il tempo e la corsa

Il senso del tempo, allora, era fatto di secondi sminuzzati come coriandoli e di velocità. Con gli orologi delle prime comunioni dei più abbienti, venivano misurati tempi dove il mezzo secondo era un’opinione, come la distanza percorsa, ma chi aveva vinto era certo. Erano sempre scontri impari e c’era sempre un secondo che rincorreva e che era pieno di gloria se mancava di poco la vittoria. Ci sarebbe stata un’altra occasione, la teologia della speranza coincideva con quella del secondo, dello sconfitto di poco che mentre riconosceva il più forte affinava la volontà per un’altra volta.
E sempre emergeva, quel tempo meccanico e malfermo, che sembrava  tutt’uno con una velocità ancora irrazionale, frutto di talento innato, senza allenamenti costanti, ma legata profondamente a quella gioia di correre che conosce ogni bambino. Quella velocità che spinge le gambe e chiede ansante una verifica numerica perché alla gioia è bello dare un numero, una misura anche se si sente che essa è nel gesto e pervade tutto ed è totale. La gioia del correre era la risposta a un bisogno prima di qualsiasi gioco o gara, era lo scaricare sul terreno, nel movimento più o meno coordinato di gambe e braccia, la necessità di sentirsi veloci, di generare il vento. Era l’energia di quella scoperta recente, il corpo, che voleva uscire allegramente, trasformarsi in possibilità, forza, misura. E il sudore, la sensazione di fatica, la gola che bruciava d’aria nel correre, erano in quei numeri, senza correlazione certa, che qualcuno diceva: cento metri (ma erano davvero cento oppure novanta o cento e cinque? ) in 13 secondi e 5. Quel tempo così preciso diventava il desiderio di possederlo, di poter misurare la velocità di sé e di qualsiasi altra cosa e avere un cronometro fatto di lancette scattanti, pulsanti che fermavano l’istante, quadranti da interpretare, era un sogno. Il sogno di misurare il tempo, la velocità e quindi dominarlo e dominarla. Adesso gli strumenti di misura sono precisissimi, i nostri erano adeguati più ai minuti che ai secondi e bisognosi di frequenti allineamenti ai segnali orari dell’istituto Galileo Ferraris di Torino che li trasmetteva per radio. Oggi è l’oscillazione di qualche atomo trasmessa da un centro di ricerca tedesco regola simmetricamente gli orologi in tutto il mondo. E adesso che la velocità di due gambette impastate di sudore e polvere sarebbe traguardabile in un oggetto da polso o da tasca in modo precisissimo, non interessa più a nessuno. I ragazzini si mostrano telefonini, giochi, conversazioni, foto, ma avere un orologio che misura la velocità non gli interessa più. Corrono perché qualcuno glielo dice, guardano le olimpiadi e il tempo è un’app.
Per un analogico, quale io sono, che insinua l’errore nella misura, c’è la sensazione che il tempo non sia lo stesso, che sia mutato con gli anni e che nessun desiderio o soddisfazione , possa racchiuderlo. Così vado con tenerezza al ricordo di quel: prontiii, via! Il primo, strascicato per racchiudere  tutta l’attenzione e il cuore e il secondo, secco, che per dare inequivocabile inizio a corsa e tempo. E allora le scarpe superga in tela e para, cominciavano a percuotere il terreno, magari non facevano arrivare primo ma riempivano di una gioia istantanea che dai piedi arrivava ai ricci e alla fronte sudata. Si era corso, anzitutto, e il tempo sarebbe diventato più corto domani, dopodomani, chissà quando, ma l’importante era gioiosamente, in modo scalmanato, correre.

abitiamo in linde città

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Abitiamo in linde città
che diventano gialle al tramonto
e la luce tranquilla racchiude parole,
giochi amorosi
nell’ombra bisbigli,
Abitiamo in piazze ampie
e spesso pulite,
con persone che camminano piano,
e ragazzi che rincorrono
di sorrisi si colma l’aria
assieme ai tristi pensieri:
piccoli moscerini di tempo.
Abitiamo in ordinate città
e il tempo scorre in ogni dove, perplesso,
gli occhi guardano
ogni tanto si soffermano:
ragazze di fine estate,
pelle d’ambra che mette a posto la gonna
solleva il seno e
aggiusta i capelli.
Forse per questo la fortuna l’assisterà
e con lei noi
che abitiamo in linde città.

