Il caffè con il ginger, in quella casa, veniva fatto con la moka, altrove con la napoletana. Entrambe eredità degli italiani e si vedeva dalle ferite d’uso. La donna, come spesso accadeva in cucina, nascondeva con il corpo il momento della mistura. Il gesto mi ricordava il bar vicino al Senato dove servono quel caffè con una crema di zucchero, mescolandolo dietro un piccolo paravento. I segreti sono ingenui ed eguali dappertutto. Lei non portava il velo in casa, altre mi dicevano di sì, davanti agli stranieri, e nei giorni di festa aveva certe acconciature complicate, i capelli luccicanti e tirati nel burro e poi attorcigliati in serti e treccine. Ovunque c’erano tracce della dominazione italiana, anche sulla tavola, con le gambe squadrate e dipinte di un verdino a olio, pesante nella laccatura, e sul ripiano di marmo, sbrecciato e con un inizio di crepa, così da cucina anni ’30. Tutto pulito, lindo, come le mattonelle di graniglia del pavimento. L’eredità degli italiani erano in realtà, le tracce di una fuga, evidente nell’abbandono di tutte quelle suppellettili, armadi, bauli, mobili pieni di specchietti e alzatine, che ora stazionavano nel mercato coperti da teli a brandelli oppure nei negozi attorno. Negozi? Semi magazzini, senza o con piccole vetrine impolverate, in costruzioni dal tetto piatto, chiusi da una porta malmessa o un cancello di ferro adattato. Molto bui, con corridoi tra cataste di mobili accatastati l’uno sull’altro, e su tutto una lampadina, di piccola luminosità, anch’essa eredità, od uso italiano, di parsimonia d’anteguerra, con raggi che luccicavano gialli sui vetri molati, qua e là lampeggiavano maliziosi sugli specchi, come ammiccassero una seduzione all’acquisto.
Il caffè, servito in tazze piccole o in gottini di vetro, spandeva il profumo misto d’amaro, dolce e piccante della mistura, e si sentiva subito al profumo. Poi molto di più al sapore. Mi dicevano facesse digerire e vista la modesta quantità delle pietanze, mi chiedevo cosa ci fosse da digerire. Forse quel pane schiacciato e molto morbido, l’injera, con cui raccoglievano e si avvoltolavano carni e sughi dello zighinì, uno spezzatino molto piccante. Forse aggiungere piccante a piccante, anestetizzava e tamponava l’interpretazione personale della mistura del berberé. Erbe e peperoncini, messi dappertutto. Forse era proprio il piccante che induceva alla frugalità e dava loro quei bei corpi asciutti, quasi privi di età. Cose a cui abituare in dna: i peperoncini, li avevo visti polverizzare al mercato del Medbar, in un antro da tregenda, con le donne che uscivano dalla luce ocra, delle nuvole di polvere piccante. Loro, tra sacchi di spezia, che parlavano e ridacchiavano nel vedere che dopo essermi appena avvicinato, subito mi ritraevo con gli occhi che bruciavano. A casa, dopo ore, lavando mani e viso, c’era ancora sulla pelle il pizzicare e l’odore di quell’attimo, mentre il sapone si tingeva di riflessi arancioni e rossi.
Insomma non ho capito se vi fosse un’ utilità al matrimonio del caffè con il ginger polverizzato, so che mi piaceva e alla fine la bocca restava pulita.
