Una giornata implume, senza creanza, tagliata di forza e di noia, scolpendo il tempo con malavoglia.
Le cose cominciano al mattino, dopo che si è pulito il viso dai sogni della notte.
Con questa consapevolezza scorrono le ore, il dissipare che galleggia come schiuma sulla birra, e necessita il passare attraverso l’inconsistente per giungere al fresco, al frizzante che raschia la gola, al dolce amaro che disseta e placa.
Sulle labbra resta la schiuma,
così è il sapore di questo giorno
ch’è scorza da sfogliare e togliere,
per trovare linfa e tagli dritti di luce,
nuvole e vuoto da colmare.
Villano il tempo a noi
che scorriamo i giorni con sagacia di colore,
mentre è lo scontento che ribolle,
e così si è prigionieri d’un bisogno.
Villano il tempo
nel dire la molla che sospinge,
nel tacere al giudice che, muto, dinega il capo.
Utile sarebbe usare i polpastrelli per modellare pensieri acuminati, ricoprirli d’ironia, farli ridere spesso. Bisognerebbe, sarebbe, si dovrebbe, condizionali pieni di bisogno invece possiedo solo un mantra che mi ripeto tra le ore.
Che sia il giorno per noi efficace.
Che le ore siano senza colpa,
senza traccia,
senza righe per scrivere ordinato,
senza saluti inutili,
senza parole gonfie di vuoto.
Che sia una giornata senza,
scavata di bellezza,
non lo scorrere rozzo,
non questo buttare tutto avanti,
non le mani annegate nella timidezza delle tasche.
Serve al giorno un cuore gentile che alla notte si nega, il coraggio leggero della corsa breve. l’incoscienza della distanza per raggiungere la vita utile a sé.
Per placare la sete bisogna attraversare l’impalpabile diverso.
Per approssimazioni successive di piccole mancanze si arriva alla convinzione che il tempo ha corroso le possibilità. Non molte, ma abbastanza da non poter dire a se stessi che tutto è sempre a disposizione, che basta applicare la volontà, o la fantasia e le cose desiderate accadranno. Non è grave, è solo la coscienza progressiva del limitarsi e del limitare che si aggiunge alla spensieratezza dell’osare il nuovo, il non percorso ancora. Che sia dal corpo o dalla mente, arrivano segnali che la realtà ha una nuova configurazione da scoprire e che essa è disponibile purché si sappia appieno cosa vogliamo e possiamo collocare in essa. Eppure, in questi confini di nebbia ci si sente comunque se stessi, si acquisiscono tempi e abitudini differenti, ma il nocciolo interiore sembra produrre un vedere e sentire nuovo.
Noi, ad un certo punto, scolliniamo e pur mantenendo desideri e pulsioni, ad esse aggiungiamo una incredibile biblioteca di vissuto che attinge a chi è stato prima di noi, che noi stessi abbiamo sviluppato in un continuo mutare, perdere parzialmente, acquisire esperienze e conoscenza, sentire appieno o in distrazione. Da qualche parte è rimasto molto più di quanto pensiamo. La lingua appresa nell’infanzia, gli errori e le correzioni severe, gli sbagli mai confessati, la gioia del sentire per la prima volta e poi il suo ripetersi diverso. Le abitudini nate da un piacere, le frasi apprese, quelle costruite, quelle dimenticate. Guardare dentro è un cercare tra gli scaffali del vissuto, passare le dita sui dorsi, risentire il profumo e la consistenza della materia, ma soprattutto lasciare che le storie si collochino in un insieme che non c’è più materialmente ma ancora vive e vivrà finché ci saremo.
Le memorie hanno sempre un ingresso comune, molto controverso, che chi c’era ha vissuto in modo differente, poi una stanza in cui ci sono materiali confrontabili e in fine un luogo personale dove c’è stata l’emozione, il senso di un vivere e di uno scorrere che non appartiene altri che a noi.