banali ferragosti

Facevo cose banali. Cinque litri di normale nella ‘500 e andavo al mare. Spiaggia libera, asciugamano, sacchetto con i panini e la coca. Ero povero, non indigente. Dipendevo dalla precarietà del poco che raggranellavo. C’era un pamphlet situazionista sulla miseria della classe studentesca. Un sacco di parole per dire che dipendevamo in maniera indecente dai genitori, dal sapere accademico, dalla precarietà dei lavori offerti a chi studiava. Leggevo con attenzione e mi ritrovavo, in verità sarebbe bastata un po’ di autocoscienza, ma c’era conforto in quei ragionamenti: sembrava non sarebbe durata. C’era la mobilità sociale e col tempo, si pensava, si sarebbe stati meglio. Adesso è come allora, solo che è sparita la mobilità sociale.

Al mare ci andavamo in gruppo. Facevamo le solite cose: bagni lunghissimi, gli scherzi scemi, gli sfottò, la ricerca di qualche contatto femminile. Si parlava di tutto, non restava niente. Era meglio un paio d’anni prima, nell’adolescenza che finiva nelle scoperte, nelle camminate infinite, nei discorsi filosofeggianti. C’era stata questa nuova sensazione che la vita non era un insieme dato, ma qualcosa di ancora informe, che solidificava nelle scelte, che si costruiva precariamente eppure con arditezza. C’erano passioni che avevano bisogno di avere un senso, una relazione con la giornata; e spesso erano così totali da traboccare in essa. E poi c’era la scoperta del sesso, della sua impervia e semplice attrazione, della bellezza che si toccava col piacere. Si discuteva su tutto quello che si poteva dire. Si era spesso sinceri. Non mi vantavo. Avevo bisogno solo di rafforzare l’autostima e quindi un po’ assomigliavo e un po’ ero io. Nell’assomigliare si poteva dire tutto, nell’io molto meno, districandosi tra timori, sorpresa di scoperte, desideri.

Quante nozioni scolastiche mutavano nel farsi e diventavano dell’altro così originale che pareva nuovo e mai pensato prima. Lo usavo per stupire l’amico, e di più stupiva me, apriva mondi che nulla avevano a che fare con il nozionismo preteso a scuola. Mi perdevo in quel panorama di possibilità che si aprivano. Gli amici erano pochi, finiti gli sciami della fanciullezza, ci si sceglieva, a volte si forzavano le situazioni. Allora ho fatto scelte sciagurate per rifiutare il banale.  Poi tutto si era trasformato in una cricca, in un parlarsi a memoria. E mi mancavano le notti insonni, conquistate e perseguite senza un vero motivo che non fosse la libertà.

Questo accadeva solo due o tre anni prima di quelle estati che inghiottivano pensieri, che riconsegnavano al banale. E agosto piombava in quei gesti scontati: il mare, la piscina, qualche lettura forsennata, assieme alla scoperta della solitudine come salvaguardia di una diversità e innocenza solo mia. Non mi disturbava che gli amici delle altre stagioni, andassero verso vacanze a me impossibili (erano tutti più ricchi di me), mi sembrava che rimasto solo ci fosse una tregua da un ruolo. Chi restava per quelle puntate al mare, lo conoscevo meno ed era un fare senza impegno. Il banale consentiva di non pensare troppo alla propria condizione affettiva, agli amori incerti, alle timidezze infinite di scenari costruiti nella testa, al bisogno di sesso che era insieme bisogno d’amore. Il banale riempiva i giorni comuni con altri, se mi si chiedeva di andare, andavo: meglio che niente. Meglio che si riempisse il giorno che alla notte pensavo io. Con le ubbie, le passioni che tracciavano confini, con le parole che si colmavano di significato e tracimavano, investivano altre parole e creavano pozze di pensiero liquido dove mettere le mani. Con paura, ma anche con desiderio, perché sapevo che lì sotto i significati si accoppiavano, c’erano nascite improvvise, folgoranti intuizioni e rifiuti che volevano dire il contrario.