La scuola aveva due sedi, e si frequentavano entrambe. Quell’anno in autunno, ci furono piogge torrenziali e il rione pellettieri, che attraversavo, era interamente allagato. Parti povere della città, anche quando la città frammischiava le case tra poveri e ricchi, ma lì non c’era traccia di ricchezza, una vecchia villa era un postribolo da poco chiuso, poi, verso il canale un’altra villa, trasformata in clinica, per il resto erano case miserevoli, malsane, appoggiate l’una all’altra, in strade basse che s’ allagavano ad ogni autunno e tra esse, una fabbrica di colori, inchiostri e crema per calzature che provvedeva con i suoi scarichi, a colorare i livelli d’acqua sui muri. Così c’era il diagramma del malstare sempre a disposizione. Capivo poco, ma la miseria era evidente e passandoci in mezzo, entrava dentro come umidità, faceva star male al pensiero. La mia casa era modesta, ma linda e piena di sole, c’era legno e terrazzo veneziano, non pavimenti in terra, i miei vestiti erano ordinati e puliti, mi portavo dietro un profumo di buono, ma passando tra quelle case mi sembrava che ciò che avevo fosse in più, tanto da accelerare il passo, per uscire dall’impressione di pesantezza del vivere loro. Poco dopo l’intero quartiere fu smantellato, gli abitanti deportati in condomini e appartamenti sani, con il bagno, mentre lì, nel pellettieri, i bagni non c’erano e finiva tutto in canale, ma dico deportati perché fu dispersa una cultura, non per loro scelta e i vecchi si intristirono, i ragazzi restarono separati dal resto delle bande giocherellone nostre e ne fecero per loro conto, ma più chiuse e cattive, senza più gioco. Accadeva e noi non sapevamo nulla e così ci godevamo le demolizioni, andavamo a vedere gli affreschi sulle pareti della casa di tolleranza e per completare il giro, chi sapeva, ci portava anche a vedere i mosaici di quell’altra di via santa Agnese. Di tutto quel bisbigliare, ridacchiare, capivo davvero poco, non avevo ancora alcun interesse che fosse esplicito a me, non era ancora tempo, vedevo i nudi, ridacchiavo ed avevo un vago senso di peccato, ma la cosa finiva col parroco al sabato e qualche pateravegloria.
Le due sedi della scuola erano davvero distanti. Per raggiungere quella vicina al Carmine attraversavo mezza città. Camminavo tantissimo in quegli anni, con un’abitudine (che m’è rimasta), connessa ad un senso di gioia, come se le gambe e il loro muoversi avessero un potere di allegria, quindi non mi pesava e tornavo spesso a giocarci il pomeriggio. Un giorno, scavalcando un muro, m’ accorsi di un ciliegio coperto di fiori, dei petali che volavano come neve e divenne evidente l’aria fresca, già piena di umori, che veniva dal canale. Fermai una corsa per dirlo, ma non era già più tempo, i giochi nuovi e non più da bimbi, la scoperta delle cose dette a bassa voce, ormai cancellavano la meraviglia dello stupirci assieme, finì con uno spintone e un canzonare che bruciava, ma che mi permette, oggi,di tenere il ricordo di quel bianco in mezzo alle rovine della città che cresceva. Era l’età in cui nasceva la malinconia e la felicità attesa ed io mica lo sapevo. Il quegli anni quello che era stato seminato in me, spuntava, prendeva forma, e accadeva tutto ciò che poi sarebbe diventato forte. C’era una consapevolezza della spinta a crescere che cambiava vestiti e scarpe, ma soprattutto cambiava i pensieri, ed io i pensieri non volevo farmeli cambiare troppo, ci tenevo alla fantasia, alla meraviglia di quei piccoli giochi appena trascorsi, al fabbricare cose che sembravano altro nella mia testa, come quegli aerei di compensato ritagliati già pregustando il loro volo con i razzi, e il parlare seduti all’ombra sulle cose impossibili, e dell’ultimo film visto e il repentino alzarsi e ricominciando a correre, e le figurine nuove da mostrare, e il concitato sovrapporsi di parole dei litigi, e i silenzi improvvisi. Insomma a tutto questo ci tenevo, pur nel mio crescere impellente, eppure fuori tutto mutava, così trasferivo dall’esterno all’interno quell’essere di prima che non voleva morire, ma non me ne accorgevo.
