazioni cosa resterà, se neppure lo ricordi a te?
Usano un termine che non adopero volentieri, dopo che pubblicitari, politici, persino manager e attori, l’hanno sporcato di non senso: narrazione. Però non ho sinonimi e la narrazione parla di qualcosa che avviene dentro e fuori, che è veduto, ma che non c’è davvero. Non ancora. E’ un mondo possibile, il passato che trasmuta in futuro, poco reale adesso, ma concreto e a portata di mano, e questo spiega la meraviglia che accompagna l’ascolto, il fatto che possa prender vita perché è stato. Qual’è la tua narrazione, intrisa di realtà, che non racconti?
Forse preferivi l’esperienza, la vita reale, ti dicevi che tutto passava in fretta. E’ passato e cos’è rimasto in te? Me lo chiedo perché non ne ho misura, vedo il presente solamente, mentre pezzi lunghi della tua vita, scompaiono anche a te. Com’erano i tuoi trent’anni? e i venti?
Cosa eravamo allora, distanti nelle nostre vite. L’epica dei giorni di furore e le quieti immani. L’abitudine ancora molle da plasmare e gli scarti repentini dell’umore, le tristezze che dilagavano e le alzate d’orgoglio incerto: manca molto all’appello. Racconta di te che resti traccia della vita, bella a te anzitutto. Racconta senza nostalgia d’aver vissuto, racconta e i giorni che verranno saranno nuovi, racconta senza fretta, prenditi tempo e risali assieme a chi ti ascolta. Ci sei tu nella tua vita assieme al mondo. Ricordi come si chiudevano i pensieri d’assoluto? dopo di noi il diluvio ed era così bello pensarlo allora, invece il diluvio non c’ha portati via. E neppure siamo naufragati, siamo finiti molto in là, ma ciò che c’è stato in mezzo non è stato un caso. Per questo ci serve ancora e ci servirà, non è stato un caso e se resta poco di noi il mondo perderà qualcosa. E’ l’era dell’oblio, non l’avevamo mai conosciuta prima, ma restiamo ribelli ancora: ricordiamo per avere futuro.
Entrando nell’edificio, mi colpì l’odore dell’ombra e del legno. Poi la luce soffusa. Veniva dall’alto, ma sembrava ovunque, spalmata sulle pareti, sul pavimento, sulle persone. Fuori un afroamericano, in divisa blu oltremare, puliva meticolosamente pomi d’ottone. Oggetti inutili e belli che nessuno usava: tutti spingevano il battente e il legno di quercia s’era fatto più biondo nei punti di contatto. Prima d’entrare, m’ero goduto mezz’ora di solitudine da Starbucks. Non capire nulla dell’americano smozzicato degli avventori e dei camerieri, lo aveva fatto diventare una nenia di fondo, e così bevevo caffè intingendo muffin al cioccolato, scrivevo, guardavo attorno. I visi avevano storie. Sentivo che imprigionavano case alveare, luoghi, abitudini, mestieri che volevano essere raccontati, ma non uscivano dalla coscienza perché mancava un ascoltatore che non li conoscesse. Così sentivo gli sguardi che si posavano, un pensiero fugace e poi lo scivolare via. E allora immaginavo. Per l’aria sottile di prima mattina, mi sembrava una storia perfetta. Ma cos’era una storia perfetta? Una sensazione descritta in parole che si facevano più precise. Confezionata per essere aperta, e poi ripresa in mano. Depilata, mutata in un erotico emergere di forma essenziale, guardata e riguardata, ascoltata e capita. Un necessario continuo togliere, scoprire dopo aver ricoperto, sino all’osso limite quando il banale scompariva e restava il corpo, la sostanza, il perfetto in sé.
Senza poter parlare il processo era su di me: potevo essere una storia perfetta, come chiunque attorno. Si partiva dal banale, da una decisione che scartava: prima avevo seminato i compagni, la sera ero stato reticente, avevo infine rifiutata la bella compagnia che s’era proposta. Solo. E tutto questo perché c’era una determinazione, un canovaccio già scritto di cui, però, non sapevo cosa sarebbe avvenuto, pur avendone la sensazione positiva. Quell’attendere da Starbucks era un assaporare ciò che ancora non sapevo e ritardavo, e questo lo pensavo rafforzando il futuro immediato con scelte precise: cosa avrei fatto, il tempo che avrei impiegato, dove sarei stato per tenere la magia dell’emozione, il ritorno. E cercavo di scriverlo, scegliendo le parole che descrivessero qualcosa che ancora non c’era. Cioè cercavo di descrivere il nulla che è pieno di presagio, l’attesa non il fatto.