Intanto al mare, di giorno, giocavo facendo parate spettacolose alla palla che scivolava sull’acqua, nuotavo senza paura e mi perdevo in quell’infinito che stava sotto e in cui ci si sarebbe potuti lasciar andare. Eventualmente. Sino al primo grido di richiamo, sino al pensiero che io mi aspettavo altrove.

 

http://https://www.youtube.com/watch?v=w-WxWv5RgEc

sw hd

Contando su molte pazienze ho conservato software datato, bello, non più riproducibile sui sistemi attuali e così ho conservato anche l’hardware necessario. In informatica ciò significa sistemi operativi, manuali, vecchi pc, ecc. I programmi sono incredibilmente lenti e schematici, richiedono pazienza per installarsi e poi faticosamente funzionare. Tutto è apparentemente semplice, anche se emergono raffinatezze deliziose fatte per sopperire l’esigua potenza di calcolo a disposizione. Non è diversa la situazione nella riproduzione del suono, anche se più immediata e facile: sono rimasti i giradischi, i lettori di cassette, i riduttori di rumore, registratori a nastro, bobine, cassette. Un sacco di meccanica datata, di elettronica tangibile fatta di circuiti stampati con piste di stagno, resistenze, condensatori e transistor visibili. Ci sarebbe anche qualche valvola ma è meglio non esagerare. Ronzano pianissimo piccoli motori elettrici controllati da elettroniche, cinghie e pulegge, trasformatori toroidali, lucine non ancora led. E i suoni escono gagliardi, a volte imperfetti per età, altre volte così nitidi e sorprendenti da provocare l’emozione del concerto dal vivo. Nulla è mai piatto e  scontato nell’uniformità.

In questa memoria fatta d’immagini e suono, i programmi allora raffinati e “pericolosi” per la capacità di elaborare dati in proprio e non d’essere ostaggio dei dati altrui, appaiono anacronistici nell’età dell’identità consegnata all’ammasso. Pur con la meraviglia di allora per la tecnologia, vi si trova disseminata nella costruzione e nell’uso, una resistenza al digitale che è predilezione per l’analogico ovvero per l’approssimare sino a coincidere nell’infinita scelta che sta tra lo zero e l’uno scomposto in frazioni. Tutto questa ferraglia funzionante è ormai storia sociologica prima che cronologia di eventi e rivaluta l’inutilità come strumento per capire il mutamento. Il presunto progresso è stato una cessione infinita di originalità e differenza, prima economica a pochi monopolisti, poi personale, a infinite banche dati che non prevedono più, ma orientano i nostri gusti, le scelte, ciò che è importante da ciò che apparentemente non lo è. Un gigantesco presumere collettivo dell’utilità che stabilisce il primato della tecnologia sul progresso, dell’io presunto sul noi consapevole. Tra non molto la posta scomparirà, la scrittura come la capacità di far calcoli diventeranno curiosità, l’intelligenza per una ricerca su libri come potenzialità propria e non del motore di ricerca diventeranno residui di capacità. Come la mia musica registrata e non ripulita digitalmente, riprodotta da altoparlanti precisi come lenti Leitz, e molto fedeli. Analogicamente fedeli. Il fatto è che per disattenzione si è perduta la capacità inventiva e sognatrice dell’inutile e introdotta l’insaziabilità della perfezione. Il perfetto elimina tutto ciò che non lo è e quindi non è strumento ma demiurgo di presente e di futuro. Orienta l’ingegno all’interno dei suoi parametri, fissa limiti e confini oltre i quali ci sono esseri inutili e bizzarri che si nutrono di particolari, di connessioni singolari, di analogie. Una riserva da tollerare ma inutile, profondamente inutile a cui si deve scegliere di appartenere. Per l’appunto.