Alcuni giorni alla settimana li trascorrevo nell’altra scuola. A fianco dell’ingresso, appena oltre al portico, c’era un salumiere di quartiere, con un bancone così alto che mi sembrava un muro. Ed io non ero piccolo, ero il più alto della mia classe. di quella di prima almeno, perché nella nuova c’erano un sacco di ripetenti, perfino uno che aveva fatto il militare. In quella salumeria si entrava durante l’intervallo, si veniva investiti da un odore fatto di cento odori diversi, di pane, di canfora, di mortadella, di spezie, di diluente, di stoffa, di prosciutto cotto, di baccalà, tanto da restare per un attimo sospesi a decifrare, ma era un attimo, poi cominciava l’acquolina e l’attesa, finchè si usciva con un panino fresco, ripieno di tonno e cipolline sbrodolanti e gocciolanti. Gusto. Puro gusto e piacere. Era una novità assoluta: l’intervallo, l’uscita furtiva dalla scuola, il panino, il rientro. Una bricconata da cuore in gola da celebrare come una vittoria, un essere grandi prima del tempo, una libertà, un disporre di sé e del poco denaro raccattato tra mancette e borsette compiacenti. Tutti spiccioli, anche le giornate, solo la vita era davvero piena, colma, traboccante, da passare con la lingua oltre al bordo per non perderne nulla. E invece veniva disperso talmente tanto, scialacquato con allegria il vivere quotidiano che, più che una vita, era una scia di fatti, impressioni forti, flash nel giorno che rischiaravano i visi e sfumavano i contorni, sovraesponevano, ma restava tutto, oh sì che restava. Ci fu un fatto, un incidente, una chiazza di sangue larga, la segatura ad assorbire, come stessero pulendo il pavimento, il corpo portato via subito, l’impressione fortissima, poi il racconto di chi c’era e aveva visto, noi eravamo appena fuori, in cortile, al grido. E nel dire concitato, si sovrapponevano le vanterie dei testimoni, ma un peso che non aveva nome, e avevamo tutti, toglieva ogni enfasi ai discorsi, anche le parole altisonanti si schiacciavano per terra. Il pensiero di casa, di noi, della vita e del suo interrompersi per la prima volta, almeno per me, aveva un valore diverso. Non erano più angioletti, come li chiavano prima, un compagno di giochi, una peritonite, forse, e non c’era più, e ancora, il fatto dove pure noi esploravamo il fiume, uno scoppio, corpi dilaniati, il ripetere in casa che le cose strane non si raccoglievano, che la guerra che non era ancora finita negli oggetti letali, ma allora la morte aveva un altro significato, forse non ne aveva, accadeva, non era una vita a cui veniva tolto il futuro, non lo capivo così prima. Solo nella nuova scuola, in quel fatto, si palesò, nella sua definitività ed era la prima vera percezione, la morte.
Di allora, mi pare tutto eccessivo, un pullulare di contrasti, quiete e fermenti che schizzavano ovunque, continuo a pensare che tutto già c’era, che nella pallina di energia che si era accumulata pochi anni prima qualcosa si stesse srotolando, un refe, rosso, forte che prendeva dentro e attorno, cucendo tutto. L’ho capito allora che contenevo il tempo, non quello dei libri di storia, non quello sequenziale dei doveri, degli obblighi e dell’attesa di un piacere circoscritto, no, contenevo il tempo arruffato e circolare, il mio tempo, quello fatto di una crescita multiforme, di un andare, di un obbligo alla visione che non è microscopio, ma neppure sguardo distratto, un elaborare continuo di stimoli, di sentimenti, di possibilità, piacere che resta, un tempo che solo io avevo e che durava, si rivoltolava in me, urgeva e cresceva, come quelle torte senza lievito che faceva mia mamma, mia nonna, tutti: la torta margherita. Un tempo che abbuffava e soffocava, che faceva tossire per la fretta, e poi si scioglieva e lasciava pasciuti, in attesa di un nuovo essere, anzi dell’essere che si svolgeva. Ecco, lì, mentre nasceva la consapevolezza dell’esistenza della malinconia e della felicità, oscuramente cominciavo a capire che l’essere mio si sarebbe d’ora in poi, svolto, e che io scrivevo il tema.
