Avatar di Sconosciuto

Informazioni su willyco

mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente. Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo. Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.

un’alterata percezione del tempo

tempi

una giornata

Non ho una poesia dell’alba,
forse s’è consumata
appresso nell’ umida notte.
La prima luce ha liberato,
l’aria impregnata
di buio e calore mischiato,
e il possibile tenero
nel primo accenno di chiaro.

Il mezzogiorno è scivolato sul corpo,
Indagando distratto le curve, la pelle,
il legno di barca,
del colore da scrostare.
Sorrideva della sua forza,
del sudore radunato dall’aria
con vapore d’acqua,
e chiazze di sale.
La nudità s’è persa
nel biancore accecante,
nella luce diritta,
sui casti corpi offerti
al mezzogiorno
che succhia i pensieri
dal nulla dentro disciolto.

L’ombra ha disegnato il pomeriggio,
nel suo silenzio
preciso e mutevole,
che quieta l’ora del rimorso.
Il nulla segue il desiderio,
soddisfatto d’indicibili stranezze
è un cane affettuoso,
immagine d’un compiuto senso,
il mio, messo da parte.
Impotenza del giorno,
fumo e vino spanto,
dopo l’ansia di carezze,
e il travaso d’un nulla
nella luce spenta dalla notte.
Come i pomeriggi d’amore,
stropicciati dal sudore,
e inghiottiti dalla sera.
Gli umori sono equità divise,
spartite tra noi,
bevute con furia
e già senza traccia.
Cosi si spengono le ore,
e ritardo il passo, la casa, me.

Nella notte non credo più a niente,
nella notte ho paura
vedo i papaveri bruni nell’erba
Il rosso che racconta il giorno
e la notte dispera.
Attorno tutto è preciso,
le cose si ergono mute,
si spegne il clamore
e ciò che è fatto ha un senso
che ora chiede conto.
S’aggruma il nero,
gocce di mercurio i pensieri,
è umidità che scivola l’erba,
piega gli steli,
e raccoglie l’afrore di piante assetate.
Il mio è il sonno dei marinai,
che chiudono gli occhi
mentre amache vuote
dondolano in attesa
di casa, d’un sogno sognato,
d’una carezza scordata.

25 maggio

assenze

Chi sarà il nostro Steinbeck, il Dos Passo, il Mc Carthy o il John Fante di questo paese che frana? Chi sarà il Volponi, il Levi, il Pasolini o l’Ottieri?

Oggi, in sovrappiù rispetto al ’29, agli anni ’50, anche lo Stato è in crisi. Tutti in depressione, senza orizzonte a breve. Solo le banche ballano mentre oscilla il mondo sull’orlo del vulcano. 

Chi descriverà tutto questo, se abbiamo perso gli operai e non ne ha parlato nessuno. Chi parlerà, illuminerà, lascerà traccia d’un mondo che si è sbriciolato senza domande? Senza troppe domande, perché la classe media aveva troppo orgoglio per accorgersi che ne prendeva il posto e diventava proletariato. Ma proprio da quella classe media venivano, vengono gli scrittori che parlano d’altro. Forse non sanno e non vedono, oppure non sentono. Neppure dei loro vicini parlano e raccontano di un mondo di pochi, di un sogno che dovrebbe essere di molti.

E allora chi parlerà dei giorni uguali? Del lusso della noia, dei residui d’una generazione di reduci travolti dai ricordi e privi di voraci sogni. Mancano le strade di periferia, lì dove si staccavano gli operai dagli impiegati, tace la solidarietà trasformata in solitudine, mentre si è spenta la voglia di riscatto nella meritocrazia.

Chi parlerà delle case al mare che hanno illuso sul benessere crescente e infinito, chi si occuperà delle aziende che chiudono in silenzio, degli appartamenti dove si vive, venduti per pagare i conti? Chi scriverà per gli e book e per gli editori di carta, sapendo che il mondo accelera, si scinde, precipita e ci si immerge nelle menzogne fuori della realtà?

Meglio il fantasy, meglio il ricordo, meglio la thriller story, meglio il relativo, i lustrini, lo sport, l’intimismo. Meglio tutto ciò che non induce tristezza. Passerà. Meglio parlar d’altro.

Non resterà traccia. Solo la poesia resiste, ma quella è Cassandra e illusione dei romantici, letta da pochi, vissuta da meno. Non abbiamo Steinbeck, e neppure Fante, certamente non Tondelli, Levi, Calvino, Pasolini o Pavese. Forse non va troppo male. Non ancora.

la rivolta delle colle

Stamattina lo scotch attaccava poco.