http://https://www.youtube.com/watch?v=g_5wv227Tjo

il senso di Marja per il colore

Il rigoverno della casa, per tacito accordo avviene in mia assenza; si sa gli uomini intralciano, intrigano come si dice da queste parti, e l’intrigo è l’inciampo, l’inutile che si mette in mezzo, il superfluo da togliere di torno. Quindi io non ci sono e al ritorno troverò la casa linda e pulita, le lenzuola cambiate, le stoviglie pulite nuovamente lavate. Non si sa mai, dev’essere il pensiero, perché ogni donna nutre dubbi sulla effettiva capacità di pulirsi e pulire dell’uomo. E credo sia un atavico senso dello sporco connesso al genere maschile che sin da quando rientrava nella caverna appena spazzata con un animale sanguinante senza curarsi della scia sul pavimento, ha continuato nei millenni a portare con sé prede da mostrare e untume, così che anche quando pulisce, l’uomo, mica pulisce bene, ma è con la testa altrove, pensando a chissà quale impresa comunque unta. Nol gà man, non ha mano, non sa gestire il pulito, è il pensiero tenero e liquidatorio che affida al genere opposto il monopolio della pulizia domestica. Marja con il senso europeo-orientale  delle donne che conoscono gli uomini che tornano alticci e si buttano vestiti sul letto, non fa differenze e ripulisce ciò che con fatica pulisco. Anche per questo l’intrigo cioè io, è meglio stia distante. Se fossi lì in mezzo, interverrei, direi, mi lamenterei, eppoi perderei la possibilità di giocare a trova quello che era qui e adesso invece chissà dove l’ha messo, gioco che mi fa smoccolare sorridendo e recuperare il senso di superiorità sul governo del disordine che mi appartiene: nessuno sa trovare le cose in mezzo al casino come me. Fin qui la meccanica degli spostamenti e delle azioni che la partita a scacchi perenne mette in campo, ma ciò che ogni volta degusto è la sorpresa che tengo per ultima cioè la combinazione di colori delle lenzuola e dei cuscini del letto. L’antefatto è che mi piacciono sia le lenzuola bianche che colorate, e non le voglio in tinta unita, cioè il sotto dovrebbe essere diverso dal sopra e dalla federa. Qui subentra la teoria dei tre colori, che si complica se esiste il copripiumone, perché l’accostamento dovrebbe avere la mia armonia mentre invece subentra il senso del colore di chi mette assieme le lenzuola. Spesso va bene, ma solo perché i colori hanno quelle tonalità asburgico slavo russofone che di solito si mettevano sulle bandiere, quindi senza saperlo emergono le reminiscenze di un’europa che non era tale ma si riconosceva dai vessilli. Ed essendo la scelta possibile perché non mettere un arancio con un rosso e un blu ovvero il calore del sud con il progressivo mitigarsi verso il gelo dell’est. Oppure invertire i colori e puntare sulla cacofonia del verde con l’ azzurro. Ecco questo senso del colore che trovavo nei miei viaggi ad est, nei maglioni di lane melange fatti in casa, nelle sequenze di gialli, ocra verso verdi pisello degli stucchi dei palazzi, poi i colori squillanti delle cupole, gli ori, i contrasti che inaspettatamente confluiscono nel cupo delle icone, fino ad essere poi interpretati in campagna in colori che andavano dal fango verso il rosso pompeiano, lo intravvedo nella scelta che viene fatta per il mio dormire. E penso a come i sogni saranno, avvolti in quelle sequenze, penso che la sorpresa merita un approfondimento, ma soprattutto che da Goethe la teoria dei colori ha avuto una notevole influenza nel pensiero alto e che Michel Pastoureau, che ne è sommo interprete e punto di arrivo, avrebbe molto da insegnare ai nostri esperti di politica estera. Guardate i colori delle case e intuite l’umore e la sensibilità dei popoli. Guardo la parure del letto e mi rallegra sapere che la pensiamo in maniera diversa, Marja ed io, che abbiamo parole differenti e sensibilità che si incuriosiscono nella differenza. Marja, non assomiglia a Smilla che possedeva oltre trenta sfumature per la neve, e però la sua visione del mondo allarga il mio. Certo che se fosse giapponese e zen, rischierei qualche sogno meno complicato, ma vuoi mettere la sorpresa anziché il colore su colore: anche se incubo fosse sarebbe un incubo allegro. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=EZ-VsKB_tNw

il profumo delle pesche

Erano mattine calde e luminose, mai troppo presto, dopo colazione, mia madre mi metteva sul sellino della Legnano gialla, e con calma attraversavamo la città. Sentivo l’aria fresca che veniva dall’ombra dei portici e il sole già caldo, mi pareva che nei contrasti ci fosse la felicità, ma questo lo so ora mentre allora mi piaceva e basta. Lei aveva una borsa di pelle blu, a sacco, che conteneva infiniti tesori, un sorriso di ragazza e vestiti leggeri, a fiori come si usava allora.  