Nell’era dell’immagine, dei miliardi di fotografie su fb, del digitale che ormai fa tutto da solo, del mostrare come essenza dell’essere, alle mostre, nei palazzi che contengono le mostre, non si possono fare fotografie. Neppure le architetture, gli interni, chi guarda i quadri o le opere, insomma cogliere un particolare e fissarlo è interdetto. Se ci fosse un intento formativo, con messaggi quali:
cercate di vedere con gli occhi e non attraverso uno schermo lcd,
cercate di cogliere il particolare e il senso ed elaboratelo nella vostra testa,
cercate di conservare il ricordo senza procrastinare tutto a immagini che, al più, vedrete una sola volta,
cercate di interagire con quello che vedete e fatevi emozionare perché nessuna tecnologia potrà fare altrettanto.
Fosse così, capirei, ma non è questo il fine. La realtà è molto più becera e si chiama catalogo della mostra, oppure cartoline od ancora gadgets. Insomma la visita a quel piacevole bazar in cui c’è di tutto, dai giocattoli ai foulards, dalla paccottiglia cinese alle riproduzioni e ai falsi d’autore. Un luogo molto colorato, nuovo, al contrario di altre parti dell’edificio, i bagni ad esempio, e che per “caso” si trova vicino alla caffetteria di ogni museo, dove il toast ha il valore e l’età dell’opera d’arte, il caffè è un complemento all’ambiente e le sedie, oltre a essere costose di per sé, merce rara.
Credo che ad una mostra di foto si possa fotografare, che i quadri si possano fotografare, che le persone si possano fotografare. Credo che, se non vi sono impedimenti di natura religiosa, il rispetto e la privacy siano ben altra cosa dall’essere presenti in un’istantanea. Se la tecnologia è un prolungamento della mia testa e del mio occhio perché impedirmi di usarla con rispetto?
Ricordo ancora magnifiche, costosissime, riproduzioni di opere d’arte in bianco e nero, ed il freddo che emanavano, l’anatomia dello studio che se ne coglieva, e che non ravvivava il cuore, la passione. Poi le fotografie dei grandi che pur in bianco e nero, vedevano e comunicavano. L’altro ieri ero ad una mostra di Doisneau a Roma, dove non si poteva fotografare, naturalmente, e tutte le fotografie che vedevo ritraevano persone, dal famoso bacio sino a una serie di foto bellissime di passanti che guardavano un quadro (Renoir?) attraverso una vetrina. A chi mette regole (con quali sanzioni poi?) bisognerebbe farle vedere quelle fotografie, far capire che se si insegna a fotografare si coglie molto di più di quello che si vede, che se si stimola la curiosità, la mostra vale due volte, e che poi si tornerà nel museo, che il libro lo si comprerà per leggerlo. Ma nell’epoca dell’immagine, della mostra in cui si contano gli incassi ben più di come muterà le persone che la visiteranno, questo è solo un fastidio per il bazar finale. Ed è strano perché ciò che può accadere è che il virtuale prevalga, che alla fine ciò che si vende surroghi ciò che si vede, rendendo inutili i musei e le mostre stesse: perché fare una fila se ciò che vedrò lo posso comodamente vedere da casa? La differenza è solo l’emozione, ecco facciamo in modo che lo scatto diventi parte dell’emozione.
Di Aleppo ho un ricordo vivido. Mi sembrava invincibile nel suo essere una stratificazione infinita di umanità senza potere, invincibile come la storia che si legge, si vive, mentre l’altra, quella rombante, si svolge, ma è molto più fragile. Aleppo era solamente bella e così antica da essere intrisa di molte presenze.