Ho la lingua e l’etimologia dei miei giorni, ma sempre meno persone con cui parlarne. E così parlo e ricordo da solo. Ho le emozioni della crescita, il parlare e il sentire comune a persone che non ci sono più, ma la loro presenza è ancora in non pochi nodi piacevoli al sciogliersi. Avverto che ciò che sta mutando non è più parte di uno scorrere lento che portava a rafforzare la comprensione profonda, che era acquisizione comune, ma sento che sono le parole che hanno mutato il loro significato perché descrivono una realtà differente e che devo imparare nuovi significati, sentire cosa essi producono nell’evolvere e nel raccontare, altrimenti non capirei il mondo. Così la mia casa è un insieme di appreso, provato, immaginato che si muove silente dentro di me e che acquisisce nuove regole del guardare e del sentire. La vita evolve e mentre conserva, desidera, considera al tempo stesso guarda e intuisce che qualcosa si aggiunge. Così si modificano le possibilità concesse, viene cercato un equilibrio che mantenga in buona relazione ciò che è l’essenza del vissuto, con il vivere e cerca di farli convivere perché ci sia nuova vita da vivere con se stessi e con ciò che ci attornia.
Anni fa lessi e vidi di una pratica che in oriente, in questo caso era il Giappone, ma anche in Cina c’erano pensieri analoghi, teneva come ricchezza comune artigiani di mestieri ormai superati dalla serializzazione dei prodotti. Ad essi dava una pensione perché continuassero il loro lavoro, formassero degli apprendisti, continuassero a lavorare e usare tecniche e materiali che altrimenti sarebbero stati perduti. Il sapere connesso al lavoro era una parte del patrimonio comune, della cultura che si era formata nei secoli. Queste persone avevano vite e abitudini non dissimili da quelle del mondo che era mutato, ma in esso portavano innanzi una cultura materiale estesa, che non rientrava nella moda, anzi era la sintesi di processi millenari a cui si aggiungevano nuove conoscenze. Questo riguardava anche pratiche liberali che spaziavano spesso dall’artigianale all’artistico, i copisti di codici, ad esempio, ma che erano anche comprensione di testi e di modalità di agire relazionale altrimenti incomprensibili. Noi pensiamo che la storia comune, basata su grandi avvenimenti, ci esaurisca e ci basti, ma non è così, ogni conoscenza che non viene trasmessa è perduta nella sua evidenza e di essa avremo solo labili tracce in quel fare per abitudine o in quei modi di dire che non dicono più nulla e non provocano alcuna emozione. Quello è lo spegnersi culturale che nel mentre viene sostituito, sotto di sé ha una schiera di persone che si sentono noiose perché hanno visto, sentito, provato altro da ciò che viene ammannito come nuovo ed è invece un artefatto che massifica e riduce molto a una accettazione o negazione.
Mi spiace non parlare la mia lingua madre se non a me stesso, mi spiace vedere cose che non ci sono più, profumi che erano parte di ciò che era il tempo atmosferico, le case, l’acqua, le stagioni. La mia generazione lascerà tracce poco interessanti, labili perché lente, memorie che non insegnano. Una cultura si spegne, era povera e molto materiale, accade in continuazione ovunque nel mondo, ma non consola. Il tempo ha corroso, ciò che si è disperso ora è molecola nell’aria.
Mi racconti il tuo limite al credere. Le candeline accese, la piccola preghiera, poi via, fuori dai luoghi in cui tutto si codifica. Un disordine ordinato t’accompagna, t’affascina il vivere che si codifica e s’incanala, l’ordine che emerge, che rassicura. Ma non ti basta, trovato l’ordine tutto s’impoverisce. Tutto il tuo mondo non si esaurisce e se ha un posto e un nome, non fa più sforzi per sapere chi è. Senti che l’ordine genera un’ansia sottile, svuota le passioni e si chiude nel labirinto della mente. Eppure l’ordine ti affascina e dona tranquillità. Almeno sembra. Tu hai già le tue difficoltà, i problemi di crescere assieme a ciò che scopri di te ora, ammettere gli errori che insegnano sempre. A tutti. Facciamo così fatica ad accettare gli errori, sembra si perdano pezzi di noi per strada. Definitivamente. La libertà di credere in ciò che c’aiuta, anche quando si sbaglia è una gran cosa. E se questo induce la contraddizione in noi, come non viverla? Noi conteniamo le nostre contraddizioni, siamo abbastanza capienti per tenerle tutte. Anche senza sentirne colpa. Si dicono di noi cose che non sappiamo, ci arrivano echi dissonanti dai gesti e ci pare d’essere proprio quelli. Ci si abitua ai rifiuti come ai complimenti. Basta vivere ed emerge una assuefazione agli aggettivi che li svuota. Gli aggettivi mi ricordano i gusci vuoti dei molluschi, in riva al mare, con il loro leggero rumore metallico quando l’onda li muove. Non hanno più vita, sono altro, ma ci sono ancora. Parte del rumore di risacca, appunto. Così si tiene tutto, anche il credere e il suo contrario, basta volersi un po’ di bene: una candela, un pensiero positivo e poi via nella luce esterna che nei giorni di sole (c’è una similitudine in questo) abbacina e scalda. E muta i colori, svuota e riempie d’altro l’anima. (c’è l’anima? non è importante che ci sia davvero, basta sentirla) C’è un prima e c’è un dopo, ma soprattutto un durante. Vivere è durante, durare un minuto di più delle cose che tolgono, che fanno male. Resistere un’ora di più della parte che si chiude è già una finestra che si apre. Fa entrare un’idea di sé, una luce con i suoi aggettivi di intensità. Credimi, è meglio del buio.