Si cominciava a fine giugno e poi si proseguiva a luglio, nell’andare in un luogo che aveva il nome latino, ma era fatto di barche agili, di sabbia riportata, di alberi grandissimi e pieni di foglie bianche e verdi. Ed era pieno di grida, di tuffi nell’acqua, di corse, di salvagenti fatti di camere d’aria. Mia madre prendeva il sole, leggeva una rivista, io giocavo coscienzioso con paletta, sabbia, acqua e secchiello. Costruivo cose che avevano un nome, ma non era quello, erano luoghi della fantasia dove il gocciolare della sabbia bagnata sommava forme e statue incredibili, e cuspidi, e creste di mura incantate. Era un lavorare alacre, fatto di secchielli riempiti, di tragitti, di soddisfazioni che esigevano nuove conquiste. Fino alle 11, quando dovevo lavare le mani e da quel sacco blu uscivano le pesche bianche (monse’esane, di Monselice, così si chiedevano al fruttaro’o), fresche di ghiaccio mattutino e con quella leggera peluria che a me sembrava freddo sulla pelle. Le sbucciavo con le piccole dita di allora e poi c’era il primo morso accompagnato dal pane croccante e caldo. Si univano il profumo delle pesche con quello del pane e non sapevo da dove nascesse tutto quel piacere. Non era fame, no, era solo piacere. Mia madre mi guardava e assaporava con me, parlando quella lingua profumata e dolce, che non ho più abbandonato.

Credo siamo fatti di piccoli fatti, di ricordi, di sensazioni che si allacciano e sovrappongono le une nelle altre. Come si scavasse il profumo e poi la dolcezza e il sapore fino a quel duro nocciolo che non si può mangiare, ma che solo può dare vita a un albero, e a innumerevoli frutti destinati a provocare altre infinite sensazioni. È essere parte di un flusso che gioiosamente non finisce, e quando lo capisco sento un profondo senso di ringraziamento. 

tang o qing?


Il rumore m’è sembrato un tang. Un suono sordo, prolungato dalla vista del risultato. La mente ci impiega del tempo ad elaborare, e se uno è tardo o divagante, di più. Essendo entrambe le cose mi sono perso a considerare cose lette sul rimettere assieme, sull’aggiustare. I rapporti umani si aggiustano: come le tazze. I bicchieri invece si buttano. Che rapporti abbiamo?

La tazza con monogramma cinese ha urtato il bordo del lavello e oltre a scheggiarsi ha emesso quel suono d’incipit: tang. Forse era un’affermazione d’identità, essa si riconosceva nell’epoca T’ang, e  magari ragione pure l’aveva, non di nascita ma d’affinità. Non era forse resistita alla distruzione perpetrata da truppe piccole e poco disciplinate (si sarebbero detti mongoli nelle cronache del tempo) che in casa avevano reso disperatamente dispari il servizio di tazze in bone china, così leggero e trasparente da essere un piccolo vanto d’acquisto? E non aveva pure mantenuto con compostezza la laccatura nonostante piccoli crepi d’incuria l’avessero ripetutamente insultata. Era una signora prima che una tazza, orgogliosa del suo monogramma, e l’ha inopinatamente preservato nella sua fulgida interezza anche nella catastrofe, anche questo segno della sua cura nel proteggere la cifra segreta che portava dentro di sé e al mondo. Era forte d’educazione sin dalla nascita, un po’ pingue nella porcellana grassa, però docile alle mani che l’avevano forgiata in un tronco cono di evidente ascendenza sensuale e sessuale. Era votata al diletto e con attenzione aveva svolto il suo servizio in silenziosa solerzia, contenendo onde di caffelatte, nascondendo al mondo la mia predilezione caffeinica per il caffè forte, e pur lasciandone uscire il profumo con distaccata signorilità non aveva detto nulla sulle sue preferenze, tenendo per sé i giudizi. Enigmatica ed aristocratica lasciava intuire senza dire.