Era stata e per questo era viva, non solo ancora viva, ma molto di più: sarebbe rimasta. La città vecchia sotto la cittadella, il suk, l’improvviso risbucare alle stelle dopo le infinite gallerie di botteghe, persone, cose. Il profumo dei fiori, della soda e del sapone, i tappeti che prima di essere colore, sono odore pesante di lana, di mani che hanno annodato, di acqua di torrente che ha lavato. E le lingue che s’intrecciavano, le contrattazioni, il lieve sentore di narghilè, di menta e di mela, i colori dell’oro che ha molti colori oltre al suo, le stoffe impilate in sequenze di sfumature infinite, un asino che attraversava la galleria. E poi, appena fuori, le case, la pietra bianca, il legno, le porte e le finestre istoriate, il sole e il caldo e poi la sera, le luci e il fresco. Ma questo era solo una parte della vita, che si mescolava nei vestiti attillati o nei volti velati delle donne, nella sensazione di identità e tolleranza. Una infinita tolleranza di chi aveva visto infinite guerre e passaggi e poteri che si erano sgretolati, ma avevano rispettato la città, la sua identità, il suo essere tutte le comunità che assieme l’abitavano. Fuori questo si vedeva per consapevolezza e nell’essenza di un commercio levantino che non conosceva religioni e appartenenze, dove il cristiano, il musulmano, l’ebreo, si mescolavano, uniti e differenti.
Appena arrivati in Syria avevo chiesto ad Hassan, la guida che era anche un Imam, di parlare di quanto stava già avvenendo. Era stato evasivo, parlava di torti bilanciati, di propaganda, di un’impotenza della forza a rispondere se non con la forza, ma ad Aleppo si era lasciato andare di più, parlando di malessere, di paura, di preoccupazione per i tempi che sarebbero venuti. Neppure lui, che pure viveva, frequentava chi poteva sapere, immaginava ciò che sarebbe venuto. Da casa, nei mesi successivi, ho conservato quel pensiero che non tutta la verità veniva dai giornali, che non si capiva bene quali erano le richieste, le forze in campo, e pur nella sofferenza che comporta sapere che chi hai conosciuto è in difficoltà, il pensiero era che si sarebbe risolto.
Mai avrei pensato che Aleppo o Damasco o Bosra, o nuovamente Hama, o addirittura Palmira, sarebbero state bombardate, che le distruzioni si sarebbero portate nei patrimoni mondiali dell’umanità, che nulla avrebbe avuto tutela. Ma se parlo dei luoghi è perché penso che essi contengono le persone, che un luogo, un monumento, senza uomini o memoria è nulla, non ha valore in sé. Poi sono venute le notizie, le fotografie, i filmati raccapriccianti e man mano, fuori, è sceso l’interesse, diventava consuetudine, normalità.
I potenti non pensano che il problema debba essere risolto facendo tacere le armi e la vittoria (di chi? per chi?) è stata affidata solo ad esse. Oggi solo i morti, se sono molti, fanno notizia per un giorno, a volte anche meno di qualche ora, ma il resto, cioè quello che dovrebbe provocare l’interesse, la condivisione, la pace, scompare con la notizia.
Il mio pensiero, in questi giorni pieni di colore, di felicità fuggevoli, di parole infinite su un futuro che mai come ora deve tornare nelle mani degli uomini, va a chi soffre in Syria, a quelli che si sentivano sicuri nelle loro case ed ora sono nell’arbitrio, a quelli che ogni giorno vivono perché vivere è più importante e piangono le persone, l’identità, che si smarrisce, ad Hassan e a tutti quelli come lui che mi hanno parlato di pace e di tolleranza, agli abitanti delle città e a quelli che nella campagna non sanno cosa stia accadendo, ma lo vivono con paura e senza speranza. Vorrei che in questa fine d’anno iniziasse, per me, il ricordo che non sono solo per me stesso a questo mondo, che tutto mi riguarda, che se devo attenuare per vivere qui e dove sono, ciò che di atroce avviene in continuazione nei posti più disparati, questo comunque accade e il migliore dei mondi possibili devo (dobbiamo), portarlo fuori da me.
Queste righe sono di Hassan che fa gli auguri qualche giorno fa. Lui fa gli auguri a noi!