Ci sono questi momenti nella vita, basta capirlo, sta sempre così arrotolato su se stesso…

Comunque, s’incollava alle dita ed accarezzava la carta, forse aveva paura di sporcarla, d’essere appiccicoso; di certo c’era un patto segreto tra loro. Un patto che escludeva me, le mie necessità. Mai che il cerotto usi la stessa attenzione alla mia pelle; gli dico: dai, uno strappo e via, ma è una scia di peeling che se ne va e per un orso è pur sempre un trauma d’assenza quando si guarda il braccio o la gamba. In quei momenti capisco la pazienza della ceretta femminile, la capacità di sofferenza per piacersi, capisco e divago.

Il nastro adesivo negava il suo nome e le foto, le poesie appiccicate sulle porte dell’armadio aspettavano solo che mi girassi per staccarsi e cadere. Sembrava autunno con tutti quei fogli per terra, raccoglievo in silenzio e riattaccavo.

Credo esista una pazienza per le cose diversa da quella che usiamo alle persone, una pazienza che parla loro, le interroga, cerca un patto, chiede ragione di tanto accanimento e riflette. La pazienza è uno specchio, deve riflettere, deve far capire cosa si agita dentro quell’immagine che la guarda. La ragione del perché le cose non funzionano sta lì, in quell’immagine che pensa ad altro, che non si cura del mondo piccolo attorno. E’ la meccanica dell’uso che offende le cose.

C’è anche un’ira per le cose, un’ira distruttiva, anch’essa diversa da quella degli umani, un’ira che distrugge e butta via perché, tanto, le cose non capiscono. Gli si spiega che non c’è tempo, che devono essere efficienti, che sono fatte per questo. E le cose si rifiutano; sono riottose, dinegano, è così l’ira prende e strappa, distrugge, getta. Ma loro, pur a pezzi, ridono di noi. Ho visto una volta gettare a terra con rabbia e forza, una calcolatrice meccanica, le rotelle, gli ingranaggi andavano dappertutto, correndo allegri, mentre l’iroso, ormai contrito, contemplava la sua sconfitta e l’irridere delle cose.

Ma non è colpa delle cose, se si rivoltano una ragione c’è: non abbiamo più il controllo, le abbiamo sopravvalutate prima e gettate in un canto poi. Il nastro adesivo ad esempio,  sta lì arrotolato, ma è diventato telescopico, il calore della scorsa estate lo ha trasformato in un cono, se adesso appiccica a rovescio e si ribella, è per trascuratezza. L’ho trascurato perché ce n’è troppo, troppe chiocciole con nastro adesivo in giro e pochi utilizzi e lui capisce che è finita la sua epoca. Occhieggia il nastro carta, vede gli adesivi e le colle in tubo, si chiede se sia passato il suo tempo e così si offende e non appiccica più. Della vecchia cancelleria a malapena resistono le graffette e fermagli. Negli anni del post it e della virtualità si attacca meno. Tutto.

Così anche la colla è seccata, proprio incazzata nel tubo rosso e si rifiuta di uscire, non attacca più, piuttosto si strugge a pezzi di consistenza gommosa e inservibile. Un giorno ho detto a voce alta: ma ti ricordi il profumo della coccoina? anche se non mi serviva la colla, aprivo il barattolo d’alluminio per annusarla. aveva un odore di mandorle, di noccioli aperti e poi il pennello a setola dura che scorreva sulla carta, vuoi mettere… Dev’essere lì che la colla s’è offesa e ha detto: adessotisistemoio, perché ha cominciato a sbavare, a venir via a pezzi. Userei lei per i fogli da incollare sull’armadio, ma è secca, rincagnita dentro il tubo e quello che ne esce è solo rabbia collosa, a pezzi bianchi che sporcano, ma non attaccano.

Bisogna parlare alle cose perché non si rivoltino, ripetere loro la funzione che hanno, fare qualche complimento: lo vedi che se vuoi attacchi, sei vecchiotta ma funzioni benissimo, come te non ne fanno più. E bisogna stare attenti, non pensare cose diverse da quelle che si dicono, perché le cose sono telepatiche. Se ad esempio si pensa: come te non ne fanno più. Per fortuna. Le cose sentono e si ribellano, sono permalose le cose. Bisogna stare attenti, parlargli piano, lasciare che diano la fantasia oltre la funzione, ma soprattutto considerare che aspettano, e chi aspetta nel migliore dei casi, pensa ad altro.

p.s. poi alla fine un accordo l’abbiamo trovato

momenti di grazia

Ci sono momenti in cui la grazia, la tenerezza o la bontà d’un momento, sembrano sospendere l’ordine usuale delle cose. L’idea di un’umanità perduta nel potere, che sopraffà gli altri privandoli di diritti e vita, condiziona così tanto le nostre vite da renderle infelici.