Chissà cosa ci sarà poi, qui, tra poco, quasi adesso.
S’era messa a fare i biscotti. Farine, burro, uvetta a mollo nel latte, mandorle, zucchero, uova, lievito. Nella ciotola le farine si mescolavano in scie tra il bianco e il beige, attendevano il giallo delle uova e il paglierino del burro sciolto, ne veniva un aranciato omogeneo che si scoloriva nello zucchero. Mescolare, mescolare a lungo, con il braccio che sentiva la consistenza dell’impasto e la morbidezza crescente. L’impasto, si lasciava andare a quella violenza morbida e la densità, prima granulosa, si rasserenava diventando liscia. Un’amalgama omogenea che inghiottiva uvetta e mandorle, golosa essa stessa di sé. Una crema densa ch’era quasi un peccato suddividere in piccole losanghe, cerchi, animaletti da formina che sarebbero bruniti nella piastra: era bella così.
Con gli ingredienti e le proporzioni, con un po’ d’amore per i propri gesti, il risultato non muta.Accadesse anche nei sentimenti… Fare, pensò, era un antidoto al pensare, all’oppressione che sentiva. Sapere che dalle sue mani sarebbe uscito qualcosa di buono, sembrava rassicurarla. Come per l’accudire, fare biscotti o torte per sé e per i bambini, era mettere del dolce in mezzo alle difficoltà. Perché per un attimo restasse l’amore. Anche in bocca. Solo l’amore. Cos’era la gelosia se non una malata forma d’amore? Malata di rifiuto, d’insicurezza, di possesso. E il possesso stesso non era forse conseguenza della non certezza. Un giudizio su di sé, non sull’altro. Amato, desiderato, mancante quanto mai eppure non raggiungibile. Gelosia e cose dolci assieme, e una malinconia infinita, impotente. Come un lasciar scorrere sangue da una vena aperta, che non fa abbastanza male e intanto toglie le forze. Languore del lasciarsi andare. Scorre il sangue, lo spirito, la stanchezza. Tutto assieme. Ma prima lo stesso sangue tumultuava dentro sulle pareti, sciacquava veloce nelle curve, invadeva il cuore e colmava tutto fino all’ultimo capillare, cosicché la malinconia era in tutto il corpo. Ovunque prima di fluire. Ho un alluce malinconico. Pensò. E sorrise, con quell’allegria discreta che avrebbe voluto condividere con lui. Che avrebbe voluto potesse essere la sua allegria. Chissà che fai a quest’ora? Pensò. Con chi sei. Chissà se mi pensi. Nella gelosia non si accetta d’essere meno che importanti all’altro, eppure c’entriamo noi, solo noi, è un’importanza non condivisa. Dove ho sbagliato. Pensò. Oppure non c’era nessun errore e ciò che condanna alla mancanza è qualcosa di distante, un vuoto che sembrava poter essere colmato, ma che non ha mai limite e allora pretende d’essere esclusivo e vuole tutto per sé. Incolmabile mancanza non tollera l’insicurezza. Come ai funerali. Come si vivrà senza?