Ecco forse il significato di farsi gli auguri è condividere, mettere assieme il legame, ed allora abbiamo bisogno di farci gli auguri tutto l’anno.
ricordo spesso specialmente l’ultima sera ad Aleppo in quel caffe’ a fumare, chissa’ se riusciremo a ripetere quei fantastici viaggi. purtroppo quel caffe’ con una buona parte del suk non c’e’ piu’ solo disastro e cenere, cosi’ come molti siti villaggi e citta’ della Siria, Bosra…………………. ogni volta che ci penso mi metto a piangere, mi dispiace dirlo ma le notizie che vi giungono sono solo una piccola parte, la realtà è molto più terrificante. Grazie al Signore che noi stiamo abbastanza bene e riusciamo ANCORA a trovare qualcosa da mangiare. auguro a te e tutti gli amici un felice Natale e che il nuovo anno porti amore e pace a tutto il mondo
carissimi saluti dal profondo del mio cuore Hassan
Non mi piace partire la domenica pomeriggio, mi sembra un giorno rubato, anche la preparazione è un giorno di festa rubato. Ma accade non di rado, anche se poi passa: partire e’ un lavoro, e resta un lavoro, per questo non si dovrebbe partire la domenica. La sensazione resta finche’ non ci si avvia alla stazione, all’aeroporto. Allora, sono già in viaggio, e mi piace l’idea del viaggiare, non sapere cosa troverò, l’impressione del primo trasbordo, le prime difficoltà facili, la lingua, la registrazione alla concierge, l’ ispezione della stanza dell’albergo, gli asciugamani del bagno (se c’è un bagno), la valigia da aprire, i canali stranieri della tv (se c’è una tv). Mi sento già in una vita diversa e la diversità continuerà fino alla valigia che si rinchiude nuovamente, però si potrà ripetere, finché avrò voglia, forza, spirito di andare.
Ho atteggiamenti diversi nel preparare le valigie, anche se sto diventando essenziale. Me lo dico, disponendo le cose e pensandone l’utilizzo: tolgo, lascio a casa. Il mio obbiettivo è arrivare allo zaino anche per le trasferte formali. Ad ogni inizio del viaggio mi chiedo, se la prossima volta non riuscirò a trovare l’equilibrio perfetto, il bagaglio che ha tutto ed ancora più leggero del precedente. Solo al ritorno vedrò le cose che non sono state usate, che hanno semplicemente viaggiato con me, vorrei vederle prima.
Intanto mi rendo conto che con la previsione della partenza, e’ sparita la settimana, il giorno con le sue abitudini è mutato. Ogni giorno ha sue abitudini, ha abitudini generali buone per tutti i giorni ed abitudini particolari che ti fanno dire: oggi e’ domenica, oppure e’ giovedì. In viaggio quasi tutte queste abitudini scompaiono.
Anche le gratificazioni mutano: ci sono cibi che mangio solo in viaggio, che a casa non compro, i tuc, ad esempio, oppure i biscotti con la cioccolata farcita, o la coca cola di pomeriggio, sono cose che nei rituali giornalieri non ci stanno.
Alcune cose mi seguono sempre, ad esempio, in viaggio ho sempre troppo da leggere. Penso che restare senza lettura sarebbe una sofferenza, per questo mi carico di giornali e libri, ma anche la scrittura fa la sua parte, con la carta, i taccuini, quello in uso ed uno intonso, le penne a inchiostro liquido, una stilo, le matite, come il viaggio durasse molto più di quanto durerà davvero, ci fosse un tempo infinito ed occasioni giuste per stare con me. Poi non accadrà, lo so anche prima di partire, ma è bello pensare che ci sia un tempo infinito per il nuovo e anche per me. Cioè essere io con le mie predilezioni e al tempo stesso cambiato, stupito da ciò che mi accade attorno. Trascurerò le abitudini e sarà un bene, eppoi non metto in conto la stanchezza, ma come per i cibi da viaggio, metto assieme voglie nuove, pagine che a casa farei fatica a leggere, come se il viaggio mi rendesse diverso e più forte.