Comunque il danno è fatto, checché ne dicano i giapponesi che rifiutando il tao e la finitezza delle cose, praticano lo zen e saldano i vasi con una lega d’oro, rendendoli, a loro dire, più preziosi, e così li trasmettono per innumeri anni per altri usi ed altre rotture. Se funzionassero così anche nell’arte del sentimento, i giapponesi, potrebbero insegnare all’universo mondo come riaggiustare, con oro, le rotture che incrinano uso e futuro dei rapporti tra umani, ma non è così e, seppure (nella versione occidentale, giudaico cristiana si direbbe) si aggiustano con monili, fiori, cene e vacanze riparatrici, quei rapporti hanno una loro intrinseca fragilità che si sopisce nella struttura ma non scompare e ne mina l’uso. Insomma da queste parti la ceramica ricorda, e questo non porta bene.

Tornando alla tazza, noto la perfezione del danno, oltre l’irreparabile scheggiatura. Una voluta netta, una curva da geometria analitica, complessa e cangiante, su tre dimensioni, arricchita da interiori curvature molto nette e bianche. Segno forse di un disagio per tanto contenere silente? Che si fosse annoiata per il caffelatte, lei abituata a cerimonie molto più intense e meditative. Che il caffè l’avesse disgustata? Accade anche a me quando sto male, forse lei aveva un rifiuto per quella caffeina così volgare ed esibita, una caffeina dai facili costumi che si presta a innumeri variazioni. Un kamasutra della caffeina che ogni barista conosce quando vengono ordinati tre caffè e insieme vengono specificate quattro varianti dell’oggetto da servire. Mentre per il thè, lei potrebbe dire, esiste una purezza intrinseca che lascia al delibante il compito di mutarne o meno, la fragranza, ma essa nasce per infuso, ed è in sé assoluta. Se fosse questa la ragione della perfezione delle volute di rottura ne avrei ulteriore considerazione. Come il nobile che nella sconfitta comunque sceglie una distruzione alta e rappresentativa di sé e di essa resta traccia come di un animo nobile finalmente mostrato nella sua intrinseca altezza anche nella prova e nella rovina. 

Guardo le scheggiature di smalto, ne vedo tracce vicino all’orrido scarico, ne facilito la perdizione. Pur tenendo tra le mani i pezzi seguo il tao della trasformazione, non li attaccherò con vile attack, sarebbe volgare violenza nei confronti della tazza, oltraggiata e  mutila nell’animo, consegnata con me al gusto acre dell’acrilonitrile Mai più la stessa, diverrebbe soprammobile inutile, lei così piena, la mattina, di vita liquida. 

Mia cara, ti consegno alla raccolta differenziata, siamo un popolo di rozzi anche nei rifiuti, pensa che non esiste una raccolta della porcellana, e neppure della terraglia forte, saresti davvero riciclabile ma su di te procedono per esclusione: non bisogna mischiarti col vetro, con la plastica, con i metalli. Finirai nel secco, e questo è un riconoscere la tua aristocratica natura, non ti mescoli con la plebaglia pronta ad essere riciclata con chissà chi e per chissà ché, ma resterai nella terra ad attendere immutabile il passare delle stagioni. Perché la classe non è compost. 

p.s. adesso che ci ripenso, non era un tang ma forse un ting, o un qing,  il suono, più breve e seccato dell’accaduto. Altra epoca, affettata e contaminata di dispetto e insofferenza per la malagrazia. Forse la tazza era ispirata da quest’epoca e tutto quello smalto nero deporrebbe a favore per un interiore lutto dei tempi: o tempora, o mores. Ecco perché il distacco non solo è più netto, ma disgustato da tanta imperizia. Come dire: non mi meriti, mi tolgo di torno, friggiti nel tuo unto con quelle sciacquette che ti faranno compagnia al mattino.