Vuoi più bene alla mamma o al babbo? Domanda stupida, inutile, volevo essere voluta bene da entrambi, non volevo bene a quel fratello che mi portava via il loro amore. quell’amore fatto di disponibilità e attenzione. A che serve essere come ci viene chiesto, se poi l’amore non è sufficiente, se non è disponibile quando necessita, se non c’è quando lo si implora muti perché afoni di dire. E poi dovrebbe essere naturale riceverlo, no? Invece non è così, non basta mai. Poi quando si cresce, s’intromette il piacere e allora tutto sembra complicarsi e s-complicarsi. Il piacere condiviso lega assieme, è la porta della confidenza, è misura di qualcosa che si riproduce sempre diverso, secondo voglia, ma è un mettere le mani avanti su un futuro partendo da una felicità. Sennò cosa resta? Per questo la gelosia è un dialogo con sé prima che con chiunque altro, un dialogo che se non ha risposte scava, disgrega, devasta. Quando emerge cosciente , la rovina è già inarrestabile. solo l’altro la può arginare, farci ridere assieme. Che stupida. Pensò.S’era seduta e le mani giocavano con gli stampini dei biscotti. Però tu rassicurami, ti prego. Chiamami. Dimmi che solo noi, solo noi possiamo essere insieme. Felici. Dimmelo in qualche modo, fammelo sentire, perché così potrò lasciarmi andare alla fiducia. Ho paura di perdermi. di scivolare in una solitudine senza fine. Ho paura di avere freddo. Quel freddo che non va via anche se metti coperte, scaldi la boule, soffi sulle mani, ma c’è sempre una lama che risale e ti prende tutta. E sai che non avrai più caldo. Mai più.
Le voci dei bambini che bisticciavano, del cane che era impegnato a chiedere un suo ruolo nel litigio, la fecero lanciare un richiamo. Alzò la voce. La fece scura, imperiosa. Minacciò. Ma era distante con la testa. Non le importava molto, presa com’era da quel flusso di pensieri che s’ingolfavano dentro, s’attorcigliavano, diventavano circolari e ripetitivi. Un mantra negativo. E anche se sembravano tanti, poi erano uno solo: mi manchi. Lo disse ad alta voce perché avrebbe voluto lo dicesse lui: mi manchi. E voleva sentire il suono avvolgente di quelle emme che si sovrapponevano, così lo ripetè sempre più rapido: mi manchi, mi manchi, mi manchi, mi manchi … finché divenne un sussurro, un soffio, come un bacio che stava per posarsi sulla nuca. E allora chiuse gli occhi socchiudendo le labbra e aspettando arrivasse. Mi manchi. Ripeté. Uno dei bambini entrò con una grossa lacrima che scendeva, cominciò a protestare le sue ragioni e si convinceva con il discorso mezzo urlato e mezzo a singulti. Arrivò anche il cane e cominciò ad abbaiare a tratti, guardando alternativamente lei e il bimbo. Come si aspettasse qualcosa. Lei si chiese perché le lacrime a volte non sono simmetriche, ma ne cade una sola all’inizio, da un solo occhio mentre la testa soffre intera. O forse non era così e si poteva soffrire a mezzo? Prese in braccio il bimbo, gli diede il dito pieno di impasto dolce da succhiare. E mentre si quietava pensò alla bocca di lui. Pensò che avrebbe voluto tornare indietro. essere bimba e donna allo stesso tempo. Essere tenuta, compresa, capita, amata. E che tutto cominciasse su un foglio bianco con una parola ancora da scrivere, da declinare, da condividere. Ci si innamora della mancanza di essere amati, e così si pronuncia quella parola. E la si crede vera perché sembra non ci siano alternative. Forse qui c’è una radice di malessere che finisce nella gelosia. Pensò.
Era finito il giornale radio, la voce dell’annunciatrice disse: Tempo previsto per domenica… Il bimbo dormiva succhiando il dito, il fratello era rimasto nell’altra stanza. Silenzioso, forse leggeva. Il cane s’era accucciato sui suoi piedi e sembrava appisolato. Guardò fuori. Era già scuro, la notte s’era mangiato il giorno, le cose, la possibilità. Le sembrava di non aver combinato nulla. E allora desiderò profondamente di uscire, camminare, essere distante da sé, mentre fuori pioveva e l’acqua lavava i vetri, gli alberi, l’asfalto, ogni pena.
Per scoppi, come se nel ventre oscuro dell’anima di pietra e fuoco, s’accumulasse un’infinita bolla. Così lo specchio nero del mondo da lì sale, per vie oscure, sublima in rocce polite, in creste taglienti, e il mondo ci attraversa e guarda sé, neutrino che segue un pensiero senza limite. E non si cura, non ascolta se non per sue vie che radicano infinite, che non fanno domande, non si voltano e procedono mentre attendono un passo.