Non manca mai la macchina fotografica, anzi due, la piccola, che è il mio notes, e la reflex con un paio di obbiettivi. Anche qui bisognerebbe ridurre e in fondo l’ho fatto in questi anni, rispetto al momento in cui avevo troppa attrezzatura con me, adesso c’è un migliore equilibrio tra vedere con gli occhi e con la testa e vedere attraverso il mirino. Non è cosa da poco, altrimenti l’intero viaggio passerà attraverso la macchina fotografica, sarà ridotto da questa. Mi devo ricordare che è un mezzo, che quello che ricordo è molto più importante di quello che si fissa con uno scatto. Diventare multimediale, come del resto siamo tutti fin dalla nascita.
Avrò poche guide, le leggo solo il necessario, per il resto mi piacciono le persone, perdere qualcosa e trovare qualcos’altro che sarebbe sfuggito è il mio ideale del viaggiare.
Penso al bagaglio mentale e materiale e non ho ancora una meta, ma mi serve: il viaggio è sempre più una vita parallela. Lo era anche quando il lavoro mi ha occupato troppo, adesso è un piacere che fatica a diventare tale finché si prepara, ed è una condizione positiva, rafforza l’idea di andare: so che andrò e sarà bello.
In attesa della perfezione d’un recinto, un quadrato di novanta caratteri di larghezza e quaranta cinque righe d’ altezza, torno sui miei passi. Verifico con minuziosa attenzione ciò che non vedo, mi pongo domande urgenti del tipo, ho chiuso il gas? e la porta, ho poi chiuso la porta? Come se dei gesti, delle abitudini, divenissero magia di scongiuro: la sicurezza, il tenere gli affetti, il conservare integro il me, e che per un gesto, di ciò che è, non restasse traccia, perché una vita nuova si fosse rappresa in una fobia che parla d’altro.
Basta scrollare il capo, scavalcare con lo sguardo il momento, per sanare un pentimento e già la vita si ricompone ordinata, come un caleidoscopio in cui, non il disegno ma, il colore diventa importante. (e qui vorrei che le parole cadenzassero, acquistando il ritmo loro di battuta, staccate ed eguali scendessero nella tua, come nella mia mente)
Trattare le paure con paure più piccine,
scomporle in singole perle, fidando che la collana potrà riprendere splendore,
inseguire l’idea che le cose, come le parole, possan divenire scabre;
non definizioni di vocabolario, ma duri pezzi di bambou pronti all’uso d’astuccio.
Fibra che s’addensa. Non fa così la vita? S’addensa,
in qualche sfera che c’appartiene e non si condivide davvero, se non per lucentezza
e preziosità, sapendone difficile il racconto del suono nel rimbalzare, il suo correre veloce, l’essenza di luce e madreperla dura e fragile,
così che un bicchier d’aceto potrebbe dissiparla per farla definitivamente nostra.
E a che servirebbe allora, aver bevuto l’essenza? se tutto si riduce a fisiologia di desideri, scariche di liquidi ed ormoni,
dov’è la preziosità nostra? Lo dico a te, essenza di conoscenza,
che non sai trattenere e dissipi pensando che sia questo il modo di fuggir la morte che t’ impaurisce,
te che non credi d’essere eterna e percorri di corsa ogni parete di stanza.
Non sono le stanze tue, forse ricordi di ciò che non sei? di ciò che vorresti essere e mortifichi
in tratti ben più semplici di vita?
Mi viene in mente che solo gli scolari negligenti non cessano mai d’essere tali e quella sensazione di colpa per non aver appreso a tempo debito, li accompagna e spinge a sapere e mai accontentarsi. Ed al tempo stesso hanno sensazione che la loro inutile fatica riempia le vite, ma dia loro una continuità che ammette l’eterno. Nel finito l’eterno, nella fobia la paura d’altro, nel tornare sui propri passi il sentore di miele amaro che rivede ciò che è stato, ciò che potrebbe essere, ma non ciò che sarà. La fobia e il vivere disordinato, il desiderio d’ordine, di sequenze accoglienti, di punti fermi e bricole a cui attaccare la propria barca e la prigionia d’un mare dove la terra è sempre in vista.