In questi momenti di crisi in cui il buio toglie nettezza alle cose, emerge la possibilità che il mondo sia altro, come quando una consapevolezza improvvisa, una stanchezza da troppo tempo ricacciata, fa emergere il basta, quel basta che e’ riconquista di noi, di un futuro che irrompe nel presente. Una rottura che per una volta, non piega noi, ma spezza una sequenza che sembrava incoercibile di logica, di necessità, di rassegnato star male.

Insomma qualcosa che spiazza il consueto nell’esistenza ed apre uno squarcio da cui si intravvedono colori: l’azzurro di un cielo che fa alzare il capo, il bianco d’una nuvola che porta altrove il pensiero, il nero che torna ad essere pavimento su cui camminare, la lieve vibrazione dell’aria chiara. 
Ci sono improvvise, inspiegabili felicità che aprono una finestra su un’altra realtà possibile. La musica, un libro ben scritto, una equazione matematica portano l’anima a cantare. Ho una immagine di una strada di buon mattino, la bicicletta e la gioia di pedalare, i profumi freschi, la luce nuova che gli scarichi delle auto non hanno ancora toccato, una cantata di Bach negli auricolari e la bocca che vuol cantare. Un’ improvvisa felicità che riporta a un assolo di Chet Baker ascoltato nell’oscurità, come una scia di bellezza che ci viene donata. È l’inatteso che si manifesta e ci dice che è in noi.

Attendere l’inatteso procura soddisfazioni e piccole svolte che non si narrano, ma esso, è condizione d’animo oppure un regalo che non si dovrebbe rifiutare.  E bisogna pur sapere che dopo ch’esso è accaduto, la mano è più leggera, prende con gli occhi quello che vede, se ne ciba nei pensieri e canticchia musiche speciali. E il potere del mondo perde consistenza, la speranza di cambiare riappare in una volontà di essere diversi, con il giusto che si confonde con il buono.

Tutto come sempre e come mai prima.

E’ allora che il cuore respira.

I ferri del mestiere

Ricordo il sole nel giardino, l’ombra della mura, la mezza vera da pozzo rinchiusa, il banco, i “ferri” originari di mio Padre che l’avevano accompagnato nel mestiere e nel suo evolvere, gli attrezzi che si erano aggiunti nel tempo comprati perché la tecnica mutava. Nulla era in disparte, ogni utensile aveva un nome e una funzione e il suo ruolo emergeva quando veniva preso dalle cassette o dalla borsa.
Quello che doveva essere un amico, ma era solo un collega, prese tutto, diede pochi soldi a mia Madre e sembrò fare un favore. Forse lo pensò, comunque si sbagliava. Un’ impressione triste mi rimase di quel pomeriggio, perché parlava troppo e un giudizio era stato emesso sulle cose. Il sole nel giardino, nel capanno dove mio Padre lavorava, era diventato inopportuno, come lo stridio del gesso sulla lavagna, qualcosa di fastidioso che non scriveva nulla. Ciò che per quell’uomo era ormai vecchio e inadeguato, aveva prodotto capolavori che ancora funzionavano benissimo, era stato usato con la maestria che differenzia chi prende in mano un tramite per l’intelligenza e l’arte che possiede da chi questa intelligenza non ha e si affida alle cose.
Capivo che per mia Madre, come per tutti noi, la presenza di mio Padre era ovunque e la sua assenza lancinante, gli oggetti del suo lavoro erano un continuo riportare il pensiero e far riemergere il dolore. Questo aveva motivato l’accogliere quello che sembrava un atto d’amicizia, poi le parole di troppo, che a me erano sembrate un giudizio, avevano riaperto la ferita.
Mia Madre non capi, prese la banconota con difficoltà, salutò e ringraziò con le parole che definivano il sentire: non occorreva. Ed era vero, era una signora mia Madre, e lo era mio Padre. Fosse stato zitto con me, avrei ora un ricordo negativo in meno su come ci si approfitti anche del poco. È natura umana per alcuni, ma non di tutti.
Però un dono mi è stato fatto quel giorno, mai avevo capito così intensamente la grandezza di mio Padre nel suo lavoro, la sua maestria che curava il bello assieme all’utile e le sue mani, le mani che tanto ho amato nelle rade carezze, le avrei volute nei geni, come un tratto che si trasmette per il tempo a chi verrà. Non so se questo accada, ma se ciò fosse non serviranno utensili particolari per l’arte di essere se stessi e grandi, con umiltà e silenzio, mio padre era così, perché un lavoro ben fatto è già eloquente in sé.

viva San Marco

è il primo maggio, indignatevi