Mai è il suo nome mentre interroghiamo il caso, seguiamo la possibilità e la chiamiamo speranza. Mentre parliamo al suo posto, mettiamo in bocca le battute al mondo e aspettiamo parli mentre il silenzio diventa insopportabile e allora di nuovo la parola, la nostra, riempie un luogo, risuona nelle nostre orecchie. Miracolosa la parola fino a un nuovo silenzio, fino ad un’abitudine interrogante che tace e rapprende il poco che resta nell’aria e in noi. Così il silenzio accompagna a lungo e poi quando trasuda non finisce a tempo debito. Il tempo non ha debiti, casomai crediti e chiede conto mentre in disparte s’accumula il non fatto o ciò che dev’essere ripensato e ripreso in un interminabile gioco dove ciò che si scarta è sempre maggiore di ciò che si sceglie e però non scompare, ma sta quieto, in attesa. Di grandi coni d’infiniti grani è fatto ciò che resta in disparte. Ne vidi di enormi nei porti, si stagliavano contro il cielo, limitati solo dalla gravità e dall’attrito tra particelle. Poteva essere grano o zolfo, e allora il colore giallo riempiva l’aria d’indebita allegria, oppure era carbone lucente e grasso che assommava al vento polvere e piccoli mulinelli, tingendo cupo il cuore. Altrove erano minerali di ferro, rame e manganese che beffardi riflettevano la luce in caleidoscopi rivolti al cielo, o ancora coni di rottami tagliati da trance impietose, ridotti a parvenza di ciò che erano stati funzionanti, ma ancora vivi nelle tracce dei colori che li avevano vestiti. Erano arlecchini di passato, e mentori e presaghi, indicavano. E quei coni enormi nati da benne indifferenti, erano acquattati in attesa d’un nuovo essere.
Così è il tempo che non si compie, che non ha un fine e una linea: granuli e gravità che rotolano in nuovi equilibri e levigano le forme. Capsule d’attesa in un porto e possibilità scartate prima che divengano rimpianti.
Così il cuore che è un cono che si staglia verso il cielo e ha innumeri grani che danzano nel silenzio d’una musica d’attesa.
il tango del silenzio
Perché ora ti fidi, hai detto che non finiresti più.
Forse era la sfrontatezza sicura di chi attende,
o la luce che sorride dell’ignota possibilità
e del segreto d’una scaramanzia in attesa d’avverare.
Allora, nel suo fidarsi, il corpo s’è disteso:
dismessa l’arroganza il seno
il viso interrogava in attesa d’espressione,
e intanto, in un silenzio sorridente, hai porto la guancia,
Ci fu un tempo che amai ciò che era perfetto. Poi mi conquistò l’imperfezione nascosta. Infine il disordine apparente, la falla beffarda nell’ordine.
Degli infiniti nomi di dio che diamo a ciascun amore, riconoscendo altrove l’impossibile definire, troviamo noi e la diversità che gli appartiene: lì, c’è un definitivo stupore. e quella chiara differenza, così perfetta e desiderabile.
È noi non ancora avvenuto, assurdo nella sua fragilità e forte d’ansia d’essere, definitivamente appartenente e parallela, che metterla nell’ordine sarebbe una bestemmia.
Tu non eri ordine, ma l’ infinita pazienza della contraddizione. Eri l’abbandono e l’abbraccio, il trovare col barlume del conosciuto, la certezza del diverso. Eri l’impossibile che non si racconta, la paura che si spegne nella pozzanghera di luce. Cuore forsennato di tutti i passati possibili, fuso in quell’unico reale che ti conteneva, eri parola che arrossiva la voce, che rendeva dubbioso l’accento, silenzio mormorante, desideroso d’ombra.
Eri la solitudine cercata, il corpo riunito in tutto ciò che ti era accaduto, e nulla sembrava più naturale della spinta di un caso che ricomprendeva tempo . Eri l’incontro che gettava reti forse per non nascondere la luce che scoccava ad ogni tocco, ad ogni carezza.
Se la tua pelle non fosse stata un’infinita emozione, sarebbe stato solo un piacere, e dei piaceri non si ha memoria, ma solo rimpianto del possibile di ciò che non hanno generato.
Così accoglievo il tuo disordine in me, lo mescolavo al mio, ne vedevo l’infinita forza e il porre ogni cosa nella sua importanza. E il disegno appariva, nitido e naturale, finché si scriveva, graffiando, indelebilmente l’anima.