Attraversando la strada, notavo particolari, come dovessi poi ricostruire qualcosa. Di fatto preparavo un racconto per la memoria. Qualcosa che sarebbe rimasto, artificioso e determinato come ogni prodotto della volontà, ma al tempo stesso inerme e fiducioso dello svolgersi. Come in una partita di scacchi avevo i pezzi, cominciavo le mosse, volevo condurre il gioco con geometrica essenzialità, non importava vincere o perdere, l’importante era ciò che ne sarebbe rimasto. Per questo scelsi subito che non avrei visto tutto. Furono tralasciate molte sale, perduti tesori che potevano attendere una improbabile altra visita, le ridussi a quattro o cinque. Il numero fissava un tetto alla sopportazione della bellezza, cercava di esaltarla e così passai non poco tempo davanti a un Monet, seduto su una panca e spesso oscurato dalla schiena e dal sedere di occhi frettolosi. Chiudevo gli occhi e lo vedevo ancora, li riaprivo ed era là. Un atto estetico, inutile e per me sommo: la rinuncia. Mi beai del fatto che la sazietà era venuta prima del previsto e che in quel colore, guardato ripetutamente, potevo vedere la pastosità del farlo, la punta di bianco di un riflesso, cercare di intuire un pensiero che mescolava e semplificava. Come per le parole il pennello si soffermava nella densità per estrarre l’analogia con una forma, l’impressione tradotta in emozione, per poi sostare e vedersi riflesso. Ecco, questo mi sembrava la sintesi, il coincidere tra emozione e rappresentazione.
Tornando al racconto di me, di tutto questo vedere, immaginare, sentire, tenevo il controllo pur lasciandomi andare e travolgere. Pensai, lo ricordo bene, che tenevo il bandolo del filo del mio tempo. E non c’era altro che il sentire senza mediazione e senza qualcuno che avesse spiegato prima, il contesto e cosa notare,vedere, cogliere. Come per un incontro voluto ero inerme e disposto alla meraviglia. E per questo forte. Come una storia, per l’appunto che determina il futuro. Ed è un raccontare senza scopo che trova senso nella gratuità del dire, non nello spiegare o nel far comprendere. Il dire nella sua evidenza, a sé, anche davanti a nessuno.
Ho un appunto di quella mattina, scritto su una panca d’acero prima d’uscire:
L’ombra dopo la luce sul palazzo di fronte, Picasso, Caillebotte e altri, confusi già ora, Monet, la colazione luminosa di Renoir e la camera di Van Gogh ad Arles, una panca perfetta d’acero biondo, la pace di una scelta, poi nuovamente la luce e il silenzio. In mezzo al rumore.
Per arrivare alla sintesi servono moltissime parole, e sensazioni, ma quando si capisce cosa si sente tutto prende il volo e resterà una sola parola.
A Madala c’era un mosaico bellissimo di epoca romana ma scritto in greco, ed era una carta che andava dal Giordano sino al Nilo. Si vedeva un mondo diverso, ancora ricco d’acqua, con città scomparse che disegnavano l’orizzonte. Uomini e navi che percorrevano il mare nostrum dei Romani, e c’erano deserti e carovane dirette ai grandi porti di terra dove le merci venivano scambiate assieme ai racconti. Palmira era uno di questi porti, origine di un regno nel deserto, dove si costruivano templi ed edifici pubblici immensi. Quel mosaico raccontava di popoli scomparsi, civiltà e abilità che cancellate e perdute. Invasioni rapide e di breve durata accanto a conquiste definitive che cambiavano le storie.
Ma cosa ci può essere di definitivo se si guardano i fatti con gli occhi di più vite? Sono mutati dna e popolazioni, la vegetazione è cresciuta o scomparsa, le sorgenti che avevano fatto la fortuna di luoghi, creato divinità e sistemi complessi d’interpretazione del mondo, si sono disseccate. Poi case e strade si sono aggiunte alle strade antiche sopra le macerie di mille assedi e distruzioni. Solo che portavano altrove e così ogni strato è una storia che nessuno ascolta. Come in quel mosaico tratto dalla profondità che l’aveva protetto e messo in una stanzetta di un museo che pareva una casa.
Un secolo fa c’erano 10 case attorno a quella casa e Madala era un villaggio, posato su strati nabatei, persiani, greci, romani, arabi, cristiani. Tutto fu distrutto e spopolato, poi qualcuno tornò dopo molto per poi ricominciare immemore. Chissà che accade oggi a Madala, che è in Siria e c’è la guerra. Chi ho visto sarà scappato, forse anche il mosaico sarà finito altrove o distrutto.
Appena fuori delle case c’era un gregge, il pastore guardava seduto le auto sulla strada di periferia. Plastica e ciuffi di lana sui fili spinati. Chissà cosa c’è ora.