C’era un inizio fulminante, poi il romanzo m’ha condotto altrove, lo so, lo ricordo eppure non sapere cosa sia stato meglio, mi consente d’andare, d’avere altre possibilità, di mescolare la permanenza dei sentimenti con la mutevolezza del vivere.
Così mi sovvien l’eterno andare, e la certezza che porta mia è chiusa, che nulla verrà di me sottratto ch’io non voglia, si riposa nella sensazione di pace del riaprirla.
Nei primi anni di università frequentavoun gruppo di studenti arabi, c’erano palestinesi, iraniani, giordani, qualche siriano. Ci vedevamo a lezione, al bar o in sala studio, si parlava con le ragazze, c’era sempre molto caffè da bere, risate, curiosità reciproca. Erano anni in cui le guerre tra i Paesi Arabi ed Israele si susseguivano, in Iran c’era molta resistenza, cercavamo di capire senza darlo a vedere e per questo parlavamo tutti con generosità di parole, di tutto, ma anche molto di vita quotidiana. Inshallah concludeva tutti i ragionamenti pratici: gli esami, una serata programmata, un approccio possibile con qualche ragazza, l’appuntamento per il cinema.
Non mi rendevo molto conto del valore che c’era dietro a questa parola, m’affascinava il suono, come accade per la lingua araba quando scivola tra le vocali ed addolcisce consonanti. Mi chiedevo come si potesse rallentare una vita fatta di slanci, perché tali erano i loro e quelli della loro storia, temperando il governo delle cose e del tempo, con l’attesa e l’ accettazione di una volontà esterna così forte da essere l’ultima a dire la parola. Sembrava un affidarsi operoso: ho fatto il possibile adesso tocca a te.
I miei amici erano laici, bevevano e mangiavano senza preclusioni, comunque non credenti e come noi spesso agnostici, si parlava di religioni comparate come fenomeno culturale più che come insieme di precetti, eppure inshallah emergeva come modo di vedere prima che intercalare. L’impressione che ne traevo era quella di essere altrove, come venisse aperta d’estate la porta d’ una chiesa ed il fresco che usciva, prendeva, non occorreva credere in qualcosa per star bene, e si capiva benissimo che quello era il logico accompagnare di ogni sereno preannuncio di impresa, di programma futuro.
Pur sentendone il fascino, mi sfuggiva allora questo affidarsi dinamico, lo capii di più in seguito, con gli anni, e con i viaggi. La parola ed il suo significato tornava, mentre si allargava il suo confine e diventava un modo di vedere il mondo. Credo che il probabilmente a cui aderisco quando vado in africa, o l’affidarsi vigile di quando viaggio nei paesi arabi siano il mio modo di aver capito che ci sono posti e regole in cui lasciar fare agli eventi. E che questo è un aiuto al compimento dei progetti. Inshallah così diventa anche il mio intercalare, ed il modo per ritrovare una serenità messa a dura prova dagli orari mancati, dalle deviazioni continue, dagli accidenti che spostano di albergo, di cibo e di tragitto. Non arrivo ancora a pensare che la vita, la salute siano poco da tutelare perché comunque un caso benevolo le difenderà, mi premunisco per quanto possibile, ma dove non arrivo, spero e lascio fare.
Mi viene da pensarlo in queste giornate di terremoto, quando l’imprevisto diviene più forte e la scelta è tra alternative inesistenti: è meglio restare o andare? correre od attendere? Scelgo e mi muovo sperando che sia la scelta giusta. Per me il significato di inshallah è questo, fare con serenità una scelta che presa, non dipende più da noi soli, ma da una miriade di variabili per cui è meglio che la loro somma conduca pressapoco dove dovevamo andare.
Ecco, facciamo, impegnamoci, portiamo noi e il nostro mondo verso qualcosa che ci porti avanti, ci faccia bene e speriamo che tutto vada per il verso giusto.