Ci sono dei punti fragili, linee di frattura dove ciò che si rompe ha un profilo netto e un dolore acuto. Sono grafie che l’animo mette a disposizione, non facili da leggere, hanno storie e vedono il futuro. Restano accoste se vengono rispettate, sono segni che possono colmarsi d’oro per essere saldati, ma preferiscono l’attenzione, il meditare sul vuoto e su ciò che tiene assieme. Prima erano uno e lo sono tutt’ora ma diversi e nuovi, bisogna capire come. Adesso raccontano.
Cos’è l’insieme e perché ha bisogno d’essere unito? È questo il senso dell’equilibrio, della sutura che connette e salda il passato, costruito col presente e futuro?
Rabbercia i pezzi chi non è cosciente di sé, chi si dibatte, chi è disorientato e non conosce ancora la differenza tra la profondità e lo stare a galla. Forse per questo ciò che si produce senza coscienza e convinzione, si sgretola e ha bisogno di integrità, di un passato che non sia gettato in disparte ma sia valore.
Sedevano con i loro camici bianchi in tre, due uomini e una donna. Lei prendeva appunti era a lato, l’uomo al centro e parlava con voce più bassa. Chiedeva del presente. Non usò mai la parola sofferenza, neppure dolore adoperò, trasse conclusioni senza chiedere del prima. La donna annotò ogni parola significativa. Ma come faceva a sapere che avevano lo stesso concetto di importanza? Era stato emesso un giudizio. Si sentiva.
L’effetto negativo poteva essere sciolto con una rassicurazione, la causa non aveva dignità d’essere indagata? Con la stessa voce che chiedeva, l’uomo al centro, propose di soffermarsi il tempo necessario per precisare. Lo scrisse.
Fu un punto di frattura, profondo e chiaro, generato separando il prima dal dopo, padre di altre successive fratture e fatica e dolore di suture. Così, avanti, all’infinito, che è poi un non finito, dove il peso, tutto il peso, del discernere ciò che è buono da ciò che non fa bene, ricade sempre su chi si tiene assieme e cerca, trova, i numeri, gli equilibri, così l’opera d’arte del vivere è una scultura mobile di Calder, un tener di buon conto l’aria e l’oscillare. Il senso è ciò che avrà equilibrio e movimento.
Solo se non s’è compreso la frattura non genera e non sublima, ma basta attendere e tutto tornerà ad avere un nesso tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Ognuno di noi è il prodotto di un numero grande di variabili e di scelte altrui. Le strade che generano e percorrono le vite sono il frutto di scelte che si intersecano con il nostro libero arbitrio. È il regno della possibilità e degli universi paralleli e molto più concretamente è la nostra storia che deriva da una catena ininterrotta di vite e presenze. Mi capita di pensare a mio nonno, di lui ho una fotografia, pochi pezzi di racconto degli anni di vita, storie di famiglie che si scindevano perché una morte toglieva la possibilità di continuare una attività, un commercio, l’integrità di un clan. Così un gruppo si spostava, cercava fortuna lontano dalla piccola patria che per secoli era stata il luogo della presenza unita. Mio nonno con l’intero ramo familiare non aveva fatto eccezione, ma questa è un’altra storia. Da questo nonno sono venuto anch’io, dalle scelte sue e soprattutto di altri, si è determinata la sua vita e quella di mio padre e mia nonna e come onde in uno specchio d’acqua, altre vite e scelte in un intersecarsi continuo. Quattro anni fa ho cercato il luogo dove si è annodato un tempo con altri tempi, ho capito che tra quelle doline, macchie di quercia, terreni aspri e case sparse, era accaduto qualcosa che era dolore, storia e continuità. Gli ho reso grazie, come sò e posso. Ognuno di noi inizia ed è continuità, questo il senso di essere flusso. Passato, presente, futuro. Non ci si perde nella memoria e lì si trovano dolcezza e gratitudine e senso.
Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti, i numeri dovevano tornare. Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù fino alle orecchie dei soldati. Le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete. Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo. Chissà cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone e i fatti, tutto nel rumore degli scoppi, la corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina. Fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo. Nei momenti di quiete ci si aggrappa a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui, lui e la famiglia. Vivo. Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso. Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa. Il tempo si comprime e dilata, lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato. La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre. A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, a casa la sera, dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace. Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile? Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia. Ma tutte queste cose non gliele dicevano, quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava. Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti. Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina delle bottiglie che ora non c’è in nessuna carta geografica.